Jerry Krause, non giudicatelo dall'aspetto…
66 anni è l’età giusta per godersi la pensione ed i nipoti. Jerry Krause, “The man Bulls fans loved to hate”, l’uomo che i tifosi amavano odiare, come scrisse di lui Sam Smith, il più famoso giornalista sportivo di Chicago, di anni ne ha giusto 66, è dimagrito 15 chili da quando ha lasciato i Bulls, e della pensione e dei nipoti non sa che farsene.
Infatti oggi fa lo scout per i New York Yankees. Osservatore nel baseball, una roba che aveva smesso di fare nel 1985. Da allora nessuno ha vinto come lui e nessuno è stato odiato come lui. Oggi Krause non c’entra più nulla con i Bulls, ma da quando se n’è andato non è cambiato niente. L’anno primo dell’era Paxson è stato semplicemente peggiore degli ultimi di Jerry.
Vita da Krause
Il padre di Krause si chiamava Karbofsky. Arrivò a New York negli anni ’30 dalla Polonia, ma ad Ellis Island gli impiegati addetti alla registrazione dei dati anagrafici lo storpiarono in Krause, come accadde anche a tanti altri immigrati europei.
I Karbofsky si trasferirono a Chicago, quartiere di Albany Park, dove il piccolo Jerry imparò a giocare a baseball e basket. Al college, a Bradley, fece il catcher a tempo perso nella squadra di baseball ed il collaboratore tecnico a tempo pieno in quella di basket.
Dopo la laurea cominciò a fare l’osservatore nella Nba. Lavorò per i Baltimore Bullets, poi per Bulls, Suns e Lakers. Quando tornò al primo amore, il baseball, trovò Cleveland, Oakland e Seattle disposte ad ingaggiarlo, ma alla fine tornò a Chicago, chiamato da Jerry Reinsdorf per occuparsi dello scouting dei White Sox.
La telefonata di Reinsdorf che gli cambiò la vita arrivò il 26 marzo 1985, mentre era in California: credeva si trattasse del mercato dei Sox, invece gli fu offerta la poltrona di Gm dei Bulls, vacante in seguito al licenziamento di Rod Thorn.
Rivoltando i Chicago Bulls
L’organizzazione societaria era arretrata, mancavano uffici per i rapporti con i media, lo scouting delle altre squadre era inesistente, nessuno si occupava degli abbonamenti, semplicemente, chi li voleva telefonava. Krause costruì una società moderna ancor prima di una squadra vincente.
Senza mai tremare davanti a nessuno. Assunse come allenatore Stan Albeck, che faceva l’assistente a New Jersey, ma cambiò idea nel giro di dodici mesi, e promosse il giovane Doug Collins, che di Albeck era l’assistente.
Krause stimava Collins, che aveva portato i Bulls da 30 vittorie ai playoffs, ma pensava che fosse troppo nervoso e che il suo carattere aggressivo ed insicuro danneggiasse la squadra. Sono le stesse critiche che Collins sente oggi. Così nel luglio 89 licenziò Collins e promosse il suo sconosciuto assistente, Phil Jackson.
In breve Krause si conquistò la fama di scopritore di talenti, e l’aver pescato il coach più vincente della Nba moderna mentre giaceva inosservato nelle minors, in preda alla tentazione di smettere e diventare avvocato, non ha potuto che giovargli.
I tasselli del puzzle
Nel 1985 i Chicago Bulls erano “Michael Jordan ed altri 11 giocatori che non volevamo più vedere”, come Krause confessò al Chicago Tribune. La scelta di Jordan resta un vanto della precedente dirigenza, ma i pezzi mancanti portano tutti la firma del figlio del vecchio Karbofsky. Dal draft del 1985 arrivò Charles Oakley, da Virginia Union, un altro sconosciuto.
Due anni dopo, in un colpo solo Krause scelse Scottie Pippen, che il suo assistente Billy McKinney aveva scovato a Central Arkansans, e Horace Grant, in pratica le future guardie del corpo di MJ.
Ogni tassello della squadra dei primi tre titoli è stato messo al suo posto da Krause: Cartwright, B.J.Armstrong, Paxson, anche se ovviamente a vincere sul campo furono i giocatori. Fu MJ a mettere i canestri che mandarono in soffitta la dinastia di Detroit, così come le sei bombe consecutive nel primo tempo di gara 1 della finale del 92, che tagliarono le gambe a Portland.
Fu Mike tirare i Bulls fuori dalla buca l’anno successivo, contro Phoenix, e dalle sue mani partì l’assist per il threepeat, destinatario John Paxson, ma fu Krause a contornarlo degli uomini giusti, fu lui a togliere il vecchio Tex Winter dalla pensione cui era destinato, credendo nell’attacco triangolo come nessuno prima. Fu lui ad affidarsi ad Al Vermeil, che lavora ancora oggi con i Bulls ed è considerato un guru del fitness.
Quando Jordan si ritirò, nel 1993, e provò col baseball, Krause puntò forte su un ragazzo di Spalato, che l’aveva incantato ai Mondiali Juniores del 1990, quando l’aveva visto stoppare Alonzo Mourning da un lato e chiudere il contropiede schiacciando dall’altro. Si chiamava Tony Kukoc. Krause è stato uno dei primi a scoprire l’Europa: non riusciva a darsi pace fin dal draft del 1989, quando i Lakers chiamarono Divac, che lui non conosceva.
L’arrivo di Kukoc, e soprattutto il problema del suo contratto, lo misero contro Pippen e Jordan, nel frattempo rientrato a casa dopo il flirt col diamante, ma tecnicamente (per Tony bastò una seconda scelta, la numero 29) fu un colpo sensazionale.
Quando i Bulls uscirono maltrattati dai Magic nei Playoffs del 1995, Krause capì che il vuoto lasciato da Grant andava riempito. Così in città arrivò Dennis Rodman, uno dei migliori rimbalzisti della storia, e a San Antonio andò Will Perdue. La madre di tutte le trade. I pezzi erano di nuovo al posto giusto, e fu ancora tripletta.
Alle radici dell’odio
Le radici dell’odio nei confronti di Krause risalgono al marzo 1986, quando Jerry si presentò con un registratore in mano ad un meeting con Michael Jordan, che fremeva per accorciare i tempi del suo rientro da un infortunio, ed il team medico.
In realtà voleva solo evitare fraintendimenti futuri, ma urtò la suscettibilità della sua giovane star, che lo accusava di voler perdere apposta per scalare posizioni nel draft di fine stagione. Fu solo l’inizio.
MJ non ha mai perdonato a Krause l’impegno dedicato al contratto di Kukoc e non a quello di Pippen, l’aver giocato al ribasso con l’ingaggio di Phil Jackson e soprattutto l’aver dichiarato che erano le buone organizzazioni a vincere i titoli, a sua volta la madre di tutte le uscite infelici.
Jordan se la legò al dito, non mancando di ricordare che quando aveva 40 di febbre al Delta Center, in gara 5 delle finali del 97, qualche canestro da parte della proprietà lo avrebbe proprio gradito. Krause ovviamente sapeva di aver esagerato, ma non riuscì mai a recuperare un’immagine positiva.
Nella percezione del tifoso medio Krause è stato l’uomo che ha messo fine anzitempo ad una dinastia, l’uomo che si presentava con le braccine corte ai rinnovi con MJ, ben sapendo di non poter vendere qualcosa che apparteneva alla città come Al Capone e il lago Michigan. Fu ancora Krause a cacciare Jackson per affidare la ricostruzione al suo compagno di pesca, Tim Floyd, forse la peggior mossa della sua vita.
Nel curriculum di Krause ci sono anche atti di riconoscenza pura, ma non hanno mai avuto eccessiva risonanza. Eppure fu lui a scambiare Pippen con un sign and trade privo di significati tecnici, perché portò ai Bulls Roy Rogers, ma permise a Pippen di prendere 20 milioni di dollari in più di quelli che Houston avrebbe potuto dargli direttamente.
Krause ha trovato un dottore in grado di operare la trachea di Cartwright, usurata da anni di gomitate, costruendogli, di fatto, una nuova carriera, quella di allenatore. Non è servito a nulla: è rimasto sempre crumbs, briciole, come lo chiamava MJ disgustato dalle sue cravatte unte.
L’ossessione
In realtà , quando tentò di ricostruire, nel 98, Krause era ossessionato dal ricordo dei Boston Celtics che si erano tenuti stretti le loro stelle, i Bird, i McHale ed i Parish fino alla fine, sprofondando in una mediocrità da cui stentano ancora oggi a riprendersi.
Potevano scambiarli finché valevano qualcosa, pensava Jerry. Krause ha dato un prezzo alle icone sportive di una città intera: ecco qual è stato il suo grande errore. La decisione di smontare il giocattolo, comunque, risaliva già ad un anno prima, precisamente al draft del 1997.
Krause si era invaghito di un liceale, e per averlo offrì il grande Pippen proprio ai Celtics, che, perso Duncan nella lotteria, erano disposti a cedere le loro scelte numero 3 e 6. Krause chiese anche Antoine Walker, mentre i Celtics arrivarono ad offrire i due picks ed Eric Williams: non se ne fece più nulla, ma gli indici di gradimento del Gm andarono a picco.
Per la cronaca, il liceale si chiamava Tracy McGrady. Quel giorno i Bulls vinsero l’ultimo titolo ma si condannarono alla mediocrità futura.
Sei anni d’inferno
La ricostruzione è durata tanto, troppo, se è vero che è ancora in corso e che ad un certo punto a Krause l’hanno tolta di mano. Gli errori sul mercato sono stati palesi, ma all’uomo va riconosciuta l’onestà di averli ammessi.
Krause è stato uno dei primi a capire quanto fosse importante non strapagare giocatori che non lo meritavano, ma poi lo ha fatto lo stesso, sbagliando valutazioni importanti. Ha offerto un contratto folle a Tim Thomas, che poi i Bucks pareggiarono, ha dato sei milioni l’anno a Eddie Robinson, un affare che i Bulls rimpiangono ancor oggi, e ha sbagliato a puntare su Ron Mercer.
Nel 1999 la sorte gli regalò la prima scelta assoluta. Voleva Lamar Odom, ma non riuscì mai ad incontrarlo nel pre-draft e non si fidò, così scelse Elton Brand. Quel giorno Krause scelse anche Artest al 16 e allestì una frontline di tutto rispetto con lui, Brand e Brad Miller, ma non era convinto fosse quella giusta ed ha finito per smontarla.
Di fatto la storia gli ha dato torto. Jalen Rose, per avere il quale spedì ad Indiana Mercer, Miller e Artest, non è mai più tornato ad essere quello che Krause pensava, quello che aveva visto nelle finali del 2000, e nemmeno la linea verde imboccata negli ultimi anni ha avuto esito positivo. Fino ad oggi cedere Brand per Tyson Chandler è stato un errore madornale, ma soprattutto è stato un errore pensare che potessero bastare i giovani per riportare in alto i Bulls.
Sviluppare il talento di Chandler già di per sé sarebbe stato difficile, ma farlo in contemporanea con quello di Eddy Curry si è rivelato impossibile. Metterli in campo equivaleva a perdere, lasciarli fuori a non vederli imparare, un dilemma che è costato caro anche a Bill Cartwright. Jamal Crawford, che Krause rapinò ai Cavs nel draft del 2001 scambiandolo alla pari per Chris Mihm, era un talento selvaggio, ma non è un giocatore completo nemmeno adesso, tre anni dopo.
Ultime briciole
L’ultimo Jerry Krause è stato travolto dalla sindrome del liceale, dall’idea che qualunque 18enne in tre anni avrebbe potuto trasformarsi in un Garnett o un Bryant. Il resto lo ha fatto la sua cattiva reputazione. Jerry aveva liberato decine di milioni di spazio salariale per darli a Duncan e McGrady. Il primo non lo ascoltò nemmeno, il secondo lo prese in giro, arrivò a Chicago, ascoltò la banda, lanciò la prima palla alla partita dei White Sox e poi firmò per i Magic.
Negli ultimi 6 anni Krause ha sbagliato tutto ciò che umanamente avrebbe potuto sbagliare. La sua reputazione, se possibile, è peggiorata. Altri hanno avuto trattamento ben diverso. John Gabriel, l’ex Gm dei Magic, per dirne uno, è stato coperto di gloria senza che avesse vinto nulla, poi ha ceduto tutto ciò che aveva di buono in squadra ed ha ricevuto metà delle critiche avute da Jerry. Jerry West è unanimemente considerato un genio, ma ha vinto solo un titolo in più di Krause.
Probabile che tocchi ancora una volta alla storia rendere giustizia ad un uomo troppo spesso sottovalutato.