Tayshaun Prince. Il lavoro, il sudore, il sacrificio, la difesa.
E' dai tempi dell'ultimo titanico scontro fra Micheal Jordan e la fantastica coppia Stockton-Malone che la sfida decisiva per l'assegnazione del titolo NBA non era così incerta.
Oddio forse incerta è una parola eccessiva. La ragione continua a dire Lakers, ma il cuore ed un paio di occhi increduli dopo la visione di gara uno, portano comunque gli antilakers di tutto il mondo a sperare in un epilogo diverso.
Tutti ordinatamente uniti sotto un unico vessillo. Quello dei Detroit Pistons.
Non che Detroit sia una squadra che faccia impazzire le folle. Non che storicamente siano dei mostri di simpatia, ma chiunque meglio dei Lakers. Please.
Forse sarebbe il caso di chiedersi perché tanto astio verso la città degli Angeli? Astio cestistico, obviously.
Un giorno di tanto tempo fa qualcuno consegnò ai libri di storia la famosa frase "molti nemici, molto onore". Finì fucilato.
La spiegazione più semplice sarebbe quindi il loro essere sempre e comunque vincenti.
Fuorviante. Perchè nella lega c'è chi ha vinto in assoluto più di loro, come gli irlandesi di Boston e anche chi nel breve periodo ha instaurato dinastie più lunghe e titolate. I Bulls di sua maestà Jordan negli anni 90 e gli stessi Celtics targati Bill Russell negli anni '60.
Forse la colpa di cotanto odio può essere attribuita al colosso in maglia 34. Kiyhioshiy "Go" Nakai (per i non udenti, il creatore di Devilman, Mazinga, Goldrake, Jeeg) non sarebbe riuscito a realizzare una macchina da guerra migliore di Shaq. Tutto quel ben di Dio, assemblato in una persona sola. Altezza, potenza, agilità , anche fluidità dei movimenti.
Ma quasi ti vengono i nervi a vederlo costantemente sovrappeso, a volte annoiato dal gioco, difensivamente apatico, in molte occasioni rimbalzista e stoppatore appena sufficiente rispetto alle sue reali possibilità . Lingua lunga, sbruffone, in questi ultimi anni dominatore delle aree pitturate, ma cosa avrebbe potuto fare se si fosse allenato con costanza, se avesse avuto voglia di mantenere il suo straripante fisico nei limiti della decenza, se avesse avuto una mentalità alla Jordan? Inimmaginabile.
Però Shaq, con la sua eterna aria da ebetone, non è una spiegazione plausibile. Forse la colpa è di colui che ha preso il nome dalla famosa bistecca di Matzusaka (e meno male che Joe non apprezzava la carne l'Argentina, altrimenti adesso ci ritroveremmo a parlare di Angus Bryant).
Quel Kobe che pecca di lesa maestà quando in campo fa cose che riuscivano solo al divino Mike. Che si muove e ti guarda come lui, segna quasi quanto lui e risolve le partite allo stesso modo. Gli manca solo la lingua di fuori, poi potremmo porci il dubbio se è vero che la clonazione umana è ancora un sogno nel cassetto degli scienziati di tutto il mondo.
O forse, più semplicemente, non è colpa di Shaq o di Kobe. E neanche di Mr “So Tutto Io”, coach Zen. Forse è tutto dovuto al fatto che i Lakers sono per antonomasia i rappresentanti della Western Conference.
E dire Western non significa dare una semplice connotazione geografica ad una squadra. E' un modo di intendere, di vivere il basket diversamente rispetto all'est. Un'altra filosofia di concepire il gioco più bello del mondo.
Vecchi stereotipi, si dirà .
Ma i vecchi stereotipi sono duri a morire. Anche quando magari ti rendi conto che non sono più validi per il basket del 2000, quelle convinzioni maturate da bambino, te le porti dentro e ti ribelli all'idea che le cose siano cambiate.
Sei cresciuto con la sana convinzione che ad est si difende alla morte, il parquet è un'arena ed i giocatori sono dei gladiatori che lottano per la sopravvivenza. Lì il basket è uno sport per uomini. E' sudore. E' sacrificio.
Ad est c'è l'orgoglio celtico, c'erano (ci sono ancora) i cattivi ragazzi di Detroit, i guerrieri della Grande Mela. E gli audaci combattenti della città dell'Amore Fraterno, quelli che a cavallo dei settanta ed ottanta non lesinavano spettacolo vero, pura adrenalina per il pubblico, ma quando c'era da difendere, non scherzavano mica. E poi ad est c'è l'Indiana. Uno stato a parte. Lì il basket è qualcosa di più. Una religione.
Dall'altra parte del grande fiume, c'è l'assurda convinzione che bisogna giocare per divertirsi e divertire. Il basket assume la sacrilega connotazione di uno sport. Certo anche una passione. Ma passione e religione sono cose ben diverse, no?
Hai fatto finta per dieci anni di dimenticarti che un omino dal mento equino soprannominato il guanto per la capacità di incollarsi agli avversari ha giocato a Seattle, portandola ad un passo dal tetto del mondo. Ovest che più ovest c'è solo l'oceano.
Hai rimosso per pudore quella finale giocata a chi segnava di meno e vinta, sul terreno teoricamente loro meno congeniale, dai Rockets contro i guerrieri Knicks.
Poi arrivano gli Spurs che vincono due titoli solo grazie alla difesa, che annoiano i profani, che rallentano il gioco e che vincono solo se il punteggio rimane sotto gli ottanta e ti accorgi di come le cose siano cambiate da quando hai iniziato a seguire il basket.
Vedi Bowen tirare calci agli stinchi ad ogni partenza del suo avversario, vedi le sue unghie conficcarsi negli avambracci dell'attaccante e il mondo ti crolla addosso. Non saranno cattivi, non cercheranno la rissa e la provocazione, non scenderanno in campo con gli occhi iniettati di sangue, ma alla fine ti tocca ammetterlo. Sono occidentali ma cavolo se sanno difendere!
Stai quasi per abiurare, per piegarti alla cruda realtà , ma ecco che, quando tutto sembra perduto, ti arrivano in finale due squadre a caso: Los Angeles Lakers e Detroit Pistons.
E quegli antichi stereotipi vecchi come il cucco, quelli che quando ne parli, la gente ti guarda come se fossi scemo e ti chiede a che epoca cestistica sei rimasto, si aprono un varco nell'aria affollata. A colpi di gomiti, spintoni e poco eleganti culate, te li ritrovi sotto canestro, pronti a spiccare il balzo decisivo per il rimbalzo. I vecchi stereotipi ritornano a galla.
E davanti ai tuoi occhi, scorrono immagini vecchie quasi una generazione fa.
Da un lato lo showtime di Magic e Kareem. Una squadra che scendeva in campo per divertire e divertirsi. Un basket giocato a velocità supersonica, fatto di partenze veloci e stordenti più di una botta di valium per gli avversari. La difesa era un optional, anche se poi, ovvietà delle ovvietà , un certo signor Micheal Cooper diventava fondamentale per la conquista degli anelli.
Tutto era creato per fare spettacolo. Il gioco, il pubblico, l'eterna sfilata di vip sugli spalti, lo sguardo luciferino di Jack Nicholson a bordo campo, gli occhialoni di Kareem e Worthy, le basettone di Cooper ed il sorriso di un ragazzone di 2 metri e passa, che voleva giocare play.
Sullo sfondo la sfavillante Hollywood, le villette linde e lussuose di Beverly Hills, i campi da golf di Bel Hair, le spiagge, le palestre all'aperto, le luci, i suoni, i colori. E verso sera, una sfilata di pettorali e bicipiti scolpiti, perizoma e mini bikini sulle spiaggie, top model sculettanti dedite all'intramontabile arte dello shopping tra le lussuose vetrine dei quartieri residenziali.
Dall'altro lato una squadra di ragazzacci, che scendeva in campo per intimorire ed umiliare gli avversari. Non c'era divertimento nelle loro azioni, nei loro sguardi. Ma rabbia, tanta rabbia e voglia di distruggere gli avversari.
Dove non arrivavano con l'immensa tecnica di Isiah Thomas, ci arrivava l'asfissiante difesa di Joe Dumars, le botte di Rodman, l'intimidazione di Laimbeer, l'aggressività del loro gioco, le ferree regole difensive del maestro Daly.
Lo spettacolo era lasciato alle cheerleader nell'intervallo. In campo non c'era tempo per divertirsi. E quando l'avversario cadeva per terra, non bisognava mai aiutarlo a rialzarsi. E se non cadeva, lo si poteva agevolare con una bella spinta nel momento in cui staccava per andare a canestro. A rischio di rompergli l'osso del collo. Per informazioni su come ci si poteva sentire una volta atterrati, chiedere lumi a Scottie Pippen.
Sullo sfondo l'assordante rumore delle fabbriche automobilistiche, il fumo delle ciminiere, playgorund fatiscenti con canestri senza retina. L'unico ciuff è quello di un ipotetico treno di periferia, verso sera, gremito verso di operai stanchi ed incazzati che tornano a casa dopo una dura giornata di lavoro in fabbrica.
Stereotipi certo.
Anche a Los Angeles conoscono la miseria, la povertà , la disperazione. Così come a Detroit ci sono i quartieri residenziali, i ricchi, il benessere. Ma gli stereotipi sono difficile da affossare.
E, decisamente affascinanti, a volte ritornano.
Quando Hollywood e MoTown si incontrarono l'ultima volta in finale finì con uno sweep. Anno del Signore 1989. I Pistons erano nel pieno della loro trans agonistica, i Lakers si avviavano verso un lento declino. Non il denaro, non le luci e le musiche di Hollywood, non i capelli impomatati di Riley, nè il sorriso più famoso dello sport, riuscirono a fermare l'onda selvaggia degli operai di Detroit.
Quindici anni dopo, li rivedi in finale.
E ti ritrovi a pensare come in realtà niente è cambiato. Almeno non a Detroit. Non a Los Angeles. E non puoi fare altro che tirare un bel sospiro di sollievo.
Sei incollato davanti alla TV e guardi le due squadre fare riscaldamento.
Ti giri da un lato e vedi gli uomini in gialloviola. Sorridono. Sanno che sta per iniziare lo spettacolo. Sono quasi tutti rasati ma non fai fatica a riconoscerli. E di loro sai vita, morte e miracoli. Hai visto le loro foto centinaia, migliaia di volte.
E' rasato Shaq, colui che sentiva troppo stretta per le sue ambizioni un'intera città di medie dimensioni come Orlando. E quando vi abitava, faceva il pendolare con LA per registrare i suoi album rap e girare i suoi kolossal. Pietre miliari nella storia della cinematografia hollywoodiana.
E' rasato Kobe, che forse abituato alla disponibilità delle dolci signorine losangeline, ha pensato che ogni mondo fosse paese, per poi ritrovarsi incastrato da uno sceriffo razzista e da una cittadina bigotta nel bel mezzo delle Rocciose.
Sono rasati Malone e Payton, approdati di recente nella città degli Angeli, perché il posto più facile per ingioiellarsi quelle dita che da tanti, troppi anni, depositano palloni nei canestri di mezza America, senza mai depositare quello vincente.
Non è rasato, bensì brizzolato, l'allenatore. Colui che tra qualche giorno potrebbe diventare il più ingioiellato di sempre. Colui che quando era a Chicago si distraeva con lo Zen e le filosofie orientali, mentre adesso preferisce farlo con la figlia del boss. Los Angeles Rules.
Poi giri lo sguardo dall'altro parte del campo e vedi gli uomini in rossoblu. Non sorridono. Hanno le facce truci e gli sguardi arrabbiati. Sanno che sta per iniziare la battaglia. All'ultimo rimbalzo, all'ultima goccia di sudore.
Non sono così famosi come i loro colleghi in gialloviola. Non hanno un passato da predestinati o una folgorante carriera alle spalle. Hanno dovuto lottare per essere lì. Passare per leghe minori o conquistarsi un posto con le unghie e con i denti.
Molti di loro non finiranno mai nella hall of fame, ma possiamo star certi che se dovessero rovesciare la storia già scritta di queste finali, le magliette di tutti un giorno penderanno dal soffitto di Auburn Hill.
Vedi il loro coach, che ancora una volta si ritrova a sfidare i Lakers in una finale. E vedi la sicurezza nel suo volto. La sicurezza di chi forse non ha nulla da perdere. Di chi sicuramente è già un'icona nel mondo della NBA pur non avendo ancora vinto nulla tra i pro.
Los Angeles. Detroit.
Due città , due squadre, due filosofie, due tradizioni, due mondi.
Chiederti che effetto avrebbe fatto vedere Ben e Sheed Wallace, Billups e Prince in maglia Lakers e Shaq, Kobe, Payton e Malone in maglia Pistons, non avrebbe senso. Non ti soffermi più tanto dinanzi a questo bislacco pensiero e lo banni con una semplice parola. Impossibile.
Se qualcuno non sapesse niente di geografia ma masticasse un pochino di basket, vedendole giocare, andrebbe a colpo sicuro. Los Angeles è l'ovest. Detroit è l'est. E' un caso? O forse quei vecchi, obsoleti stereotipi a volte è il caso di ripescarli dal fondo di un baule polveroso?
Personalmente non so come andrà la finale, ma so dove va il mio tifo.