Il suo pallone rotolava solitario…
Autunno.
Non mi viene in mente un periodo migliore per i playground.
Da un lato all'altro del campo la brezza trascinava foglie cadute. Il rumore del suo passaggio tra le retine metalliche suonava come una leggerissima nota. Giocavo da solo.
Ne parlava spesso MJ: l'ispirazione del cestista diceva, è una cosa del tutto umorale; la senti immediatamente, al tatto, appena stringi il pallone. Una sensazione di totale controllo e la percezione di un filo invisibile che lega la sfera al canestro. Ecco, in quel momento, non c'è modo per impedirti di segnare. Il cerchio diventa sempre più grande, come una vasca da bagno. Il campo è tuo.
Ovviamente esiste anche la sensazione opposta, l'assenza totale di ispirazione. Il canestro diventa grande come un bicchiere ed un pallone non entrerà mai in un bicchiere.
Quel giorno il mio canestro era una cannuccia.
Intorno al campo solo una solitaria panchina. Il canestro emetteva suoni secchi come a dirmi di cambiare sport. Il ragazzo con la felpa grigia sedeva sulla panchina, scorreva la prima pagina di un giornale e talvolta mi lanciava occhiate perplesse.
Sorrise prima di iniziare a parlare.
"Sai" credo lo scopo del gioco, sia quello di far entrare la palla all'interno di quel ferro appeso lassù" indicò il cerchio metallico con l'indice puntato e continuò "per questo si chiama pallacanestro capisci, perché la palla deve entrare nel canestro. Direi che il tuo gioco sarebbe più efficace se tu riuscissi in questo intento". Scoppiò in una risata. Risi anche io.
"Spero tu non te la sia presa, mi piace molto scherzare" disse.
"Non ti preoccupare, il non prendermi sul serio è una ragione di vita."
"Ottimo allora, la vediamo allo stesso modo".
Si alzò, si sfilò la felpa e si diresse verso il campo. Indossava un orribile paio di pantaloncini corti una spanna sopra il ginocchio. La maglia sembrava recuperata dal sacco degli stracci sporchi di sua madre. Si avviò verso il canestro opposto al mio, esattamente nell'angolo opposto, uno di fronte all'altro.
"Non sei di queste parti vero?".
Me lo domandò mentre il suo pallone iniziava a scandire il tempo.
Ogni rimbalzo era come un secondo.
Ogni secondo era il tempo del gioco.
Solo il rumore della palla scandisce lo scorrere degli istanti in un campo da basket. Perché ogni giocatore, nel momento della partita, sente solo il tempo che il gioco impone. E chi ha in mano il gioco e lo sa gestire, gestisce il tempo.
Iniziai a parlare mentre il suo primo tiro fece suonare la rete metallica centrando il bersaglio.
"No. Non sono decisamente di queste parti! A dire il vero non so nemmeno di che posto stiamo parlando. Non sono mai venuto in questo playground."
Si guardò intorno. "Ora che mi ci fai pensare nemmeno io credo di esserci mai venuto. Questo silenzio, questi canestri. No, ne sono sicuro".
Si allenava nell'angolo del campo palleggiando in maniera regolare. Mai un apostrofo inatteso. Solo una continua successione di secondi e rimbalzi. Solo una metodica esecuzione dello stesso identico movimento.
"Non cambi mai il palleggio? Sempre così prevedile?"
Senza guardarmi sorrise ed aumentando il ritmo si mise a palleggiare tra le gambe, il pallone eseguiva il gesto in maniera precisa, prima di scorrere con rimbalzi ininterrotti rasentando il terreno. Viveva di vita propria, mentre lui si preoccupava solo di dirigerlo. La sfera percorreva velocemente un otto, disegnando il numero intorno ai piedi del ragazzo per poi eseguire, sempre più rapidamente, una successione di rimbalzi incrociati dietro la schiena del giocatore, che all'improvviso, come aveva iniziato, si fermò. Di colpo.
Fermò il tempo del gioco.
Ricominciò a tirare prima di parlare nuovamente.
"Adoro questo sport, gioco da quando avevo otto anni. Non mi sono mai serviti quei palleggi dietro la schiena, come non ho mai capito quale fosse l'utilità di non guardare dove stai per mandare un passaggio".
"Beh" non credo si parli di utilità , semmai di spettacolo" lo interruppi.
"Spettacolo? Cos è lo spettacolo? Io credo sia quello che mette insieme una squadra quando realizza un'azione corale. Quando si riesce a creare con i compagni una miscela perfetta, perché le partite non si vincono da soli. In quest'ottica, un assist, un rimbalzo, una palla rubata ma anche un blocco hanno lo stesso identico valore tra di loro. Solo quello che crea il team conta. E conta vincere, o almeno provarci. Conta giungere allo scopo direttamente" tutto il resto è solo circo. Non mi è mai piaciuto il circo."
Vi sono filosofie e filosofie cestistiche. In realtà il suo ragionamento non faceva una piega.
"Non fraintendermi – continuò – mi piace lo spettacolo, ma sono convinto che non ci sia nulla di più spettacolare che vedere una squadra sul campo impegnarsi muovendosi come un'orchestra che esegue alla perfezione uno spartito. Forse anche per via del fatto che io da solo non posso vincere; come puoi vedere salto quanto un vecchio con l'appendicite".
Cominciò a ridere.
"Pensa che quando gioco con amici che mi danno quindici centimetri, si lamentano perché alzo i gomiti in continuazione"mi chiedo cosa pretendano da uno della mia stazza. A sentirli sembra quasi a rimbalzo non lottino sgomitando e tirando spintoni"pensa se sotto canestro dicessero, 'o scusa se ho intralciato il tuo rimbalzo' oppure, 'sai questo te lo lascio, io aspetto il prossimo'."
Si fermò un istante a riflettere.
"Questo è uno sport serio, uno si arrangia come può. Chi è più alto ha qualche vantaggio, ma io non mi faccio spaventare. Se vuoi puoi".
Il suo viso era familiare. Comune come molti capita di vedere. Familiari erano soprattutto le sue parole. Assolutamente estranee ad ogni sorta di playground. Da quando mi diverto giocando nei campetti della mia città e non solo, ho avuto la possibilità di incontrare molti giocatori di basket o presunti tali. Tutti con un numero nel cilindro e tutti pronti a dimostrare la loro bravura. Ai meno creativi basta un terzo tempo circense per essere soddisfatti. Quelli "più" hanno bisogno di un paio di no look e se dotati da natura di un' elevazione degna di un tappeto elastico, viene buona anche una schiacciata giusto per lasciare le caviglie a riposo qualche secondo.
Il ragazzo no.
Dalle sue parole traspariva un'assoluta assenza di protagonismo ma un totale e disinteressato interesse per il gioco fine a se stesso.
Il pallone ripartì a scandire gli istanti. Ogni rimbalzo un secondo. Metodicamente ricominciò a tirare aggirando l'area pitturata. Scandiva i movimenti con rimbalzi regolari. Ad ogni passo, la sfera non faceva altro che eseguire ciò che lui le diceva di fare.
Mi voltai verso il mio cerchio e ricominciai a tirare.
Il pomeriggio scorreva istante dopo istante accompagnandoci.
Tra una pausa e l'altra mi voltavo verso il canestro dal lato opposto del campo per osservare i suoi movimenti. Era evidente che il basket non lo conosceva solo a parole. Per quanto sia difficile capire il valore di un giocatore mentre si allena da solo, traspariva una semplicità assoluta in ciò che lui faceva, sia che si trattasse di segnare cinque volte consecutive dall'arco o di eseguire invece un banalissimo palleggio. Mi venne spontaneo imitarlo, o perlomeno tentarci. Credo fosse una reazione quasi incosciente. Seguivo i suoi spostamenti cercando di muovermi conseguentemente, provando a riprodurre ciò che lui invece creava. Era strana la sensazione che mi arrivava dal vederlo giocare. Ero certo di non aver mai visto quel ragazzo. Ne ero sicuro. Eppure era chiaro il suo stile fosse familiare.
Dapprima il rumore dei rimbalzi provenienti dai nostri palloni suonò come irregolare, slegato, indipendente l'uno dall'altro. Più però seguivo i suoi movimenti e più il mio ritmo diventava simile al suo. Andavo dietro al tempo che imprimeva al gioco, imitandolo anche nel più elementare dei movimenti: ad ogni suo rimbalzo ne seguiva uno mio, ad ogni suo arresto e tiro io provavo ad eseguire lo stesso movimento, ad ogni sua finta io rispondevo con la stessa identica finta. Lui creava ed io riproducevo, o perlomeno tentavo. Più la sincronia aumentava, più diventava percettibile una sorta di traccia che lui lasciava da seguire.
Mi indicava cosa fare e come farlo. Era perlopiù una traccia invisibile, fatta di suoni, movimenti, idee trasmesse senza la parola. Impercettibile per una qualsiasi persona al di fuori del campo, ma reale e determinante per qualsiasi persona in quel pomeriggio avesse voluto unirsi al nostro gioco.
Nel momento in cui il suo palleggio cessava, tutto cessava. La guida che imprimeva al gioco svaniva, lasciandomi ignaro di ciò che sarebbe stato. Smetteva di dirigere il gioco impedendomi di sentire cosa avrei dovuto fare in quel momento.
Ed allora mi chiedevo cosa avrebbe significato giocare con lui e non solo imitarlo. Giunsi alla conclusione sarebbe stato esattamente come aveva accennato all'inizio del nostro incontro. L'appartenenza ad un meccanismo perfetto, nel quale ognuno avrebbe trovato il proprio tempo, il tempo per essere al proprio posto. Nulla di improvvisato. Un controllo totale, in cui il gruppo avrebbe migliorato il singolo e tutti avrebbero seguito chi comandava il gioco. Ed era chiaro sarebbe stato lui a comandare il gioco.
Passarono quasi due ore da quando era iniziata la nostra serie di tiri.
La sensazione era sempre la medesima. Non potevo dire di averlo già visto. Ero certo di non conoscere quel ragazzo probabilmente diciassettenne, eppure, qualcuno simile a lui l'avevo già incontrato. Ovviamente l'unica certezza che mi arrivava era data dal suo basket. Il ragazzo era poco più alto del metro ottanta, pallido come un cadavere e si dimostrava più taciturno di quanto lasciassero intravedere le prime parole del nostro incontro. Pareva estraneo a tutto ciò accadesse al di fuori del campo.
Dal momento in cui la palla fu tra le sue mani, le sue parole lasciarono il posto alle sue azioni.
Dal momento in cui scese in campo le sue parole divennero il suo gioco.
Esisteva solo il canestro ed il come renderlo più semplice da raggiungere.
Lo osservai un'altra mezz'ora prima di iniziare a parlare.
"Ti alleni sempre così tanto?"
Bloccò il pallone tra le mani. Sembrò ricominciare a respirare.
"Si, in realtà oggi batto la fiacca. Mi piacerebbe diventare professionista e credo di potercela fare. Anche mio nonno giocava. Lui preferiva il football, ma vale la stessa regola. Normalmente sono molto più come dire"religioso, metodico, costante. Se penso che i miei avrebbero preferito seguissi una carriera più sicura. Mia madre mi vorrebbe avvocato." Sorrise.
Si fermò un istante a riprendere fiato. Guardava nel vuoto come a riordinare le idee. Il campo era deserto come mai mi è capitato di vederne uno. Intorno al rettangolo da gioco solo il nulla a far compagnia alla sabbia ed alle solite foglie provenienti da chissà dove. Ricominciò a tirare.
Smisi di giocare e rimasi a guardarlo da bordo campo. Mi sedetti sulla panchina del playground dove prima era stato seduto lui. Era l'unica del campetto.
Il rumore della retina frustata, accompagnava il sibilo del vento.
Di fianco a me, il giornale che leggeva al mio arrivo, tenuto fermo dalla sua felpa.
I rimbalzi del pallone scandivano il tempo facendo da sottofondo.
Finalmente si diresse verso la panchina.
"Credevo saresti andato avanti sino a domattina. Pensavo di ordinare un po' di pollo, giusto per passare la notte."
Si sedette di fianco a me. "Non sarebbe stata una cattiva idea, ho una fame paurosa".
"Ti credo giochiamo da quasi tre ore. Anzi, tu giochi da quasi tre ore, io ho smesso molto prima. Te la cavi davvero comunque. A dire il vero, direi senza mezzi termini che sei impresionante"
"Spero sia un complimento questo." Si mise a ridere. "Ho ancora parecchia strada davanti."
"Tutti ne hanno. Tu però ne hai già percorsa molta. Se poi ti alleni sempre così".
Guardava i canestri con una sorta di insoddisfazione.
"A volte passo pomeriggi interi solo guardando altri giocare. Non ti immagini nemmeno quanto sia utile. Impari a capire come si muove un avversario, se sei un buon osservatore arrivi persino ad anticiparlo." Respirò a pieni polmoni ." Se sei in gamba riesci a capire ciò che vuole fare ancora prima che lo sappia lui".
"Tu sei un buon osservatore?" chiesi. Mentre parlava la giornata passava nella mia mente.
"Ci provo. Sto migliorando." Si alzò per rilassare le gambe."Mi impegno moltissimo per diventarlo." Sorrise e finalmente staccò lo sguardo dai canestri. Sembrava tornato nel mondo che esiste al di fuori del campo. Il mondo normale. Le sue parole, la giornata, le sue riflessioni, ronzavano ancora nella mia testa.
"Mi sa che il pollo lo mangio a casa stasera". Disse. Ascoltavo mentre parlava e mentre parlava riflettevo su quanto fosse strano il nostro incontro. "Questa sera sto in casa coi miei. Domani devo sbrigare parecchie faccende per l'università ". Avevo la sensazione di conoscere molte più cose di lui di quante in realtà avrei potuto. Eppure ero certo di non averlo mai visto.
"L'università ?" Feci finta di aver ascoltato. Non mi interessava nulla della sua università come mi interessava poco di tutto ciò in quel momento non trovasse un senso alla mia curiosità . E' un po' come il sapone che scivola dalle mani. Sai che puoi afferrarlo ma non riesci. Era così che mi sentivo. Le mie idee erano come una saponetta bagnata.
"Si l'università . Inizio quest'anno."
"Interessante. Dove Andrai?" mantenevo viva la conversazione solo per trovare il tempo di ricordare. Pensavo a tutti i playground sui quale avevo giocato. Pensavo a chiunque avesse potuto ricordarmi anche solo vagamente il mio nuovo amico. Nulla. Tanti volti, tante persone, ma nulla di simile. Eppure qualcosa mi sfuggiva.
"Andrò alla Gonzaga. La Gonzaga University."
Strano come a volte basti un secondo o una semplice e solitaria parola a cambiare tutto. Una sola espressione del viso o un'esclamazione. In quel caso bastò un nome.
Fu come un lampo. Mi fermai senza respirare. I miei pensieri si raccolsero immediatamente uno di fianco all'altro e si distribuirono in attesa che tutto diventasse reale. Il sapone era tra le mie mani.
"La Gonzaga? Washington?" Dissi.
"Esatto. Ci sei stato anche tu?" Chiese.
"No è un po' lontano da casa mia, ma la conosco." Mi mancava il fiato. Come era possibile? Non poteva essere.
Mi voltai verso di lui e guardai il suo viso pensando a quanto fossi stato stupido a non accorgermene prima. Non conoscevo quel ragazzo. Non lo avevo mai visto. Perlomeno non lo avevo visto da ragazzo.
Presi tra le mani la prima pagina di quotidiano che al mio arrivo gli faceva compagnia. Guardai i titoli facendo scorrere lo sguardo in cerca di conferma. La trovai.
Datava 28 giugno 1980. Rilessi. Rilessi ancora. Come era possibile?
Non avevo ancora un anno il 28 giugno 1980. Non avrei dovuto trovarmi lì. Non avrei potuto trovarmi li.
Eppure tutto era reale. Era così
Il tempo, si sposta solo secondo i rimbalzi del pallone. Conta solo il tempo dell'azione, della squadra. Ed il normale scorrere dei secondi svanisce.
Il tempo del gioco che fugge, si ferma. E lui teneva il tempo del gioco tra le mani.
Guardai il ragazzo seduto sulla panchina e scoppiai in una risata fragorosa. Lui mi guardò sorpreso. Tutti i miei dubbi si erano sciolti in una frazione di secondo e tutto aveva trovato un senso, una sua connotazione.
"Non so ancora quanti anni hai - domandai – "io 24. Tu ?"
"Io ne ho 18. sono del 1962" rispose mentre cercava incuriosito di capire cosa mi passasse per la mente.
Il suo viso era chiaro, come limpido era ormai il suo stile di gioco. La tecnica di palleggio, il passaggio, il tiro. Era chiara anche la sua filosofia. Prima la squadra che il singolo. Prima la tenacia e le motivazioni che il talento, perché se il secondo da solo non porta da nessuna parte, le motivazioni e l'attitudine ti rendono irraggiungibile. Tutto era logico ed i tasselli si erano incastrati tra di loro come in un perfetto puzzle.
Forse il tempo del gioco mi giocò uno scherzo.
La nostra breve conversazione, il suo modo di vedere la vita e il match, la sua determinazione. Divennero chiari persino i suoi sogni perché, anche se lui lo ignorava, io sapevo già ciò che gli sarebbe accaduto. Per filo e per segno. Nei minimi dettagli.
E sapevo che sarebbe riuscito a fare ciò che voleva.
"Ti va un uno contro uno?" Lo domandai come fosse la mia unica occasione. Lo era.
"No, davvero non ti offendere. Ora me ne vado. Magari la prossima estate"
Stava indossando nuovamente la felpa grigia. Si preparava a tornare a casa. Il suo pallone rotolava solitario sul campo da gioco. Non se ne accorse. Anche io lo vidi solo quando feci per andarmene e lo uso ancora, in ricordo di quell'incontro.
"Si" forse la prossima estate ci incontreremo di nuovo. Sai, non conosco ancora il tuo nome"" mentii, solo per aver conferma dello strano incontro.
"Hai ragione, sono imperdonabile – si voltò verso di me per un saluto – mi chiamo John".
Il tempo segue solo il tempo del gioco. E lui anche se ancora non lo sapeva sarebbe stato il padrone del gioco.
Avrebbe accompagnato e portato il tempo.
"Alla prossima estate allora. Un'ultima cosa" – si voltò ad ascoltarmi, mentre gli porgevo il giornale - in bocca al lupo John""
Al draft del 1984 gli Utah Jazz chiamarono con la scelta numero 16 un ragazzo semisconosciuto proveniente dalla Gonzaga University. Il suo nome era John Stockton.
Il 22 Novembre 2004 i Jazz ritireranno la sua maglia numero 12.
Nel mezzo 20 anni di tempo, trascorso dettando il tempo del gioco.