Larry Brown: 63 anni e un'estate di fuoco davanti, dopo le finali l'olimpiade
“Varese show: gli dei hanno tremato” – Gazzetta dello Sport, 16 ottobre 1999. Non c’è niente da fare, quando penso al rapporto tra l’Nba ed il resto del mondo mi sovviene l’ultimo McDonald’s, quello di Milano. San Antonio Spurs – Roosters Varese 96-86: i campioni d’Italia che mettono paura ai campioni del mondo.
Il torneo non si è più disputato, quindi almeno la verginità dei club Nba è salva, ma da allora la credibilità del basket americano è comunque crollata. Ci hanno pensato le nazionali.
La prima picconata al muro di Berlino la dettero Sidney 2000 e la tripla di Jasikevicius. Ovvio che quando la tua vita dipende da un tiro ritorni sulla terra, che entri o esca poco importa.
Poi i mondiali di Indianapolis. Le sconfitte contro Argentina, Serbia e Spagna: la vergogna compiuta. La peggiore, da quando gli yankees smisero di far la guerra con gli universitari e cominciarono a mandare gli uomini.
Nei sogni selvaggi della federazione, ad Atene il basket americano sarebbe dovuto sbarcare con tutta la sua forza d’urto, la stessa impiegata nel preolimpico di San Juan.
Un anno dopo i big della Nba, quelli veri, scappano dalla maglia olimpica come fosse appestata, nonostante l’impegno nel Peloponneso fosse noto da tempo. Gli dei tremarono, quel giorno del 99, perché erano ancora percepiti come tali, e non solo nel titolo della rosa. Oggi sono avversari come gli altri. Da battere. Anzi, adesso affrontarli fornisce motivazioni supplementari.
Ginocchi che vanno e Al Qaeda che resta, torte nuziali e scuse banali
Al preolimpico di San Juan, l’estate scorsa, è scesa in campo una cosa molto simile alla miglior squadra possibile. Bibby, Kidd, Ray Allen, Iverson, McGrady, Carter (sostituì Bryant, operato alla spalla), Martin (rimpiazzò Karl Malone, cui morì la madre pochi giorni prima del via), Jermaine O’Neal, Duncan, Brand, Collison e Richard Jefferson: questi i 12 che si guadagnarono la qualificazione vincendo 10 partite su 10.
La speranza di Larry Brown, per Atene, era quella di avere Garnett al posto di Collison, Bryant al posto di Jefferson, e di provare a convincere Shaq, cui avrebbe fatto spazio Brand. A queste condizioni sarebbe stato legittimo riparlare di Dream Team.
In Grecia, in realtà , andrà una versione decisamente annacquata rispetto a quella che incendiava i sogni di Brown. Ci sono ancora Iverson e Duncan, il resto è un ricordo.
Frutto dell’impressionante serie di rinunce registrate in queste settimane. Infortunati: Kidd, probabile operazione al ginocchio, Brand, idem, Jermaine O’Neal, ginocchio lui pure. Niente da fare anche per Garnett e Carter (che si sposeranno in estate), per Ray Allen (imminente paternità ), Malone (ha bisogno di riposo), Martin (free-agent, vuole dedicarsi al contratto…), McGrady e Bryant (impegnato nel processo).
L’impareggiabile Shaq, dal canto suo, ha ponderato, analizzato, e gentilmente declinato.
Poi c’è il problema sicurezza, che è un capitolo a parte. Lo hanno citato soprattutto Garnett e O’Neal II. Le spese stanziate per la sicurezza di Atene 2004 sono nell’ordine del miliardo di dollari, ma la nazionale Usa passerà lo stesso 4 notti ad Istanbul, per delle amichevoli.
E sappiamo che non tutti gli americani sanno distinguere la Turchia dall’Iraq.
In Grecia l’alloggio sarà a bordo della Queen Mary II, una nave da crociera ancorata al largo di Atene. E magari qualcuno ha raccontato a Garnett di uno dei tanti colpi messi a segno da Al Qaeda, quello del 2002 contro una nave americana nelle acque dello Yemen. C’è poco da commentare: gli americani, a torto o a ragione, in certe situazioni si sentono al sicuro solo a casa loro.
Il dato più avvilente, comunque, è che tutti questi niet variamente motivati, Brown non se li è visti sputare in faccia direttamente dai ragazzi. In molti casi, su tutti Tmac, lo hanno saputo prima i giornalisti di Espn. Questo ci regala l’unica certezza: tra matrimoni e infortuni, contratti da rinnovare e timori di attentati, qualcuno ha la coscienza sporca.
Dentro i secondi: chi ride, chi piange e chi s’in***za
Ad oggi i convocati sicuri sono 7, tra cui Iverson e Duncan, gli unici a tener fede alla parola data. Conferma, anche in virtù di una stagione sopra le righe, per Jefferson.
Gli altri: Marbury, Lebron James, e la coppia dei Suns, Marion e Stoudemire. Restano 5 posti: pressoché sicuri Ben Wallace, Carlos Boozer e Dwyane Wade, per gli altri 2 ballano i nomi di Rip Hamilton, Odom, Redd, Brad Miller, e Reggie Miller, che ha entusiasmato Brown segnando contro di lui la tripla della vittoria in gara 1 della finale di conference.
Hamilton darà una conferma dopo la finale Nba: anche per lui qualche imbarazzo legato alla sicurezza. Fuori dai giochi Carmelo Anthony. L’inferiorità rispetto ai 12 di San Juan è palese: basti pensare che John Paxson, Gm dei Bulls, è arrivato a sponsorizzare la chiamata di Kirk Hinrich.
Resta un’ottima squadra, che la sola presenza di Duncan accredita di fatto come favorita, ma non la migliore possibile, quella che avrebbe potuto stravincere oltre che vincere.
“Saremo competitivi ma non possiamo più garantire medaglie”, ha detto Russ Granik, il vice di David Stern.
Il vero ago della bilancia era Garnett, con Shaq in second’ordine. Con Kg è andata male: si sposa e ha paura degli attentati, con Shaq non c’è mai stata una chance reale. L’olimpiade l’ha già vinta, l’estate la dedicherà ai figli e forse ad una visita al ranch di Malone, nell’Arkansas. Tema del simposio la “Gestione del corpo di un Nba player superata la trentina”.
In definitiva qualcuno ride e qualcuno piange. Ridono i Nets, che tengono a casa Kidd e Martin, i Pacers: al sicuro O’Neal e ignorato Artest, piangono i Sixers, che il corpo di AI vorrebbero tanto vederlo a riposo almeno d’estate, i Suns, che mandano Stoudemire e Marion, e gli Heat, Wade e probabilmente Odom.
Il più imbufalito è Anthony. Non solo LBJ va e lui no, ma il suo nome non è mai stato realmente preso in considerazione, tanto che i 40 anni di Killer Miller sono stati tirati in ballo più spesso dei suoi 20.
Motivazioni:
a) – Troppe ali piccole già a roster: Marion, Jefferson, potenzialmente pure LBJ. “Carmelo sarebbe stato un doppione”, hanno sibilato dal comitato di selezione.
b) – Persi Kidd e Bibby, ci voleva gente che portasse palla, e Wade e James lo fanno meglio di lui, perso Ray Allen ci voleva un tiratore, e Hamilton tira meglio di lui. Odom è la sintesi della versatilità , ciò che serve in un torneo del genere.
L’interessato piagnucola: “Mi snobbano tutti. Non sono coinvolto in nulla dalla Nba. Dicono che in squadra ci sono altri nel mio ruolo. E chi sono? Spero di rifarmi tra 4 anni, spero che allora qualcuno mi conoscerà ”.
Olimpiadi: l’ultimo baluardo
Nel 1992, alle olimpiadi di Barcellona, i membri del Dream Team camminavano sulle acque. Barkley tatuò il gomito in faccia ad un povero angolano, e poco ci mancò che squalificassero l’angolano. Il sogno degli avversari dei vari Bird, Magic, MJ, era una foto autografata da portare ai nià±os a casa, non certo tagliarli fuori a rimbalzo.
10 anni dopo, i mondiali di Indianapolis sono passati sulla credibilità degli americani come la piena dello Yangtze Kiang. Son rimasti solo i ricordi.
Le olimpiadi sono l’ultimo appiglio: nella storia dei giochi gli americani hanno un bilancio di 109 vittorie e 2 sole sconfitte. La prima in finale a Monaco 72, l’olimpiade in cui il mondo conobbe Settembre nero e gli Usa Sergei Belov, la seconda in semifinale a Seul 88, l’ultima chance concessa ai collegiali.
Da allora largo ai professionisti, che tra Barcellona, Atlanta e Sidney hanno una striscia aperta di 24 vittorie.
Larry Brown, e il cerchio si chiude
“Vedete, io penso che Larry Brown sia il più grande allenatore di pallacanestro del pianeta. Non c’è situazione, squadra o partita in cui non vorrei averlo in panchina, dalla mia parte”. Pensieri e parole di David Aldridge, della Espn.
Diamo per scontato che Aldridge, in quanto americano, sia tutto fuorché un esterofilo, e quindi nemmeno sospetti della presenza di fior di coach a Perth o a Kaunas, a Vukovar o a Salonicco.
Quello rivolto a Brown resta comunque un attestato di stima infinito, anche perché arrivato all’indomani di uno dei giorni più brutti per il newyorchese con gli occhiali. Quello dopo gara 2 di finale, in cui Brown ha dovuto convivere con l’idea che far fallo su O’Neal avrebbe probabilmente dato il 2-0 a Detroit.
Forse un allenatore di promozione italiana, a quel punto, avrebbe vinto la partita che quello che Aldridge considera il miglior allenatore vivente ha perso. Inezie: tutti gli allenatori Nba difendono così quando sono sopra nel finale, non c’è niente da fare, è questione di Dna.
Che Brown sia o meno il miglior allenatore del mondo non conta, quel che conta è che è sicuramente il più adatto per guidare la spedizione americana verso il Partenone.
Il coach dei Pistons si è già messo al collo due ori olimpici: a Tokyo 64, da giocatore, e a Sidney 2000, come assistente di Rudy Tomjanovich. Adesso gli manca il podio più alto da allenatore capo.
Ad Atene non allenerà la squadra che sperava, quella che Garnett e Shaq sotto canestro avrebbero reso imbattibile, dovrà affidarsi ancora a Duncan, al tiro e all’altruismo degli esterni, come a San Juan, ma la sua presenza in panchina ha un valore simbolico altissimo.
Brown giocava point guard nei Tar Heels di North Carolina allenati da Dean Smith, negli anni 60. Smith aveva giocato a Kansas, sotto coach Phog Allen. Phog Allen fu uno dei primi allievi di James Naismith, sempre a Kansas. È l’albero genealogico del gioco: Naismith, Allen, Smith, Brown.
Brown incarna la storia e lo spirito della pallacanestro. Le olimpiadi incarnano lo spirito di qualsiasi sport. Atene è la città dove tutto è cominciato, nel 1896. È il cerchio che si chiude.
Post scriptum finale che non c’entra niente
Se Chris Laettner era chiaramente l’intruso dell’Original Dream Team di Barcellona 92, Guido Bagatta in maglia Varese in quel citato McDonald’s del 99 cos’era? L’alieno?