Ritratto d’artista

Una rara penetrazione in palleggio contro Memphis ha innescato una recente rimonta dei Kings

Terrel Brandon, Jamal Mashburn, Allan Houston, Jason Kidd e Chris Webber fanno parte dello stesso club, la tessera non è ambitissima, formato dai giocatori che hanno subito una microfrattura alla cartilagine del ginocchio. Di Brandon e Mashburn, nella Nba, si sono perse le tracce; se Jason Kidd è appena rientrato, l'Allan Houston, che dovrebbe uscire a giorni dalla lista infortunati, dovrà  farsi largo fra gli uomini che Isiah Thomas, non fiducioso sul suo pieno recupero, ha ammassato nel suo ruolo.

Non c'è dubbio che il 2 giugno del 2003 è cominciata la terza e conclusiva fase della carriera di Chris Webber. L'infortunio, subito nella semifinale di conference contro Dallas, gli ha tolto gran parte dell'esplosività  della parte bassa del corpo, specie sulla gamba sinistra: a 31 anni sarà  difficile rivederlo terminare le azioni con le fantastiche schiacciate del primo periodo di Golden State.

L'ex Michigan University è un giocatore che deve gestirsi nel corso della singola partita e rispetto alla prospettiva di giocarne fra 90 e 100. E' una realtà  difficile da accettare in una Nba cinica che concede contratti "osceni", dal punto di vista monetario, in cui sei giudicato, meccanicisticamente, per quanto puoi dare. In cui si tende a considerare tutti come un pezzo di carne: Webber con una gamba in meno, Mourning con un rene in meno, magari Artest con qualche rotella in meno.

Alla sua settima stagione nel nord della California, Webber sta producendo 20 punti a partita con 10.3 rimbalzi e 5 assist. Il suo talento offensivo non è mai stato in discussione. "Chris sta giocando come i grandi - è la benedizione del suo assistant coach Pete Carril - passando nei tempi giusti, tirando nei tempi giusti. E' la cosa più difficile da imparare." Il suo 45% dal campo è la fotografia del giocatore che è diventato: un tiratore di striscia dalla media distanza che ha bisogno di ricevere già  in movimento per provare a finire a ridosso del canestro.

Una metamorfosi evidente rispetto al Chris Webber dei primi anni, grande giocatore di post basso e tiratore dalla meccanica incostante. Il cambiamento nelle sue caratteristiche, per la verità , è arrivato prima dell'infortunio. E gli portò non poche critiche. Nei playoffs del 2002, quelli conclusi col supplementare di gara7 contro i Los Angeles Lakers, Adelman lo allontanò dal canestro, facendolo giocare sul gomito. "Da lì - commentò in quei giorni il coach - è più pericoloso perché può creare per se e per i compagni."

Il giocatore rispose con 21 punti a partite e con la sua interpretazione artistica del gioco. Le critiche vennero da chi, Charles Barkley in primis, accomuna il concetto di post basso a quello di virilità . La risposta del giocatore venne qualche mese dopo, smaltita la tremenda delusione per la sconfitta: "Non rinnego nulla - disse - perché sento di aver fatto veramente tutto provare a vincere."

Per rendersi conto di quando l'infortunio lo limita, basta osservare il suo modo di correre nelle seconde serate dei classici back-to-back Nba: i suoi passettini, quasi in punta di piedi, in transizione da una metà  campo all'altra si fanno brevi e strascicati. Recentemente è stato lui stesso ad ammetterlo: "Quando giochiamo in serate consecutive - sussurra - continuo a avere problemi con l'esplosività  della gamba e nei salti." Anche nel contenimento dei primi passi delle ali grandi avversarie, aggiungiamo noi. E con la quantità  di talento che la Nba offre in ala grande non è un problema da poco.

Non gli si può fare una colpa nemmeno quando chiede un turno di riposo come è successo recentemente per la gara casalinga contro gli Charlotte Bobcats. "Ho passato tutta l'estate - dice Chris - a guardare videotape. Ho studiato tutto quello che Magic Johnson faceva sul campo perché non era certo uno dei migliori atleti della lega. Eppure stava in campo con la sua completezza. Ecco cosa voglio fare per vincere: diventare il giocatore più completo della lega." La dice lunga sul grado di coinvolgimento dell'ex Washington in questo viaggio dei Kings.

Nel corso dell'estate, videotape a parte, Webber ha distribuito le tessere del suo club: Vlade Divac è stato chiaramente allontanato. Peja Stojakovic, accettato con riserva, ha chiesto apertamente di poter andare via. La società  non lo ha accontentato. "Gli ho parlato - dice Chris - e gli ho spiegato che nella Nba non si deve abbandonare a cuor leggero un'organizzazione vincente perché non è detto che l'erba sia necessariamente più verde altrove. Gli ho fatto l'esempio del mio passaggio da Golden State agli Wizards."

Parole da leader, di un giocatore che vuol tenere assieme il gruppo, ben sapendo di essere il riferimento della squadra. Gli stessi compagni, rispetto alla passata stagione, hanno accettato maggiormente il suo ruolo, riconoscendogli gli sforzi sul campo.
Anche il pubblico ha capito e, dopo la disapprovazione per la vicenda dei "pagamenti in nero" del periodo di Michigan, i fischi del finale della passata stagione regolare, mai dimenticati dal giocatore, ora mostra un atteggiamento più accomodante.

Webber li ripaga come ha sempre fatto non rinunciando a essere stesso: sul campo, "dipingendo pallacanestro" con le sue magiche mani, e fuori, non rinunciando mai a esprimere il suo pensiero. Ultimo esempio la difesa d'ufficio dell'amico Spreewel, squalificato dalla Nba per gli insulti alla tifosa di Los Angeles.

Sappiamo tutti che, probabilmente, tutto questo non sarà  abbastanza per raggiungere l'agognato titolo. Non è detto che questo debba essere l'unico metro di giudizio della grandezza del giocatore.
Se ne facciamo un fatto estetico, Webber è sicuramente fra i più grandi di sempre. In un'epoca strangolata da muscolari e giovani senza fondamentali Chris è come una boccata d'aria che ci riconcilia col gioco.

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