La Maratona di Boston

John Havlicek. Una carriera lunga 16 anni, interamente trascorsa in maglia Celtics.

The Greatest Game Ever. La più bella partita di tutti i tempi.
Esiste un solo match nella storia della NBA che può vantare tale impegnativa definizione. E per raccontarlo dobbiamo fare un salto indietro nel tempo di quasi trent'anni.

Tornare al 1976.
Un anno che vedeva la nostra piccola Italia dilaniata dal terrorismo e dagli anni di piombo, in un clima reso rovente dalle elezioni politiche di giugno. Le prime in cui serpeggiava reale la paura del sorpasso comunista.
La cadenza regolare con cui gli omicidi politici scandivano crudelmente i giorni di una campagna elettorale aspra e combattuta, che sembrò far precipitare la nazione al periodo dell'immediato dopoguerra, ed un Montanelli che invitava i suoi lettori a “turarsi il naso e votare DC” contribuirono ad esasperare un clima divenuto quasi surreale e tragica fotografia di una nazione mai come allora allo sbando.

In questo contesto esasperato, le sale cinematografiche salutavano l'uscita di Novecento, il capolavoro di Bernardo Bertolucci, un affresco storico-politico dedicato alla lotta di classe, mentre Lidia Ravera pubblicava il libro scandalo Porci con le ali, vero e proprio manifesto della società  e delle contraddizioni degli anni '70.

Negli States il presidente era il repubblicano Ford, subentrato due anni prima al dimissionario Nixon travolto dallo scandalo Watergate.
Gorge Lucas dava il via alla celebre sagra di Guerre Stellari, mentre un giovane De Niro da tassista per le vie di New York si trasformava in implacabile giustiziere.
Il primo album dei Ramones, pubblicato in aprile, inaugurava la nascita del movimento punk.

Ma per gli amanti del basket tutto questo forse è di “secondaria” importanza. Perché il 1976 è stato l'anno di Boston-Phoenix. The Greatest Game Ever.

Era un venerdì sera del mese di giugno, giorno 4, quando Celtics e Suns scesero sul parquet del Boston Garden per gara 5 di finale.
Una finale forse in tono minore, in un'epoca non certo florida per la NBA.

Proprio nel 1976 l'ABA era ormai arrivata al capolinea della sua breve vita. Il grande nemico era imploso improvvisamente, così come era nato, quasi dieci anni prima. L'NBA aveva finalmente vinto la sua personalissima battaglia, ma il prezzo da pagare era stato altissimo.

Ascolti ridotti al minimo storico, una situazione economica imbarazzante, la diaspora dei migliori giocatori fra le due leghe contendenti.
Lo spettacolo in campo? Non pervenuto.

L'anno precedente il titolo era andato ai Golden State Warriors in una finale contro Washington più nota perché consegnò il primo ed unico anello della carriera NBA al grande Rick Barry, che non per reali contenuti cestistici.

I campioni in carica avevano chiuso la stagione 1975-76 col miglior record della lega, 59 vittorie e 23 sconfitte. Anni luce davanti alle contendenti di una derelitta Western Conference.

I Lakers del neo acquisto Kareem Abdul Jabbar non emergevano dalla mediocrità  generale e veleggiavano tristemente sui bassifondi della Pacific.
I futuri finalisti Suns avevano a stento superato il 50% di vittorie (42 W 40 L).

Ad est a far da padroni erano stati i soliti Celtics, guidati da un grande vecchio, un figlio della magica era degli anni '60. Quel John Havlicek dalla rapidità  delle cui mani già  nel 1965 era nato un incredibile titolo per Boston.

Havlicek, il sesto uomo più grande di sempre, aveva 36 anni e si apprestava a vincere l'ultimo anello di un'eccezionale carriera.
Sedici anni tutti spesi in maglia Celtics, con la storica casacca numero 17. Otto titoli vinti. Undici volte primo quintetto della lega. Tredici volte All Star. Miglior realizzatore di tutti i tempi per Boston. Tra i primi dieci, massimo quindici giocatori della storia.

A dar manforte ad Havlicek, sotto canestro c'era Dave Cowens, un centro atipico, scelto nel 1970 da Red Auerbach col pick numero 4.
Velocissimo, Cowens possedeva braccia smisurate ed era un combattente nato. Con l'aggressività  sotto canestro riusciva a compensare la mancanza di centimetri rispetto ad avversari fenomenali quali Jabbar, Walton, Reed.

A completare lo starting five c'erano Paul Silas, Charlie Scott e Jo Jo White.
Scott veniva proprio da Phoenix ed era approdato ad inizio stagione a Boston in cambio di Paul Westphal, quest'ultimo divenuto in un anno da gregario dei Celtics a trascinatore dei Suns in quei playoffs.

Westphal era passato in una stagione dal segnare 9,8 punti a partita in maglia biancoverde, ai 20,5 punti nella regular appena conclusa in maglia Suns. Era un 6' 4'' con ottimi movimenti ed un gioco elettrizzante. Ottimo tiratore e discreto difensore.
Sarebbe stato uno degli eroi della serie finale.

Grazie all'apporto di Westphal (23 punti a partita nei PO) Phoenix riuscì sorprendentemente a piegare Golden State nella finale di Conference in sette tiratissime partite e a presentarsi per l'appuntamento decisivo contro i celtici.

La finale sembrava senza storia. Una squadra giovane ed inesperta da un lato. Vecchie volpi smaliziate e grandissimi campioni dall'altro. Lo sweep sembrava l'esito più probabile di una finale che ancora una volta sembrava non dovesse trasmettere particolari emozioni.

Neanche il riacutizzarsi di un brutto infortunio di Havlicek che gli aveva fatto saltare due gare nella primo turno di playoffs contro Buffalo, sembrò cambiare l'esito della serie.

Boston vinse gara 1 per 98 a 87, con i Suns tenuti al 38% dal campo.

In gara 2 i Celtics, grazie ad un parziale di 20 a 2 nel terzo quarto, si imposero senza affanni per 105 a 90. Lo sweep sembrava davvero vicino.

Gara 3 si giocò al Veteran Memorial Coliseum di domenica mattina per esigenze televisive. Phoenix scese in campo per nulla disposta a far la parte della vittima sacrificale. I biancoverdi non segnarono per cinque minuti nel secondo periodo e i Suns si portarono sul 33 a 17.
La rimonta dei Celtics non si fece aspettare. Ma Phoenix guidata dal rookie dell'anno Alvan Adams, un centro che aveva chiuso la stagione con 19 punti e 9 rimbalzi per partita, riuscì ad imporsi per 105 a 98.

Adams chiuse la gara con 33 punti e 14 rimbalzi, dominando nei minuti finali, ma Boston aveva perso per falli Cowens e Scott.
Al termine della partita il coach biancoverde, Tommy Heinshon, diede il via ad una polemica che si sarebbe protratta per l'intera serie e che avrebbe trovato culmine ed epilogo in gara 5. Quella sull'arbitraggio casalingo.

Le proteste di Heinshon però non diedero i risultati sperati. Solo nei primi dieci minuti di gioco di gara 4, vennero fischiati a Boston 21 falli.
La gara comunque fu equlibrata e sul 109 a 107 per i Suns, Jo Jo White ebbe la palla del pareggio. La sbagliò e la serie tornò a Boston sul 2 a 2. Un risultato sorprendente, ma privo di particolari emozioni.

Gara 5 era però vicina. La storia era dietro l'angolo.
Rick Barry che commentava la gara per la CBS la definì La più eccitante partita di basket che abbia mai visto.

Arrivai alla gara in anticipo. L'infortunio al piede non mi permetteva di allenarmi ed ero quasi completamente fuori forma. Andai al Garden in anticipo per lavorare sul tiro. Almeno quello volevo recuperarlo. Pensavo di giocare una ventina di minuti. Finii per restare in campo 58 minuti.

Con queste parole Havlicek ricorda le ore ed i minuti che precedettero quell'interminabile incontro.

La gara non iniziò in maniera entusiasmante.
Dopo nove minuti, Boston era già  avanti di 20. 32-12.
I biancoversi segnarono 38 punti solo nel primo periodo, con i Suns al palo.

Nel secondo quarto Phoenix provò a rientrare ma all'intervallo era ancora sotto di 15.

Ma nei due quarti successivi la difesa di Phoenix salì di tono e Boston mise a segno solo 34 punti complessivi. A quattro minuti dalla fine i Suns erano a meno 9. Completarono la rimonta nei secondi finali. Poi Perry per i Suns e Havlicek per i celtics, sbagliarono due liberi a testa sul 95 pari e la gara andò al primo overtime.

Il primo supplementare finì con altri sei punti per parte per ciascuna squadra. 101 pari, senza particolari sussulti.

Ma al termine dell'overtime successe qualcosa che molto probabilmente cambiò il corso della partita, consegnandola direttamente ai libri di storia.
Paul Silas chiamò un Time Out per Boston, quando ormai la sirena stava suonando. I Celtics non avevano più Time Out a disposizione e l'arbitro, Richie Powers, rimase dubbioso su come agire.

Secondo le regole avrebbe dovuto dare un tecnico a Silas ed un tiro libero ai Suns.
Quel tiro libero avrebbe verosimilmente chiuso la partita. I Suns avrebbero espugnato il Garden, rovesciando il fattore campo e si sarebbero giocati il tutto per tutto in gara 6 a Phoenix, mettendo comunque una buona ipoteca per l'anello.

Ma a proposito di arbitraggi casalinghi, Powers decise di ignorare la richiesta di Time Out, considerando che il tempo era scaduto. Non ci fu fallo tecnico. Non ci fu tiro libero. E si andò al secondo supplementare.

John MacLeod, giovane coach di Phoenix, andò su tutte le furie. Si diresse verso gli arbitri pretendendo il tiro libero. Powers fu irremovibile.
Le polemiche crescevano, il clima si infiammava e quel che sarebbe successo di lì a pochi minuti sarebbe stata la logica conseguenza.

Il secondo ovetime è quanto di più emozionante si possa pretendere da una partita di basket. A 15 secondi dalla fine, Boston era avanti di 3.
Il pubblico del Garden iniziò ad intonare il solito motivetto “We're Numer 1”.

Ma la partita era ben lontana dall'essere finita. Van Arsale segnò per i Suns.
Westphal rubò una palla, andò in transizione, ma sbagliò il tiro. Perry catturò il rimbalzo e siglò il 110-109 Phoenix.
Mancavano ancora 4 secondi.

Rimessa per Boston. Havlicek ricevette palla, riuscì a trovare un varco, si alzò in sospensione e cadendo all'indietro appoggiò di tabellone, firmando il controsorpasso Celtics. 111-110.

Di solito ero la prima opzione della squadra in quel genere di situazioni, ma non stavo bene e diventai la terza. Don Nelson eseguì la rimessa. White non era libero, Cowens non era libero.
Allora decisi di andare incontro alla palla. La presi e cominciai a palleggiare verso il canestro sperando di subire un fallo. Tenni il gomito in fuori per attirare il contatto, ma loro non caddero nel tranello. Capì che dovevo prendermi il tiro. E fu quel che feci. L'angolo era giusto. Segnai.

Il Boston Garden esplose di felicità . Centinaia di tifosi celtici forzarono la security e si riversano sul parquet per festeggiare i propri beniamini.
Havlicek si diresse verso gli spogliatoi a braccia alzate.

Mentre anche gli allenatori stavano abbandonando i loro posti, Power richiamò la loro attenzione.
Restava ancora un secondo da giocatore.
Il pubblico fu invitato a lasciare il parquet. La security ebbe il suo bel da fare per riportare ordine in mezzo al campo. I giocatori già  negli spogliatoi tornarono in campo per giocare quell'ultimo secondo di gara.

Fu allora che Westphal ebbe un'idea geniale.
Imitò Paul Silas, chiamando un Time Out che non aveva. La differenza era che Paul sapeva di non averlo.
Power sanzionò il fallo tecnico a Westphal e consegnò la palla ai Celtics per un tiro libero.
Jo Jo White lo mise, portando Boston sul più due. 112-110.

Ma ora Phoenix aveva la rimessa da metà  campo e la possibilità  di prendersi un tiro credibile.
Senza il time out chiamato e senza il tecnico, Phoenix sarebbe stata sul meno 1, ma con una normale e probabilmente inutile rimessa dalla linea di fondo.

Era mezzanotte. E Gar Heard ricevette palle in posizione frontale, spalle a canestro, oltre la lunetta. Si girò, tirò con una parabola altissima e segnò il canestro del pareggio nel silenzio generale.
La partita andava al terzo supplementare.

L'ultimo tempo si giocò in un clima surreale. Con quasi tutti i titolari di entrambe le squadre fuori per falli ed il pubblico del Garden ancora stordito per l'invasione di campo dopo la certezza della vittoria. Certezza ben presto tramutatasi in assurda incredulità .

Il terzo anno Glenn McDonald, ala di Boston di 24 anni, che aveva chiuso la stagione con 5,6 punti per partita in 13 minuti di gioco e che nove partite dopo quella gara darà  il suo definitivo addio alla NBA, tagliato da Milwakee, fu il protagonista assoluto di quel terzo overtime.
Segnò sei punti e consegnò la vittoria (e probabilmente il titolo) a Boston per 128 a 126.

The Greatest Game Ever era giunta al termine.

I Celtics si avvicinavano al tredicesimo anello della loro storia.
In gara 6 si imporranno anche in Arizona per il 4 a 2 finale, in una serie resa immortale da quell'indimenticabile gara 5.

Quella partita sembrò essere un segnale per la NBA.
I tempi bui stavano per finire. Di lì a poche settimane, il più spettacolare giocatore del pianeta approderà  nella lega, vestendo la maglia dei Sixers.
Un nuovo e promettente futuro si stava schiudendo per la National Basketball Association.

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