Quattordici giorni

James Naismith, il primo eroe

Quattordici giorni. Chiuse la vecchia porta di legno con la solita delicata compostezza. Impeccabilmente vestito nell'elegante abito scuro con cui aveva imparato a convivere già  dalla giovinezza, si diresse nel suo ufficio lasciando che per un attimo lo sguardo si allontanasse oltre le ampie vetrate, verso i campi dipinti di bianco: il solito rigido dicembre non lasciava spazio ad altro colore. Il suono dei suoi passi era l'unico rumore nell'aria oltre al brusio delle voci degli insegnanti.

Da quando, quattro anni prima, era stato nominato capo dello staff di insegnanti di educazione fisica della YMCA training school di Springfield, il suo ufficio era stato sempre lo stesso, ad un corridoio di distanza da quello che da poche settimane ospitava invece James Naismith. Proprio da quell'ufficio, era appena uscito con una richiesta precisa, più volte discussa amabilmente, con passione, ed ora convogliata in un definito compito professionale appena assegnato: il professor Naismith, canadese di Ramsay, aveva quattordici giorni per mettere a punto una "distrazione atletica" che permettesse ai ragazzi di praticare un'attività  fisica indoor. Qualcosa che li facesse muovere al caldo di una palestra, per farla breve.

Luther Hasley Gulick non poteva di certo immaginare l'entità  di una tale richiesta e nemmeno l'effetto che avrebbe avuto nel secolo (secoli?) a venire. Quel giorno di dicembre del 1891, "The Game" stava nascendo da un embrione disegnato da due menti fuori dal comune, due puri geni. Sì, geni: zero discussioni.

Tredici regole in quattordici giorni. Naismith fu puntuale con la consegna. Si presentò bussando, si sedette nel più ordinato degli uffici - al contrario del suo, sempre imperdonabilmente caotico – e senza nascondere orgoglio e timore presentò le tredici regole che aveva ideato, testimonianze dei principi che più volte entrambi, insieme, si erano trovati a condividere.

Gulick delle regole in effetti era un fanatico, si appassionava ai principi, all'autocontrollo. Più di tutto, era ossessionato e affascinato dalla combinazione in chiave sportiva di anima, mente e corpo. Era un medico, un sociologo ma, prima ancora, un filosofo, esattamente quanto Naismith, colui che dalle teorie estrasse un'opera d'arte in movimento. Entrambi non materializzarono un gioco, ma costruirono il loro sogno: dar vita a qualcosa che condensasse in se stesso tutti i concetti che avevano sempre reputato fondamentali per la crescita degli individui. Dal punto di vista fisico e, contemporaneamente, da quello mentale. Soprattutto, mentale.

Rimasto da solo nel suo ufficio, Gulick lesse e rilesse le tredici-regole-tredici: Naismith aveva fatto un ottimo lavoro e lui ne era cosciente. Mise il fascicolo in un cassetto; lo avrebbe letto e riletto anche più tardi, fino alla nausea. L'importanza del gioco di squadra e dell'abilità  davanti all'atletismo, erano il piede perno di concetti che, attraverso uno scopo puramente ludico, permetteva di sviscerare l'individuo in un contesto stimolante e al tempo stesso induttivamente educativo. I principi, tanto cari a entrambi, erano lì, pronti a diventare gesto atletico e trasformarsi da teoria a pratica nello spazio di un lay-up.

La prima volta. Il primo particolare che Gulick notava ogni volta che andava a seguire una lezione in palestra era la totale assenza di finestre. Si sedette nel solito angolo, facendo scricchiolare i legni chiari e lucidi della fila più alta. Naismith aveva appena terminato di spiegare in aula le regole del gioco: niente contatti fisici, niente tocco della palla con i piedi, niente corsa palla in mano. In classe i ragazzi erano 18 e per non lasciare nessuno a guardare la prima partita di basket si giocò nove contro nove. In effetti, il numero dei componenti era un particolare a cui non aveva pensato e sarebbe stato necessariamente uno degli aggiornamenti da fare al più presto" Intanto, benvenuto al nuovo nato!

Quel giorno di dicembre, agli occhi di un mondo allora ignaro, nacque qualcosa di immortale. Nacquero regole che crearono principi, schemi che formarono filosofie, storie che crearono eroi. Quel giorno di dicembre, uguale a tanti altri prima di allora, il basket, ancora informe ed incolore rispetto a quello estremo e comunque non ultimato di oggi, prendeva vita. L'essenza di allora, è l'essenza di oggi: il corpo solo se c'è la mente, gli uomini prima dell'uomo e la tecnica davanti al muscolo. La copia identica dei principi tuttora regnanti.

Ma è vero anche il contrario: il basket di oggi non è più quello di una volta. Si è arricchito di centinaia di ammennicoli e pendagli luccicanti che la premiata ditta Naismith & Gulick non poteva lontanamente immaginare e che ora come ora sono parte integrante di qualcosa che, grazie a loro, è molto più di uno sport. Per noi che viviamo nella sua contemporaneità , meno male che non è più quello di una volta.

Se questa è la prima volta che sentite parlare di questi due eroi, quelli veri – quelli che hanno fatto il Gioco – e se anche a voi si apre in testa una finestra con immagini in bianco e nero, un po' da film muto – avendo vissuto soltanto l'era moderna della pallacanestro – solo allora potrete intimamente sentire dentro la potenza e il misticismo del suono del primo pallone in pelle, della prima retina, dello stridere delle suole su di un parquet, della sirena, del grido di un coach.

Oltre a non giocarci, se non fosse stato per loro, non avremmo degli uomini da venerare, degli insegnanti, poster da incollare e pubblicazioni, e - la più grande delle rivoluzioni - un'economia di proporzioni globali: migliaia di gente che gioca, studia, lavora e insegna pallacanestro grazie a due uomini due.

Se tutti quelli che come noi adorano il basket gridassero contemporaneamente il loro "grazie" per questi due autentici e non troppo ignari eroi, non esisterebbe suono più capillare e potente producibile dall'essere umano in quanto specie. Poco ma sicuro.

Ogni volta che gioco, in fondo in fondo, sto facendo la più onesta ed autentica delle dediche. Sottovoce, "grazie".

See ya' by In The Zone

Andrea De Beni

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