La foto simbolo dell'Original Dream Team: Magic sul podio…
Ebbene sì, lo ammetto. Sono un inguaribile nostalgico. Chi non lo sarebbe?
Palle vaganti, tiri forzati, un gioco raramente fluido, alley hoop sbilenchi.
Tutto questo è stato, per me, Usa-Portorico, amichevole pre-olimpica giocatasi a Jacksonville il 31 luglio. Che tristezza. Sonno, sbadigli, occhi che si chiudevano, zapping a ogni time-out, noia. E il soporifero Claudio Coldebella al microfono.
Il nuovo Dream Team? Nossignori, questa è "soltanto" la nazionale degli Stati Uniti. Punto e basta. Lo hanno scritto i giornalisti dopo i mondiali di due anni fa. Lo ribadisco io qui, adesso, tra queste righe: la vera squadra dei sogni è stata, è, e sarà sempre, una sola.
Facciamo un passo indietro. Anzi un salto. Di 12 anni. La Fiba (Basketball's international governing body), con voto unanime, decreta la possibilità da parte degli Stati Uniti di scegliere i giocatori Nba per la squadra che li rappresenterà nelle Olimpiadi di Barcellona del 1992.
Decisione ingiusta, non c'è più religione, sono tutti venduti. Macché. Una soltanto fu la reazione delle selezioni del Resto del Mondo. Zero amarezze, zero polemiche, ma un semplice "Ok, ragazzi, quest'anno, si va in campo per la medaglia d'argento. E per gli autografi, ognuno per sé".
Roba da far strabuzzare occhi e orecchie. E' come se al termine della partita fra, chessò, Milan ed Empoli, i giocatori toscani si fiondassero da Maldini e compagni per avere autografi e foto ricordo. Impossibile vero? Beh, la parola impossibile, per l' Olimpiade di Barcellona, scomparve inspiegabilmente da ogni vocabolario.
Una squadra fantastica composta da veri fuoriclasse. Raccontare così quegli Stati Uniti è nient'altro che un insulto. Significa sminuirne dieci, cento mille volte il suo valore reale. Non è abbastanza, ma è altrettanto vero che giornalisti e mass media, nel trovare le parole giuste per descriverli, si trovarono (e si trovano tuttora) in grande imbarazzo. Proviamo a metterla così: vedere quei campioni giocare tutti assieme era come avere in campo l'intera Hall of Fame, nella sua vera essenza e sostanza. Una Hall of Fame che poteva finalmente correre, schiacciare, respirare sotto i nostri occhi.
Nessuna squadra, prima di allora, aveva mai potuto contare su un roster così ricco di talento cestistico. Non basta. Mi correggo: così ricca di talento cestistico e atletico . No, ancora non ci siamo. Mi ricorreggo: né prima, né mai. Erano i migliori giocatori della Nba. Alcuni, i migliori di sempre. Grandi professionisti, grandi uomini. Non uno di loro che disse "No grazie, ho da fare", (al contrario la routine, ahimè, di questi tempi).
Certo, negli Usa qualche non mancò qualche polemicuccia. Come potevano mancare? E' pur sempre di America che si stava parlando. Una su tutte: la scelta di Scottie Pippen, sacrosanta, con conseguente esclusione di Isiah Thomas. Qualcuno storse il naso. Ma tant'è. Solo un po' di fumo. Nient'altro. Michael Jordan, Larry Bird, Magic Johnson, Charles Barkley, Patrick Ewing, Clyde Drexler, John Stockton, Karl Malone, David Robinson, Chris Mullin, Scottie Pippen e un giovanissimo Christian Laettner. Questa la lista completa di quel team. Vero che i nomi li conosciamo tutti, ma solo averli riletti dà sempre grandi emozioni. Chi dice il contrario?
C'era un solo modo di ammirare questo elenco di fuoriclasse, in campo ma anche solo leggendolo su giornali, tv e riviste: occhi sgranati, sguardo attonito e bocche spalancate… Insomma, con il fiato mozzato in gola.
Alcuni avversari, cito i giocatori del Brasile perché fra di loro militava un certo signore chiamato Oscar Schmidt, rimasti così tanto impressionati da quella squadra, quasi fosse l' Impero degli Invincibili, terminata la partita si buttarono in massa verso la panchina di coach Chuck Daly. La missione? " Mister Michael, un autografo? Ehi signor Larry, che ne dice di una foto? ". Ma certo. Quando poteva ricapitare un'altra occasione? C'è chi dice che lo stesso Laettner, con non poco imbarazzo (lui che propriamente timido non era), si avvicinò durante un allenamento a Magic, con in mano la vecchia maglia di Duke. "Mi scusi signor Earvin, non è che mi farebbe"".
Il resto si racconta da solo. Un cammino trionfale, quello di MJ e compagni, un turno dopo l'altro fino alla finale contro la Croazia. Tutto si concluse proprio qui, proprio contro Kukoc e compagni, nella finalissima valevole per la medaglia d'oro. Finì 117-85 per gli Stati Uniti. Durante un'intervista, Chuck Daly (per lui anche due titoli con i Bad Boys), collocò gli Invincibili in un'ottica che aveva del trascendentale: "Questa è stata e sarà sempre una squadra inimitabile. E sapete quando l'ho capito? Stanotte. C'erano 180 paesi sintonizzati e tre miliardi (") di persone che ci hanno visto giocare. Devo aggiungere altro? Ora, in ogni parte del mondo, c'è un ragazzino di 12-13 anni che sta sognando di essere Magic, Michael, Larry o Charles Barkley. E' una sensazione che non si può spiegare, ma di sicuro è qualcosa che fa bene non solo alla pallacanestro, ma anche e soprattutto allo sport. Abbiamo regalato alla gente un sogno. A questo e con questo sogno, ora e per sempre, la gente cercherà di sopravvivere".
Una squadra da sogno. Dream Team, per l'appunto. La perfezione. Michael Jordan, miglior giocatore e realizzatore di sempre. Magic, il più grande passatore di ogni epoca. Larry Bird, probabilmente il giocatore più completo che abbia mai calcato il parquet. Charles Barkley, il più grande rimbalzista rapportato all'altezza. Mettiamoci anche un David Robinson, uno Scottie Pippen, Karl Malone, Chris Mullin e John Stockton. Ecco servito un quintetto che a Barcellona avrebbe vinto senza particolari patemi d'animo la medaglia d'argento. Se non fosse stato che giocavano tutti con la stessa maglia. Gli stessi colori.
Il Dream Team dominò l'Olimpiade dall'inizio alla fine. Tredici partite (incluse le amichevoli pre-competizione), mai una squadra che li mise alle corde. La finale contro la Croazia era anche una rivincita, se così si può dire, proprio di un'amichevole giocata a senso unico poco prima delle Olimpiadi. In quella partita, la superstar croata di allora, un giovane Toni Kukoc, segnò appena 4 punti.
In finale, per un attimo, il vento accennò a soffiare in un'altra direzione. Kukoc giocava contro i suoi futuri compagni (ma l'avrebbe mai immaginato?) Pippen e Jordan, ed estrasse fuori dal suo cilindro un inizio di gara scintillante, così come il suo compianto compagno di squadra Drazen Petrovic. Dopo 10 minuti di partita, la Croazia guidava il punteggio e il pubblico di tutto il mondo cominciò a dubitare che potesse esistere un Dream Team. Forse era nient'altro che il risultato della fervida immaginazione dell'uomo. Forse la perfezione davvero non poteva esistere. Erano balle. Quella notte, la perfezione scese in campo per giocare a basket. La perfezione era diventata realtà .
Un parziale di 15-2 alla fine del primo tempo, un altro all'inzio del secondo (11-2). Giochi fatti. Gli Stati Uniti avevano solo scherzato e i milioni di spettatori alla visione, finalmente sì, lo avevano capito. Il sorriso di Magic, la linguaccia di Jordan, la cattiveria di Sir Charles, l'eleganza dell'Ammiraglio, il fosforo di Stockton, l'atletismo di Pippen. Tutti quanti insieme avevano estasiato il pubblico, gli avversari, se stessi.
Stati Uniti coperti d'oro, con 32 punti di scarto. Per Kukoc 16 punti, 24 per Petrovic. Dall'altra parte? Sette, e ripeto, sette giocatori americani in doppia cifra. Sette giocatori in doppia cifra in una finale Olimpica. MJ (22), Barkley (17), Ewing (15), Pippen (12), Magic e Mullin (11) e "the Glyde" (10). Non si è ancora ripetuta una cosa del genere.
Larry Bird invece giocò 12 minuti senza segnare, in quella che fu l'ultima partita della sua carriera. "Un'esperienza indescrivibile - raccontò con occhi stanchi e lucidissimi – Non sentivo una tale adrenalina i corpo da tantissimo tempo e questo può succedere solo quando vinci ogni partita con 50 punti di scarto, e nonostante questo ti diverti dando sempre il massimo. C'è un solo motivo che mi ha spinto a giocare in questa squadra. Anzi due. Il primo perché è il modo migliore per terminare la mia carriera. Il secondo è che potrò dire ai miei figli di aver giocato nella più grande squadra di pallacanestro di ogni epoca ". I microfoni si spensero. Le luci calarono. E sipario fu.