Il vero triangolo dei Lakers

Coach Phil parla ai giocatori al campo d'allenamento di El Segundo. Payton e Malone ascoltano

Una stagione ai Los Angeles Lakers vale quanto tre stagioni di Denver, Utah e Seattle messe assieme. I riflettori sono sempre accesi, ogni dichiarazione viene scevrata alla stregua dei discorsi presidenziali. Succede qualcosa del genere ai New York Knicks, ma i risultati delle ultime stagioni hanno reso i blu arancio una "hurban-concern", un problema legato ai confini della città  di New York.

I Lakers sono qualcosa di più. Sono al tempo stesso i New York Yankees e i Beatles. Quattro giocatori che, da soli, sostengono il peso che negli Yankees è sostenuto da 25 giocatori, non solo da Jeter e Rodriguez. Los Angeles ha vissuto due stagioni parallele: mentre sul campo, dopo una partenza da 18-3, gli infortuni e la noia stavano deprimendo il più talentuoso gruppo di talenti mai assemblati, attorno a loro montava la Dinasty. Con tre protagonisti sopra gli altri.

Shaquille O'Neal e Kobe Bryant non si sono risparmiati. Ha cominciato Bryant, pochi giorni dopo il suo arrivo a Honolulu per il traning camp, definendo il suo compagno un "grassone egoista".
Nel corso dell'estate la vita di Kobe era cambiata. L'America, all'inizio del training camp, vide un Kobe diverso da quello che aveva conosciuto.

Gli occhi spauriti, lo sguardo perso, simboli dello smarrimento che colpisce le grandi star quando gli avvenimenti fanno loro capire che devono assoggettarsi alle regole che valgono per tutti, non solo a quelle del loro mondo dorato.
Nel corso della stagione Kobe ha fatto di tutto: ha giocato una prima parte evidentemente assente ed in precarie condizioni. Ha subito due infortuni alla spalla, il primo con Cleveland il secondo con Seattle. In mezzo la barzelletta dell'infortunio in garage.

E' tornato se stesso per i playoffs. Ha giocato essendo spesso costretto a fare la spola fra lo Staples Center ed il Colorado, dove il processo a suo carico proseguiva. I 18 punti nel terzo quarto di gara 4 contro Minnesota, più ancora, la feroce determinazione con cui riprese, sempre all'inizio del secondo tempo, gara4 contro gli Spurs, ci parlano di un grandissimo che per spirito non è secondo a nessuno.

"Ho solo cercato di fare bene il mio lavoro - ha dichiarato ultimamente Kobe - cercando di non lasciarmi travolgere da quello che mi stava accadendo. Posso solo incolpare me stesso per quel che è successo. E soprattutto per come la mia famiglia si è sentita a causa mia."

Shaq O'Neal si considera, oltrechè giocatore dei Lakers, centro più dominante della storia, il general manager. Per tutta la stagione ha convissuto con il peso di ottemperare ad una promessa: quest'estate convinse Karl Malone e Gary Payton a firmare per Los Angeles, rinunciare ai soldi per giocare per il titolo. Nel frattempo ha portato avanti la sua battaglia contro Mich Kupchack, l'uomo che, fino a prova contraria, è il general manager dei Lakers.

Shaq ha litigato per il rinnovo del contratto, ha punzecchiato Bryant chiedendogli a inizio stagione di fare il giocatore di ruolo, in attesa di ritrovare la forma perduta e dicendo "io sto lavorando seriamente per essere pronto a questa stagione con Karl, Gary, the Fish e Fox". Conosciamo l'origine della scarsa simpatia di Shaq per Kupchack: ha sostituito Jerry West, peccato originale, ha lasciato che l'organico di LA scadesse, fino alla dimensione striminzita della scorsa stagione, ebbe il becco di tagliare, per poi reintegrare in fretta Brian Shaw, il suo migliore amico in squadra. Recentemente Shaq a dichiarato: "Per giocare al meglio ho bisogno di avere la palla. Non sono Luc Longley, non sono nemmeno Mich Kupchack". Non male in vista dell'estate.

Sul campo Shaq ha terminato la regular season con 21.5 punti a partita, la media più bassa da quando è ai Lakers. Nei playoffs ha giocato a giornate alterne. Ma è stato dominante. Non c'è giocatore che possa reggerne l'urto. Ed ora che le ginocchia non sono più quelle di qualche anno fa si notano aspetti diversi: la tecnica, il gancio e la determinazione con cui quest'anno è andato a rimbalzo.

Solo Phil Jackson poteva arrangiarsi con il cubo di Rubik dello spogliatoio. Alla decima finale, con nove titoli vinti, un allenatore non dovrebbe avere più nulla da dimostrare. In realtà  ogni vittoria mette maggiore pressione. L'argomento principe dei detrattori del coach è che è fortunato. Jackson ha avuto i migliori giocatori, su questo non si può eccepire. Ma Jordan non ha mai vinto prima dell'arrivo dell'uomo del North Dakota.

Sono passati 6 anni dall'arrivo di Jackson ad LA. Un matrimonio difficile all'inizio. Nel suo libro "More than a game" l'allenatore confessò di aver trovato grandi difficoltà  con giocatori non in grado di prestare attenzione per più di 10 minuti. Al primo incontro chiese a Robert Horry se finalmente sarebbe stato in grado di marcare Malone. "Big Shot Rob" la prese male e per molto tempo rimase convinto di aver a che fare con un "fesso presuntuoso".

A dire il vero in qualcosa Jackson ha fallito ai Lakers. Ha vinto. Ha messo d'accordo Kobe e Shaq, per lo meno in termini di unità  di intenti. Ma non è diventato il loro coach come lo diventò con Pippen e Jordan. "Non mi piace Jackson come persona - ha confidato tempo fa Bryant - ma mi piace come coach." Questo è il risultato delle "sedute coi tamburi" cui Kobe è stato costretto, dei libri che Bryant non ha mai nemmeno provato ad aprire. Ma soprattutto dell'essere troppo "shaquilliano" di Jackson.

Il rapporto fra O'Neal e il coach è più controverso. Al primo incontro, nella magione estiva di Phil, Shaq rimosse un albero abbattuto. Dapprima il pivot ne riconobbe l'autorità . Ora lo definisce il suo "papà  bianco", ma ogni tanto se ne approfitta. Fu Jackson a consigliargli di non lavorare troppo in estate e di arrivare fresco a metà  stagione. Shaq ha eseguito con troppo zelo. Memorabile rimane il racconto del risveglio di Shaq, dopo l'operazione al dito artritico. Nelle parole del 34 gialloviola, Jackson gli apparve, a metà  fra il sogno e la realtà , come una specie di angelo.

Il futuro del coach è il più incerto. A ridosso dell'All Star Game, Los Angeles ha interrotto le trattative per il rinnovo. L'agente di Jackson ha risposto chiedendo 12 milioni di dollari per un anno. Il coach ha anche pensato al ritiro. Di sicuro l'anno scorso, quando durante la serie con San Antonio, subì un'operazione chirurgica per l'occlusione di un'arteria. Col suo status è difficile individuare una squadra ed una situazione realmente interessante.

"Sta molto bene - dice di lui il vice Jim Cleamons - dal punto di vista fisico e dal punto di vista psicologico. Ormai abbiamo capito che non c'è possibilità  di controllare quel che succederà  fra 20 giorni. Ed allora, com'è nella sua filosofia, sta vivendo il momento."

I metodi sono i soliti: all'inizio della stagione ha consegnato a tutti il libro "La mia stagione perdente" di Pat Conroy, per "far metabolizzare più in fretta - ha detto - la sconfitta nella stagione precendente e ripartire." Sul campo ha fatto u passo indietro, sul triangolo, per venire incontro alle esigenze delle star, soprattutto Malone e Payton.

Per il resto continua a divertirsi in sala stampa, fra quadri che non rimangono appesi senza il chiodo, racconti sulla madre capitana della squadra di basket negli anni '20 e altre amenità .
Anche Shaq si diverte e pregusta già  la scenetta della stenografa, un classico del suo repertorio alle finali, con lui che in sala stampa si inventa le parole e la stenografa che si mette le mani nei capelli.
Kobe è più serio. Ma gira, gira i Lakers ruotano sempre attorno a loro.

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