Phil Jackson non sa più cosa fare e il decimo anello da allenatore potrebbe rimanere solo un sogno.
La caduta degli dei. I volti dei giocatori dei Lakers parlavano da soli e, mentre Hamilton e compagni facevano il proprio dovere portando i Pistons ad una vittoria che ha il sapore di un mezzo trionfo in vista di gara 5, Karl Malone, dalla panchina dove era seduto, inquadrato impietosamente dalle telecamere, stava con tutta probabilità pensando ad un anello tanto inseguito e ora più che mai lontano.
Nel frattempo Phil Jackson, sceso nel regno dei comuni mortali dopo tanto peregrinare nell'Olimpo degli allenatori, guardava verso il parquet sapendo però che chi era in campo in quei momenti non avrebbe più potuto dargli le risposte che cercava.
"Una serata negativa" - è stato il commento dell'ex allenatore dei Chicago Bulls. Un team costruito per dominare l'avversario che fatica a ritrovarsi, in balia della voglia di vincere di Detroit, priva di futuri Hall of Famers ma dotata di una forza incredibile e determinata nel portare a casa il titolo interrompendo così una tradizione durata sei anni, nei quali a sorridere erano sempre state squadre della Western Conference.
E' strano lo sport. Fino a qualche giorno fa di Kobe Bryant si parlava solo con toni lusinghieri, paragonando le sue gesta a quelle di Michael Jordan e adesso invece è il numero 8 uno degli imputati principali del disastro Lakers. Lui che in gara 2 aveva forse rimandato l'inevitabile con quel tiro da cineteca ma che ieri sera ha disputato una gara anonima, quando al contrario sarebbe servita tutta la sua classe per tirare Los Angeles fuori dalla buca.
"Ognuno di noi è un po' giù in questo momento - dice Kobe - ad ogni costo dobbiamo imporci nella prossima partita e poi ripartire da lì".
Chi prima di gettare la spugna ci pensa non una ma due volte è senza dubbio Shaquille O'Neal, autore di una prova tanto bella quanto inutile:
"Sono con questo gruppo da troppo tempo per non dirvi che in gara 5 daremo tutto ciò che abbiamo per non uscire sconfitti".
Magic Johnson, dal canto suo era stato facile profeta quando parlava di esito della serie per niente scontato e ora non risparmia critiche alla sua ex squadra, rimproverando una certa sufficienza nell'affrontare l'avversario, quando invece si sarebbe dovuta fare molta attenzione ad una formazione guidata da un grande tecnico e affamata di vittorie.
Già , chi l'avrebbe mai detto che Larry Brown si sarebbe trovato ad un passo dalla gloria con un gruppo di ragazzi privi di esperienza ad alto livello, quando il pallone tra le mani pesa come un macigno e, diciamolo, mai considerati granché dalla critica, la quale pensava ai Nets o ai Pacers come possibili pretendenti al titolo.
La scommessa Rasheed Wallace l'ha vinta alla grande e per l'ex Portland ci sono parole d'elogio: "Sono molto orgoglioso di lui, è stato grande. Ma da qualunque parte la si guardi, bisogna comunque vincere quattro volte per festeggiare".
Il grande sconfitto della serie, al di là di tutto un gruppo da tutti dato come strafavorito alla vigilia e adesso ad un passo dalla resa, è senza dubbio Jackson, quasi irriconoscibile per chi, come il sottoscritto, l'aveva ammirato durante i bei tempi andati di Chicago, quando la sua sola presenza sulla panchina stimolava i giocatori (si, ok, c'era anche un certo MJ ad aiutarlo) a dare il massimo.
Durante gli ultimi time-out aveva anche perduto la voglia di parlare con chi gli stava intorno e le ultime energie venivano riservate per avvicinarsi agli arbitri e manifestare il proprio malcontento circa il corso della gara. Nella mente di chi ha assistito alla deriva degli ex invincibili rimarrà impresso il momento in cui Jackson si leva gli occhiali e si posa una mano sulla fronte, incapace di far fronte alla valanga che stava per abbattersi contro i tre volte campioni del mondo.
"Il nostro obiettivo non cambia: vincere qui per tornare a L.A. con il fattore campo di nuovo a nostro favore". Ma lo ascolteranno Kobe e gli altri?.
Se a festeggiare dovesse essere la Motown, la statuetta di MVP potrebbe essere consegnata nelle mani di Chauncey Billups, fin qui quasi irreale per il modo in cui ha fatto sembrare un mediocre play uno che di soprannome fa The Glove, il guanto, decisivo con i suoi canestri, anche dalla lunga distanza e con un'abilità nel far girare l'arancia sconosciuta forse anche a se stesso prima delle Finali.
E Rip Hamilton? 11 punti a segno nel quarto periodo, quando contava veramente, mentre il suo ex rivale di liceo sbandava insieme ai compagni, brutta copia del fenomeno ammirato nella seconda sfida.
"Nessuno di noi vuole tornare a Los Angeles - chiarisce però Lindsay Hunter - lì non sai mai cosa può accadere". E' vero, Hollywood ha spesso raccontato storie di miracoli sotto forma di film per il grande pubblico, ma chi tra i gialloviola avrà ancora la forza per dare inizio al primo ciak di quella che a tutti gli effetti pare una Mission Impossibile?
Stay tuned!