Ovest: il regno di Duncan?

Senza Shaq a Ovest, via libera per Tim…

Orfana di Shaq, la Western Conference ha tutto per diventare, di fatto, il regno di Tim Duncan, unico centro dominante di quella che da anni è la costa statunitense più ricca di talento. Ancora una volta saranno le squadre dell'Ovest le favorite per la conquista dell'anello. Va avanti così da sei stagioni e la prossima non farà  probabilmente eccezione, Detroit Pistons e Isiah Thomas permettendo. E allora per forze di cose, San Antonio dovrebbe diventare, o meglio ritornare, di diritto, la favorita numero uno.

Accidenti, e come potrebbe essere altrimenti? L'immarcabilità  di Duncan è roba della serie "alla scoperta dell'acqua calda"… Camby, Dampier, Yao, Divac, Brand, Magloire, Ostertag. I centri più validi della western conference sono questi. Validi sì, ma non così tanto da eguagliare le cifre del numero 21 degli Spurs. Non così tanto da limitare il suo gioco offensivo, spesso inarrestabile.

Certo sarà  interessante vedere come il caraibico reagirà  dal punto di vista emotivo a un'eventuale disfatta della sua nazionale alle Olimpiadi, ma è anche vero che il buon Tim ha sempre mostrato di essere una persona serena e lucida, nella vittoria e nella sconfitta, nonché uomo da ultimo tiro (va ricordato che la serie Lakers-Spurs, "prima dell'impossibile" firmato Derek Fisher, era finita a 4 decimi dalla fine di gara 5 proprio con una magia del caraibico).

La squadra è giovane e gode di un sistema di gioco ben collaudato. Due titoli in sei anni mica piovono così per caso. Ci sarebbe stato da divertirsi, se non fosse stato per the Fish, vedere San Antonio in finale di conference contro Minnesota e, eventualmente, nella finalissima contro i Pistons.

Avremmo visto una squadra svogliata, altezzosa e sicura di sé come lo è stata quella di Los Angeles? Difficile, con gente come Ginobili, Bowen e lo stesso Tim. Difficile per una squadra che ha conquistato due anelli schierando una superstella e, con essa, tanti atleti che sempre hanno dato e danno il mille per cento in campo. Ma è meglio fermarsi qui, dal momento che questo è un ragionamento fatto con i se e con i ma.

Quintetto Spurs, si diceva. Sono stati confermati Bowen, Parker e Nesterovic, mentre l'impalpabile Turkoglu (specie nei playoff) è stato spedito a Orlando per far posto a Brent Barry, tiratore di razza dalle alte percentuali che a San Antonio mancava dal ritiro di Steve Kerr, a sua volta preceduto da colleghi altrettanto illustri, quali Chuck Person, Mario Elie, Stephen Jackson e Danny Ferry.

"Brent Barry è quello che a San Antonio mancava per puntare al titolo". Parere diffuso, questo, fra numerosi addetti ai lavori americani. E allora sarà  subito quintetto per il figlio del grande Rick? Non è detto. Anzi. L'ipotesi più credibile è che sarà  Manu Ginobili a entrare nello starting five.

Eh già . La grande paura è passata. L'argentino ha rifirmato con un contratto che si avvicina ai 60 milioni di dollari. Ora, la speranza per i tifosi bianconeri è che anche Greg Popovich si sia reso conto finalmente del suo valore immenso. Giocatore Nba a tutti gli effetti che merita di stare in campo 35 minuti e non 20 uscendo dalla panchina. Nel momento in cui sono iniziate a circolare voci insistenti di mercato sull'ex virtussino, gli Spurs hanno capito di non poter fare a meno di lui. Del suo fosforo in campo, della sua difesa e del suo essere un giocatore decisivo, e a tutto campo, nei momenti che contano. E la sua splendida Olimpiade non fa che confermare tutto questo.

Ipotizzando l'argentino nello starting five, Brent Barry andrà  meglio dalla panchina (per lui è la prima volta in una squadra che punta al titolo): tiro dal perimetro, punti immediati e buon atletismo. Sarà  un tipo Chuck Person, ma in più rispetto al vecchio Rifleman darà  buona difesa e capacità  di tentare l'entrata a canestro e cercare i due tiri liberi (molto rare erano infatti le apparizioni nell'area del buon Chuck). Grazie a lui, ora gli Spurs hanno un altro sesto uomo con i fiocchi. Un altro? Sì perché oltre a Ginobili, anche Robert Horry ha deciso di restare a San Antonio. E questo forse è l'acquisto più importante.

Shaq lo voleva con sé a Miami. Fosse stato l'unico. Tutti volevano l'uomo uscito nel '92 dall'università  di Alabama. Cinque anelli vinti, due con Houston (che inizialmente voleva cederlo ai Pistons in cambio di Sean Elliott) e tre con Los Angeles. Vinti sì, e da protagonista. Con la maglia dei Rockets fece ammattire esperti e solidi mestieranti quali Charles Oakley e Horace Grant, costringendoli a uscire dall'area per difendere sul suo gioco perimetrale allontanandoli così dal canestro lasciando da un lato Olajuwon libero di giocare uno contro uno e infilando dall'altro triple pesanti come macigni.

Con i gialloviola ha invece più volte tolto le castagne dal fuoco a Shaq e compagni nei playoff addirittura alla sirena. E spesso e volentieri proprio contro gli Spurs. A 34 anni, Horry è ancora considerato indispensabile per qualunque squadra che aspiri al titolo. Perché è un 2.08 che garantisce in ottica playoff tiro da tre punti, intelligenza tattica e soprattutto difesa super indistintamente su centri o guardie. Qualità  che non si può leggere nei numeri, i suoi in costante ribasso (ultima stagione a poco più di 4 punti e 3 rimbalzi di media, cresciuti a 6 punti e 6 rimbalzi nei playoff). Difficile riesca a tenere a bada Bryant anche quest'anno, ma bastoni fra le ruote lui riesce sempre a metterne e una sfida Horry-Garnett sarebbe tutta da gustare.

Il resto della panchina? E' all'altezza? Mmm. Qualche mugugno è lecito. A Detroit tutti hanno svolto il loro compitino ed è andata bene. Con Elden Campbell, Hunter, Williamson. San Antonio ha rifirmato Sean Marks e preso Tony Massenburg: profondità , nient'altro. Ma occhio all'eclettico Devin Brown, autore di una Summer League davvero sorprendente e che gode di grande stima da parte di Popovich (forse troppa, vedi playoff). Il più grosso punto interrogativo però, pende sulla testa di Malik Rose.

Ovvero un'ala forte con statura da guardia (!!!) che ha servito diligentemente per 7 anni la causa degli Spurs. Negli ultimi playoff, tuttavia, Popovich lo ha dimenticato in panchina e sarà  interessante vedere come vorrà  gestirlo quest'anno. Male non è, questo è certo, e nel gioco assomiglia molto proprio a Williamson. L'idea è che forse andrebbe utilizzato meglio, perché il reparto lunghi è uno dei punti deboli di Duncan e compagni. Lui, Rasho e Malik sono gli unici del reparto, oltre a Horry, che però viene utilizzato anche in altri ruoli, e a Kevin Willis, 43enne vicino al ritiro.

San Antonio favorita dunque. Ma attenzione. Meglio non dare troppo fiato alle trombe. Magia di Fisher a parte, gli Spurs hanno mostrato parecchi limiti nella serie con i Lakers. Uno su tutti, la tenuta psicologica di Tony Parker durante i playoff. D'accordo, il playmaker francese ha giocato in maniera impeccabile gara 1 e gara 2.

Ma è bastato che Gary Payton si sia ricordato il suo nickname, "The Glove", senza per questo giocare comunque al massimo del suo potenziale, e per il buon Tony si è fatta notte fonda, lui che almeno dal punto di vista atletico avrebbe dovuto stravincere il confronto con GP. E di playmaker validi all'Ovest ce ne sono parecchi: Sam Cassell e Troy Hudson, Marquis Daniels, Nash, Bibby e ora anche Bob Sura. Senza considerare che lo stesso Bruce Bowen, ok buon difensore, ha mostrato parecchi limiti nel contenere Kobe Bryant.

Punti deboli che forse Popovich non ha le capacità  di head coach per colmarli. Tempo fa si parlava dell'arrivo di Jason Kidd, ma attualmente le casse degli Spurs non sono poi così ricche ed è difficile che New Jersey lasci andar via il playmaker in cambio di Kevin Willis e Malik Rose.

Avversarie principali di San Antonio? Bah. Sacramento e Minnesota, lo scorso anno fra le favorite, non hanno messo a segno colpi di mercato degni di tal nome. La franchigia dei Maloof ha dovuto dire addio all'intelligenza tattica di Vlade Divac rimpiazzandolo con la stazza e le stoppate di Greg Ostertag. Mossa che per carità  non per forza penalizzerà  Webber e soci, tuttavia c'è il rischio che senza il serbo il gioco dei Kings perda fluidità  in attacco. In più, Stojakovic ha chiesto di andar via.

I T-Wolves d'altro canto hanno riconfermato Trenton Hassell, buon giocatore per carità , ma pur sempre Trenton Hassell, e Troy Hudson. Forse non basta. Forse serve qualcosa in più. Garnett vorrebbe Ray Allen ma è dura. E mai come quest'estate è così importante rinforzarsi, per una squadra Nba che punta al titolo, di almeno un elemento. La grande lotteria dei free agent è stata manna dal cielo per molte franchigie della Western Conference, e ora godono di roster a dir poco ambiziosi. Nella speranza di azzeccare l'anno buono e di candidarsi a sorpresa come favorita numero uno. Questo vuol dire concorrenza spietata.

C'è chi è convinto che in Finale ci arriveranno i Rockets di Houston, forti dell'asse Yao Ming-MacGrady, sulla carta devastante e decisamente più futuribile di quella formata (e ora sciolta) da Shaq-Kobe. Sura e Ward daranno una mano (basta con lo zombie Mark Jackson). Ma attenzione sotto canestro: Yao prende ancora pochi rimbalzi per la sua altezza e quello che dovrebbe essere il suo compagno di reparto, Juwan Howard, è bravo ma non proprio un'ala forte da centro area.

Grandi attese naturalmente per i Denver Nuggets, negli ultimi due anni la squadra più "simpatica" della Lega. L'arrivo di Kenyon Martin (che duelli contro Duncan), lui che un santo non è, potrebbe cambiare questo sentimento ma mette per forza Anthony e compagni nella condizione di aspirare a qualcosa di più dei semplici playoff, anche se Jon Barry non dovesse restare (sarebbe poi un tantino esagerato dire che senza di lui Denver non può vincere il titolo: un tiratore c'è, e si chiama Lenard).

Un gradino sotto ecco i Phoenix Suns con Steve Nash e il trio delle meraviglie Stoudamire-Marion-Johnson. Già , ma chi tiene Duncan? Il centro titolare è Jake Voskhul e il suo cambio, Zarko Cabarkapa"

Infine i Lakers. Chris Webber ha recentemente dichiarato che saranno i gialloviola gli avversari da battere. C'è da credergli? Chissà . Via Shaq, si ripartirà  da zero o quasi. Kobe Bryant è rimasto, e questo mette per forza di cose i lacustri sicuri nei playoff nonché outsider nella corsa alla Finale (aspettiamoci dal figlio di Joe un ritorno al trentello di media). Se poi accanto a lui c'è gente come Lamar Odom, l'airone nero che più di ogni altro si avvicina al gioco di Kevin Garnett, Vlade Divac, tatticamente prezioso per le sua qualità  di passatore nonostante i 37 inverni sul groppone e due fantastici atleti come Caron Butler e Brian Grant, ecco a voi servita una squadra ricchissima di talento che, se il nuovo head coach Rudy Tomjanovich saprà  gestire al meglio in un sistema di gioco che soddisfi le manie di protagonismo di Kobe, potrebbe davvero dar ragione a Webber.

"There are one thousand reasons to love this game". Un'altra stagione sta per iniziare.

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