Auguriamo a Grant Hill di sorridere ogni giorno di questa nuova stagione…
"Il volo. Il pilota. La compagnia aerea. Grant Hill è alto 3 metri e mezzo, fino a che non atterra. E quando tocca il suolo porta solo scarpe col suo nome".
Già . Grant Hill allora non poteva saperlo. A ognuno di questi "voli", le scarpe che portavano il suo nome e che avrebbero dovuto proiettarlo nella ionosfera, in realtà disintegravano lentamente struttura, e resistenza, della sua caviglia sinistra. Sorte beffarda. Immeritata soprattutto. La vera causa dell'infortunio cronico di Grant Hill potrebbe trovarsi proprio tra le righe di questo vecchio spot, ideato dall'azienda di calzature che acquistò i diritti d'immagine dell'ex Blue Devil.
Un altro caso alla Martina Hingis: lo sponsor prima riempie di soldi il suo testimonial e poi lo rovina, fabbricando per lui una scarpa da basket con l'etichetta "ipertecnologica" ma con il marchio "corrosiva". Calma però. E' ancora presto per poterlo dire con certezza. Per ora si tratta di voci, nient'altro. Voci che in un modo o in un altro vedono protagonista e vittima nello stesso tempo un signore tanto bravo quanto sfortunato. Si chiama Grant Hill.
Durerà anni e anni nella Nba. Perché è un condottiero. Sa fare ogni cosa. Attacca. In qualunque modo. Difende. Contro tutti e su tutti. Prende rimbalzi. Tanti. Smazza assist. Pure. Perché rende i compagni migliori. Lo ha fatto subito. Da rookie. Roba che nemmeno Jordan era stato capace di fare, almeno nei suoi primi anni da professionista.
Grant è un'ala piccola, un'ala grande e una guardia. E porta palla. E' il secondo point forward della storia. Secondo a Scottie Pippen ma solo in ordine di tempo. His Graceful lo chiamavano alcuni. The King of triple double, il re della tripla doppia, altri. Ci si chiedeva se fosse un vincente vero oppure "solo" un giocatore eccezionale. E intanto, un certo signore chiamato Dan Peterson, alla domanda: "La migliore guardia tiratrice, dopo Jordan?" rispondeva placidamente: "Prendo Grant Hill. Non è una guardia? Fa niente. Dopo MJ, c'è GH".Grandissimo, esemplare, sensazionale. Born to be a star. Il nuovo Messia. Questo era il suo destino. Già . Ma forse no. Lo è stato, ma "solo" nei primi sei anni della sua carriera.
Dal 1995 al 2000 Hill viaggia a cifre da capogiro: 21,4 punti a partita, 7,7 rimbalzi e 6,2 assist. Non solo. E' il più votato dai tifosi per l'All Star Game per tre anni consecutivi. Miglior quintetto, miglior quintetto difensivo. E medaglia d'oro alle Olimpiadi di Atlanta. Grandissimo. Finché il destino, lo stesso che lo stava consacrando come astro più luminoso del firmamento Nba, decide di trasformare quella stella nascente, all'improvviso e senza pietà , in stella cadente. Cadente? Magari. Precipitata al suolo. Schiantata. Sbriciolata. Come la sua caviglia. La maledetta caviglia sinistra di Grant Hill, che di tornare a posto non ne ha mai voluto sapere, nemmeno dopo una, due tre quattro operazioni chirurgiche. E i numeri non mentono: 435 partite di regular season giocate in 6 anni con la maglia dei Detroit Pistons. 57 partite giocate nei successivi 3 anni con la maglia degli Orlando Magic.
Perché? Perché una sorte così spietata? Perché lui, così bravo, così pulito, dai movimenti così fluidi e limpidi? Lui, forse ultimo rookie approdato fra i professionisti Nba che non si è creduto subito Dio sceso in terra, tanto che era umile? Lui, adorato dai suoi allenatori, dai suoi compagni, dai giornalisti per le sue interviste mai banali, dal pubblico che nel 2001 lo vota in quintetto per l'All Star Game nonostante giochi solo le prime 4 partite di campionato… perché?
Per alcuni la risposta giusta è: "Sfortuna", per altri: "Iella". Spietata invece è la sentenza dei più maligni: "Punizione divina". Per l'unico "colpo di testa", capriccio se vogliamo, che Grant decide di concedersi l'ultimo anno in maglia Pistons. Capriccio che, secondo molti, uno come lui non poteva permettersi: il "tradimento".
Stagione 1999-2000. Playoff. I Detroit Pistons finiscono nuovamente fuori dai playoff al primo turno. Grant Hill, leader della squadra, è costretto a incassare l'ennesima cocente delusione. Così si sfoga, dice basta. Si lamenta dello scarso rendimento dei suoi compagni, secondo lui incapaci di migliorarsi. "Voglio andare via". Aveva raccolto poco, pochissimo, rispetto a quanto seminato in Michigan. Troppe volte aveva dovuto fronteggiare da solo un'intera squadra avversaria (famosa, in questo senso, una sua siderale stoppata rifilata aDikembe Mutombo in un primo turno playoff Detroit-Atlanta del '96). E allora desiderio esaudito. Per lui una nuova maglia: quella degli Orlando Magic. Ai Pistons, come contropartita, vengono spediti Ben Wallace e Chucky Atkins.
Scambio tutto a favore dei Magic. Accidenti e come può essere altrimenti? Un fuoriclasse in cambio di due gregari. E' talmente lampante. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare che invece, alla lunga, in quello scambio a rimetterci erano stati proprio Orlando e soprattutto Grant. Per lui, dolore frustrazione e sfortuna. Per Detroit, un giocatore capace di infiammare come e più del suo vecchio leader il Palace of Auburn Hills, Ben Fallace, che impara a migliorarsi e a trasformarsi da gregario buono solo a saltare a perno indispensabile della difesa dei nuovi Bad Boys, campioni del 2004.
Grant Hill firma per giocare con Tracy MacGrady e aspetta l'arrivo (poi mai avvenuto) di Tim Duncan. Tradimento, scrivono i giornali. E l'angelo caduto a Motortown, che ai Pistoni aveva preferito la Florida, appena entrato in quel che doveva essere il suo nuovo "Magic World", scopre quasi subito di aver perduto le ali. Il destino gliele aveva tolte. Perché Detroit non andava abbandonata. Un condottiero come lui doveva continuare a lottare coi compagni, per quanto mediocri e incapaci. Per migliorarli, spronarli a dare di più. Proprio come fece Jordan con i suoi Bulls. D'altronde, era Hill il vero, unico e puro successore di MJ.
Stagione 2000-2001. Quattro partite e subito un infortunio, serio, alla caviglia sinistra. La stessa operata nel mese di aprile, quando militava ancora nei Pistons (ricostruzione del malleolo). Stampelle e gesso. Stagione finita. Nove mesi di riabilitazione. Roba pesante. Che mette però Grant nelle condizioni di iniziare la sua seconda stagione con i Magic dall'inizio. Perché di arrendersi non vuole saperne. Perché per lui inizia una nuova dimensione come superstella Nba. Basta con i 20-25 punti a partita. C'è MacGrady in squadra con lui. E i Magic, di un altro realizzatore, non sanno che farne. C'è bisogno di un leader e lui, Grant Hill, è l'unico che può diventarlo. Un leader a tutto campo, dentro e fuori. Più cattivo, e più duro mentalmente. Anche a costo di ridurre i tiri, di risultare meno incisivo in attacco.
Inizia così una nuova stagione. Grant Prix viaggia a 17 punti di media, 8.9 rimbalzi, 4.6 assist, 1.75 recuperi in 36.6 minuti a partita. E' il primo della squadra nella doppie doppie. Eccolo, il nuovo Grant Hill. Migliore, più saggio e consapevole che il risultato di ogni partita dipende anche e soprattutto da come lui saprà giocare. "Se Hill dura così per tutta la stagione, Orlando finalista è una delle poche cose certe di questa stagione" recitano i giornali. Ma mai ragionare con i se e con i ma. Quattordici partite scintillanti. Poi il dolore, di nuovo, riprende il sopravvento.
Sconforto. Sfortuna. Novembre 2001. La caviglia di Grant torna a fare male. Come e più di prima. Lastre, radiografie. Dubbi, nessuno. Injured List e terza operazione chirurgica., i dirigenti dei Magic sono costretti a dichiarare per la seconda volta in due anni: "La stagione di Grant Hill è finita" . C'è uno sperone osseo da rimuovere, sempre da lì, sempre da quella dannata, maledetta caviglia sinistra.
Stagione 2002/2003. Sembra un deja vu dal finale già visto e rivisto, triste, lontano anni luce dagli happy end americani. Prima partita: 33 minuti e 18 punti contro i Sixers, grande vittoria di Orlando. Hill segna 17 punti la seconda partita, 27 la terza. Un inizio di stagione straordinario. Commovente. Con tre operazioni alla caviglia sul groppone e 4 viti di ferro infilate nel malleolo. Ma è troppo presto per i festeggiamenti Quattro viti di ferro, diamine, alla lunga non possono non dare fastidio. Lentamente, il rendimento di Grant inizia a scendere e lui sembra sempre più affaticato.
Immaginate una perfetta macchina da corsa, costruita per diventare la numero uno del campionato per almeno 10 anni. Ma che ha un difetto. Una delle quattro ruote è bucata, irrimediabilmente. Grant Hill. Quella macchina è proprio lui. "Non tornerà mai più quello di prima". "Avanti così e diventerà l'ectoplasma di se stesso". "Orlando guardi in faccia alla realtà : ha dato via due giocatori di livello medio per una superstar che si ritrova finita senza aver nemmeno percorso la parabola discendente". I numeri di Grant scendono, vertiginosamente: 14 punti, 7 rimbalzi e 4 assist.
A gennaio, il nuovo forfait. Due parole, un incubo ricorrente, sempre lo stesso: stagione finita. Terza volta in tre anni. Attorno a lui si stringe la famiglia, il padre Calvin ex Dallas Cowboys, la madre Janet che all'università divise la stanza con Hillary Clinton, la splendida moglie e il figlio. Tutti vicini a Grant, che deve prendere una decisione. Gettare la spugna, ritirarsi a una vita tranquilla e piena di comfort ma senza più poter mettere piede in campo, o ricominciare a lottare. Continuare ad avere fame di partite. Di gioco. Di basket giocato. Di vittorie.
La seconda opzione è quella giusta. Quarta operazione alla caviglia sinistra in meno di quattro anni. Non bisogna forzare stavolta. Riabilitazione più lenta, leggera. Ma il prezzo è alto. Altissimo. l'intera stagione 2003-2004 viene compromessa. "Basta, che appenda le scarpe al chiodo. Meglio avere di lui un bel ricordo, di quando spezzava le difese avversarie con quel suo primo passo inarrestabile che vederlo annaspare sulle grucce per il resto della sua carriera".
Addetti ai lavori tutti d'accordo. E con loro forse anche il Gm dei Magic John Gabriel, stanco di dover stipendiare con sonanti dollaroni un giocatore che passa più tempo in stampelle che in campo, con una caviglia composta più in parti di ferro che di materiale osseo.
Ma Grant Hill, nato il 5 ottobre 1972 a Dallas, stella della sua high school in Virginia, superstella alla Duke University, laureato con 2 titoli nazionali nel '91 e nel '92, terza scelta assoluta nel draft del '94 e matricola dell'anno nominato insieme a Jason Kidd, è di nuovo pronto a tornare in pista. Stagione 2004-2005. E' quella che inizia questo novembre.
“Non pensavo avrei mai giocato con Grant - dichiara Dwight Howard, prima scelta assoluta degli Orlando Magic quest'anno -. E' ancora un eccellente giocatore e può aiutare tutti noi a migliorare“. Gioca, corre, salta, difende. La pre-season torna a essere il suo palcoscenico. Che atletismo, che primo passo, che forma fisica. Avanti così anche in regular season, al fianco di gente come Steve Francis, Cuttino Mobley e lo stesso Howard, e Orlando si ritroverà come per magia (eh beh) un leader di 33 anni in campo e fuori, e un gruppo di giovani giocatori di talento affamati di playoff, di vittorie e di spettacolo. Sembra un sogno. Sia per Grant che per i tifosi dei Magic. Chi si sveglierà per primo?
"Non sono scarpe come tutte le altre. Ma anche Grant Hill non è un giocatore come tutti gli altri" recitava lo spot delle scarpe. La prima parte è meglio censurarla. La speranza è di non dover fare altrettanto anche con la seconda.