L’anno di Zach

Randolph sul podio della premiazione

Dice, anzi scrive, Federico Buffa, che "Esistono, in ordine crescente di mendacio, le bugie, le grandi bugie, e le statistiche del basket". Difficile dargli torto. Difficile, tuttavia, dar torto anche ai 121 giornalisti sportivi che hanno scelto Zach Randolph come giocatore più migliorato della stagione 2003-04.

Difficile perché un anno fa Randolph era uomo da 8,4 punti e 4,5 rimbalzi in 17 minuti, e oggi è uno dei soli 5 giocatori Nba ad aver chiuso la stagione a 20+10 di media, il primo Trail Blazer a riuscirci dall'anno di grazia 1982, quando ce la fece Mychal Thompson.

I numeri non saranno tutto, quelli di Zach sono migliori di quelli di Jermaine O'Neal, e alzi la mano chi lo scambierebbe con il probabile Mvp della eastern conference, ma non possiamo neanche buttarli nel cestino senza nemmeno degnarli di un'occhiata.

Lo spirito del premio
Quello di giocatore più migliorato è certamente il premio più difficile da assegnare, perché è ambiguo il concetto stesso di miglioramento. Nel finale della scorsa stagione Randolph si era guadagnato minuti importanti a Portland, e le sue cifre erano cresciute di conseguenza, fino ai 13,9 punti e 8,7 rimbalzi del 1° turno di playoffs contro Dallas.

Domanda: il giocatore è migliorato o ha solo avuto finalmente a disposizione i minuti per mostrare ciò che in realtà  sapeva già  fare?

La risposta ovviamente sta da qualche parte nel mezzo, e le stesse considerazioni si possono adattare anche ad un Flip Murray, 14 partite complessive a Seattle lo scorso anno e 12,3 punti di media oggi, ad un Joe Johnson, esploso a Phoenix dopo che la cessione di Marbury gli ha liberato minuti e tiri, o ad un Mike Dunleavy Jr, finalmente produttivo a Golden State.

Seconda domanda: è migliorato di più cicciobello Randolph o Brian Cardinal, che tra Detroit e Washington aveva segnato 52 punti in 3 anni, e quest'anno a Golden State ne ha fatti 32 in una volta sola (ai Suns), guadagnandosi 20 minuti a partita nella rotazione di coach Musselman?

Ancora, è cresciuto di più Michael Redd, passato da candidato a 6° uomo dell'anno a legittimo All-Star, oppure Carlos Arroyo, calatosi senza batter ciglio nel ruolo che fu di Stockton? In sostanza, è più difficile per un buon giocatore diventare una stella o per un comprimario diventare un buon giocatore? La prima, ovviamente, anche se non sempre l'assegnazione del premio di più migliorato ha seguito questa logica.

Negli anni '90, in particolare, i giurati tendevano a premiare tanto estemporanei ventellisti (Don Mclean, Dana Barros) quanto giocatori passati da impalpabili a discreti (Muresan, Ike Austin, Alan Henderson). Dal 2000 al 2002 l'inversione di tendenza, con il premio nelle ben più salde mani di Tmc (15,4 punti nell'ultimo anno in Canada e 26,8 nel primo in Florida), Jalen Rose e Jermaine O'Neal.

L'anno scorso il vincitore fu Arenas, e anche quest'anno il trend è rimasto lo stesso: si premiano i giocatori già  di un certo livello (Randolph lo era stato nei playoffs, quindi non era proprio uno sconosciuto) che salgono ulteriormente di colpi. Chi da buono diventa eccellente, insomma.

L'anno di Zach
È un classico delle squadre Nba lanciare, a fine stagione, una clamorosa campagna di sponsorizzazione dei loro giocatori che sono in corsa per la conquista di qualche premio, che sia l'Mvp o il secondo quintetto dei rookies. Campagna di sponsorizzazione che raddoppia nel caso il traguardo playoffs sia stato mancato e quindi resti poco altro da fare.

A Portland non mancavano la post-season dal 1982, quando il trofeo di giocatore più progredito non esisteva ancora e Michael Jordan era un rookie a North Carolina, quindi pompare la candidatura di Zach è diventato di primaria importanza.

In realtà  non hanno dovuto far altro che snocciolare i sensazionali numeri della loro ala forte: 10,5 rimbalzi a partita (6° assoluto), 20,1 punti (16°), 42 doppie doppie (5°), altrettante volte oltre quota 20, 3 oltre i 30, 43 volte miglior realizzatore di squadra e 60 miglior rimbalzista. Cifre d'impatto, non c'è che dire.

Fin dalla prestagione è stato chiaro che Randolph sarebbe stato il go-to-guy dei Blazers in attacco, e lo spostamento di Sheed Wallace all'ala piccola rientrava proprio nella logica di dare più spazio al #50.

Il corpulento mancino è partito alla grande, ha mancato l'appuntamento con l'All Star di L.A. solamente a causa della concorrenza nel settore ad ovest, non ha mancato di lagnarsene, "Avrei dovuto fare l'All Star Game, questo premio è la giusta ricompensa per quell'ingiustizia", e nonostante un calo negli ultimi mesi è riuscito a chiudere oltre quota 20+10, insieme ai due O'Neal, a Duncan e a Garnett.

Ora, se parliamo in termini assoluti, Randolph non è degno nemmeno di stare nella stessa frase di questi 4: come attaccante non è lontano da loro, ma in difesa ha grosse lacune, e la cessione di Wallace, che lo ha costretto a tenere uno contro uno le power forward dell'ovest, le ha mostrate tutte, ed inoltre è unanimemente considerato un buco nero in attacco, uno dei giocatori più facilmente raddoppiabili: tanto non la passa mai. Anche se 2,0 assist a partita non sono totalmente da buttare, per un lungo che al passaggio pensa (forse) come 4°/5° opzione.

Il "problema" di Randolph, è che nel giro di pochi mesi è letteralmente esploso, quindi si è cominciato a paragonarlo agli appartenenti al gotha del ruolo, a giudicarlo nei termini, severi, con cui si giudica un All-Star: intensità  difensiva, scelta dei tiri, leadership.

Argomento stimolante, ma da spostare su altri lidi, quelli dove si giudica in assoluto il valore del giocatore: se il criterio di discussione è solo il miglioramento, Randolph ha fatto semplicemente il vuoto.

La concorrenza
La classifica finale della votazione, anzitutto: il corpulento vincitore si è beccato 379 punti, lasciando il secondo classificato, Carlos Boozer (miglioratissimo, ma anche lui in realtà  già  ottimo sul finire della passata stagione) di Cleveland a quota 166.

Terzo James Posey, lasciato libero senza rimpianti dai Rockets in estate e rinvigorito dalla cura Brown, con 137, quarto Kirilenko (101) e quinto Redd (95). Tutti nomi d'un certo spessore, gente protagonista nel week-end delle stelle (Redd e Kirilenko), gente che è andata vicino ad esserci (Boozer) o comunque protagonisti di una stagione assolutamente strepitosa (Posey).

Difficile trovarne 5 più migliorati di questi, ma se ci permettete una piccola aggiunta personale, è difficile anche non far rientrare nella top 5 quel Jamaal Magloire che dell'All Star Game, e più in generale del campionato degli Hornets, è stato uno dei protagonisti.

Altri nomi meritano almeno una citazione, oltre a quelli già  menzionati in precedenza: Rafer Alston, Raja Bell, Mark Blount, Samuel Dalembert, Eric Dampier, Stephen Jackson e Tayshaun Prince (anche lui già  esploso negli ultimi playoffs, in cui si rivelò, marcando McGrady, per il grande stopper difensivo che è).

Toccati, Zach"
È l'ultimissima moda del momento: considerare il premio di "most improved player", un terrificante portatore sano di sfiga. È chiaro che un'occhiata alle carriere dei vincitori negli anni '90, rende difficile contestare questa teoria.

Dana Barros vinse il titolo nel '95, viaggiando a 20,6 di media coi Sixers, in estate firmò per Boston come free-agent e in altri 8 anni di carriera Nba non tornò mai più nemmeno vicino a quei livelli. Isaac, (Ike) Austin, lo imitò nel '97, quando sfiorò la doppia cifra con gli Heat. L'anno successivo avviò un infruttuoso valzer di 5 squadre in 5 anni, in cui ebbe più infortuni che rimbalzi.

Gli stessi infortuni, hanno stroncato la carriera di Muresan, che fu il più migliorato nel '96, giocò discretamente un'altra stagione, ma di fatto si ritirò a 27 anni, e del tiratore bianco Don MacLean, che dopo un anno da leone agli allora Washington Bullets (oltre 18 di media nel 93-94), nelle successive 7 stagioni ha giocato una media di 26 partite l'anno.

Difficile trovare una vera regola: MacLean vinse al secondo anno di Nba, quindi di fatto gli infortuni hanno stroncato una carriera promettente, mentre gente come Alan Henderson fa parte di quel vasto gruppo di mestieranti che ha solamente azzeccato l'annata magica, quindi non rivederli più sugli stessi livelli non è una vera sorpresa.

Randolph appartiene invece al gruppo del salto di qualità , quello dei Tmac e degli O'Neal, quelli che difficilmente non resteranno al vertice. Zach compirà  23 anni a luglio, il futuro è suo.

Tra qualche anno avrà  un corposo contratto pluriennale in tasca, e allora cominceranno a fargli le pulci sul serio, e non basterà  più il feeling col canestro altrui per ricevere i giudizi positivi della critica, andare a quell'All Star Game cui tiene tanto e essere considerato uno dei migliori nel suo ruolo.

Tra qualche anno. Per adesso Zach Randolph resta il giocatore più migliorato della stagione Nba 2003-04. E tanto gli basta.

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