Facce di Bronzo

Tim Duncan e Shawn Marion perplessi sembrano dire: 'Ma chi ce l'ha fatto fare?'

Otto anni fa Reggie Miller, Charles Barkley e Scottie Pippen per la prima volta nella loro vita furono d'accordo nell'esprimere un'opinione. Avevano appena vinto la finale di Atlanta contro l'allora Yugoslavia dei Bodiroga, Djordjevic, Danilovic, Paspalj e Divac, faticando nel primo tempo ma dilagando come al solito nel secondo nella più classica delle partite del Dream Team.

Non era "The Original Dream Team" ma si avvicinava molto, potendo contare anche su giocatori come Olajuwon, Robinson, Shaq, Malone, Payton e Stockton ancora nel meglio della loro carriera.

Con il microfono addosso, ancora sudati ed ansimanti, dissero preoccupati "stanno arrivando", riferendosi a quelli che loro chiamano "international". I nuovi barbari, stavano per attraversare il loro mondo, quello della pallacanestro giocata mezzo metro sopra l'anello, e con le loro scorribande cestistiche si apprestavano a destabilizzare la loro supremazia.

La loro convinzione si concretizzò in una certezza due anni fa ad Indianapolis. Qualche dubbio sull'approccio dei giocatori di Team USA e sulla loro condizione fisica lasciavano però ancora in sospeso il giudizio finale di molti addetti ai lavori.

Adesso, dopo il torneo olimpico di Atene finito con la vittoria dei Gauchos e con Team USA sul gradino più basso del podio possiamo ufficialmente affermare che sono arrivati.

Argentini, italiani, serbi o lituani che siano, sono arrivati e dopo Indianapolis, anche ad Atene hanno saccheggiato le medaglie più preziose relegando i malcapitati statunitensi a posizioni per loro inusuali. La sconfitta di Atene ha confermato che Team USA è malato ed apparentemente impotente contro le squadre che giocano questo tipo di pallacanestro.

In questi giorni molti si sono allineati ad una corrente di pensiero sensazionalista, diffusa un po' su tutti i giornali italiani, che crocifigge Team USA reo di aver giocato fuori forma e con atteggiamenti di superiorità  nei confronti degli avversari. Qualcuno ha addirittura ipotizzato per loro un atmosfera da All-Star Game.

Per quello che ho potuto vedere, l'approccio mentale alle partite di Atene è stato estremamente diverso da quello di Team USA 2002 ad Indianapolis. Pierce e compagni cominciavano a giocare veramente nella terza o addirittura quarta frazione di gioco. Team USA 2004, se si fa eccezione per la partita disastrosa contro Portorico, ha giocato con intensità  tutte le partite, soprattutto quelle del dentro-o-fuori, ed ha rispettato gli avversari sin dalla prima partita.

Quelli che apparentemente hanno mostrato più interesse a confrontarsi tra loro in una gara di schiacciate piuttosto che sfidare l'avversario per la vittoria finale sono finiti ben presto in fondo alla panchina. Carmelo Anthony, Lebron James ed Amare Stoudamire, il fiore all'occhiello della X Generation NBA sono stati limitati dallo staff tecnico di Team USA, ricevendo poco spazio nelle partite decisive.

Il mio parere, diffuso in modo particolare tra gli addetti ai lavori oltreoceano, è che i problemi di Team USA non sono di natura mentale. Come ha detto anche Steve Kerr, ormai analista televisivo, gli international teams giocano la pallacanestro meglio di noi. Atene ha sentenziato che la pallacanestro giocata negli Stati Uniti non è più la migliore pallacanestro giocata sul pianeta.

I migliori giocatori prendono le loro decisioni entro un secondo dopo aver ricevuto la palla. Decidono de andare a canestro in entrata, tirare in sospensione o passare e questo crea ritmo offensivo. Se prendiamo ad esempio la partita contro gli argentini, i ragazzi di Coach Magnano raramente hanno tenuto la palla tra le loro mani per più di uno o due secondi.

Ironia della sorte gli argentini hanno giocato un attacco semplicissimo chiamato "flex", che è stato una colonna della pallacanestro americana degli anni '80-90. Un insieme di movimenti senza palla difficili da difendere soprattutto se ci sono in campo cinque avversari con le mani buone che posso tirare con buone percentuali ed in ogni momento. Giocando così hanno allargato il campo ed hanno preso molti tiri incontrastati mettendo a tappeto Duncan e compagni.

Viceversa Team USA si è intestardito a cercare soluzioni personali muovendo poco la difesa avversaria centellinando gli aiuti con movimenti senza palla e mancando così di quella continuità  che avrebbe fatto dilagare l'attacco stelle e strisce. Team USA ha giocato in perfetto stile NBA del ventunesimo secolo che a questo livello non si è dimostrato più efficiente di quello espresso dalle altre nazioni.

Uno Stile NBA fatto di giochi a due, pick & rolls o isolamenti che lasciano la palla al miglior giocatore della squadra liberando tutto lo spazio possibile per consentirgli di andare uno contro uno con l'avversario diretto.

Gli attacchi tipo flex, che coinvolgono tutti e cinque i giocatori, negli ultimi anni sono stati rottamati perché molti giocatori non sanno tirare da fuori, e senza tiratori la difesa avversaria non si apre per onorare o meglio difendere su chi gioca sul perimetro.

I giocatori di questa generazione passano più tempo tra gli attrezzi a costruire il proprio fisico che a costruire una meccanica di tiro efficace. I professionisti di una volta invece usavano l'offseason per migliorare le loro percentuali al tiro o per mettere in faretra un tiro nuovo da presentare al loro rientro.

A loro parziale discolpa c'è anche da dire che nel ventunesimo secolo si può diventare professionisti anche dopo un centinaio di partite all'High School, dove la strapotenza fisica contro avversari da campetto dell'oratorio nasconde tutti i limiti tecnici dei giocatori. Il college, scuola anche di pallacanestro, è diventato un passaggio non più necessario per diventare buoni giocatori. Questo può essere vero per qualcuno baciato in fronte dagli dei della pallacanestro ma non per tutto un movimento cestistico.

In difesa poi Team USA non è andata meglio visto che al secondo passaggio spesso avevano già  perso l'avversario con la palla. Dopotutto la maggior parte di questi giocatori non ruotano e non eseguono gli adeguamenti nemmeno a casa loro figurarsi se lo vanno a fare in una vacanza in Grecia. Marbury ha addirittura ammesso di non aver mai giocato contro questo tipo di attacchi. Faceva prima a dire che non aveva mai difeso fuori dal Rucker Park.

Altra nota dolente per questo Team USA è stato il roster che non è sembrato ben assortito. Tutti gli analisti hanno evidenziato che a Team USA mancavano dei tiratori. Tutti hanno invocato in mezzo a quelle stelle la presenza di uno come Michael Redd, all star capace di caricare il tiro in tempi brevi e soprattutto capace di segnare da 3 con continuità  senza bisogno di troppo spazio.

Ma Redd, o uno come lui, quelli del comitato selezionatore di Team USA non l'hanno nemmeno chiamato. In compenso hanno selezionato Richard Jefferson e Shawn Marion due doppioni che non sono tiratori dalla lunga distanza, anche se buonissimi giocatori da campo aperto e buoni difensori. Senza contare la concomitanza di Carmelo Anthony e Lebron James.

Con la linea dei tre punti avvicinata rispetto alla NBA avrebbero potuto scegliere giocatori capaci di segnare con continuità  da quella distanza come Brent Barry o Wally Szczerbiak.

Quanto avrebbero fatto comodo a Coach Brown anche giocatori operai come Brad Miller, Brian Cardinal o Fred Hoiberg, lontani dai riflettori durante l'anno nel loro paese ma tanto utili per giocare nel basket FIBA e soprattutto capaci di far quadrare una squadra.

E' chiaro che la NBA ha condizionato Team USA anche nelle scelte del roster, fornendo alla loro nazionale giocatori “propaganda” per continuare quell'opera di colonizzazione nel mondo che loro chiamano "Global Game". Nei loro highlights su NBATV gli atleti operai sopracitati si vedono raramente, perché portarli ad Atene?

Ovviamente il commissioner della NBA David Stern ed il suo braccio destro Russ Granik, appena capito che la nave stava affondando, hanno subito pensato bene a ribadire che questo team non rappresentava la NBA e che i migliori giocatori erano rimasti a casa.

Vergognatevi, non potete usare le Olimpiadi come un grande cartellone pubblicitario. Da oggi cambiate casa, non siete degni di lavorare e vivere nell'Olympic Tower.. O andate via voi o cambiate il nome al vostro grattacielo.

Per finire poi riconosciamo un po' di colpe anche noi, che ci ostiniamo a chiamarli Starbury, The Answer o The Matrix, invece che con i loro nomi di battesimo. Siamo noi che forse li abbiamo sempre visti come un fenomeno da baraccone, un circo di acrobati, che li abbiamo messi sul piedistallo ed adesso godiamo nel tirarli giù.

Queste olimpiadi spero che ci abbiano riportato tutti con i piedi per terra e ci abbiano fatto ricordare che la pallacanestro è uno sport, non uno spettacolo e che lo sport è una cosa seria fatta di ore ed ore passate insieme in palestra a lavorare sui propri limiti. Non si può costruire una squadra vincente in un paio di mesi perché non si può più vivere di rendita con i mezzi atletici dei giocatori, bisogna lavorare soprattutto sulla tecnica.

E in futuro cosa ci aspetta? Intanto per non sbagliare nella NBA continuano ad importare giocatori stranieri con interesse e nei prossimi Draft, anche alla luce dei risultati di Atene, sembrano intenzionati inflazionare ancor di più le prime chiamate.

I prossimi dovrebbero essere il centro lituano Martynas Andriuskevicius, l'ala serba Nemanja Aleksandrov, il lungo cinese Yi Jianlian apparso qua e là  anche in questa olimpiade e le guardie spagnole Rudy Fernandez e Sergio Rodriguez, con quest'ultimo fresco MVP ai recenti europei Under-18.

Forse dopo la medaglia d'argento cominceranno a mandare scout anche in Italia, dove il materiale che fa ben sperare per il futuro non manca. Luca Garri è già  il presente ma qualche nome per il futuro vale la pena citarlo.

Cominciamo dall'ala classe '85 Andrea Bargnani che giocherà , si spera sempre più, per Treviso e che è già  stato invitato per l'Hoop Summit della primavera scorsa dove ha giocato per 19 minuti in compagnia del cinese Yi Jianlian e dello spagnolo Rodriguez in una partita vinta di 20 dai coetanei statunitensi e dominata da Josh Smith, dal prossimo anno proprio tra i professionisti di Atlanta.

Nel futuro azzurro troveremo sicuramente anche la guardia classe '86 Marco Belinelli, che gioca a Bologna e che nelle qualificazioni per la fase finale agli europei Under-18 ha fatto spalancare gli occhi a tutti con più di 26 punti a partita. Ancora più in la, classe '88 il prospetto più interessante è la guardia/ala Danilo Gallinari, figlio d'arte di Vittorio che lo scorso anno ha giocato a Casalpusterlengo e di cui anche i siti americani ne parlano già  con estremo interesse.

Ora la palla passa agli americani. Se la NBA ed i giocatori della loro X Generation riusciranno ad imparare questa lezione sicuramente in futuro li troveremo ancora sul gradino più alto del podio perché loro sono e restano i migliori.

Altrimenti ragazzi liberate le vostre menti perché, dopo l'argento, l'oro non è più un sogno.

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