Playoff: Il meglio e il peggio

Per vincere i playoffs bisognerà  passare sul cadavere di questo signore.

PROMOSSI

KARL MALONE
E' scollinato oltre i quaranta, ma ha dimostrato che dopo i due Intoccabili la miglior ala forte dell'Ovest è ancora lui: in attacco ha massacrato i Rockets e le scelte di Van Gundy con quel jumper dagli spigoli dell'area pitturata che segna con percentuali degne di un layup; passa la palla meglio di qualunque lungo della lega (Webber? forse più spettacolare, ma meno efficace), e corre in contropiede come un levriero di 115 kg, lasciando a parecchi metri di distanza gente di 10 o 15 anni più giovane di lui; inoltre, a differenza di quanto visto in regular season dopo l'infortunio, non ha paura di attaccare il canestro con rabbia agonistica incredibile, quando è necessario per la squadra (ad esempio per strappare a Yao qualche preziosissimo fallo).

In difesa è costretto a centellinare lo sforzo, e quindi se deve marcare qualche giocatore che non ritiene degno delle sue attenzioni (ad esempio Mo Taylor) sostanzialmente lo lascia fare… ma nei minuti in cui si decidono le partite il suo infinito bagaglio di trucchi e trucchetti (anche sporchi), la sua forza fisica, l'abnegazione, l'istinto per il rimbalzo e il fatto di aver giocato un discreto numero di partite che contano in carriera lo rendono a tutt'oggi il miglior difensore che i Lakers abbiano avuto contro i lunghi da svariati anni a questa parte; se n'è accorto persino il grandissimo Yao, che ha subito tremendamente la difesa di Malone in alcuni momenti-chiave della serie, nonostante sia in vantaggio su di lui di 20 centimetri, quasi trenta chili e diciassette anni.

Gestendosi in questo modo può giocare senza problemi altre due/tre stagioni, ed il contrasto con un sempre più irritante Gary Payton è sempre più stridente.

TIMBERWOLVES – NUGGETS
Parliamoci chiaro, questo primo turno di playoffs ha deluso profondamente gli appassionati: molte serie sono state scontate e senza storia già  dalla prima palla a due, altre sono state più equilibrate come punteggi ed esito, ma inguardabili dal punto di vista tecnico e tattico, tutte sono state estremamente carenti in quanto ad intensità , voglia di vincere, “do-or-die” e tutto quello che si è quasi sempre visto in una gara di playoffs, anche quelle più brutte e scontate della storia.

L'unica serie degna di questo nome è stata quella fra Nuggets e Wolves: difese strepitose, intensità  alle stelle, grandi giocatori, colpi di scena, lotta all'ultimo sangue su ogni pallone, giocate spettacolari, fallacci, infortuni, risse, insulti in campo e a mezzo stampa…

Sono stati tanti i protagonisti di questa serie: su tutti ovviamente Garnett, che sta dando tutto quello che ha per togliersi quel maledetto zero alla voce “partecipazioni al secondo turno dei playoffs”; Cassell, che dalla sua mattonella al prolungamento della linea del tiro libero è mostruosamente preciso, segnerà  col 90%; Spreewell, che lotta come un leone, sbaglia tanto, parla troppo, però bene o male nella vittoria dei suoi una zampata la mette sempre; Hassell, che ha messo una clamorosa museruola a 'Melo, piazzando anche una delle giocate decisive della serie, la grandissima difesa su Andre Miller nell'ultimo tiro di gara 4, momento cruciale per vincere la partita e passare il turno.
Dall'altra parte Lenard, che dopo una deludente gara 1 ha messo un clamoroso 8/12 da tre nelle tre successive; l'impareggiabile Boykins, sempre in doppia cifra (l'unico oltre a Miller giocando la metà  dei minuti); Camby, le cui cifre (13+11 in 37' di media) non rendono giustizia all'incredibile intensità  delle sue sfide sotto i tabelloni con KG.

Più in generale nessuno si è tirato indietro, nessuno ha accampato scuse, nessuno ha tirato il fiato in campo nè si è trattenuto dal fare andare la lingua a briglie sciolte nel dopopartita: è nata una nuova rivalry?

TERRY PORTER
La differenza di talento, atletismo, stazza fisica, esperienza, amalgama fra Pistons e Bucks è francamente imbarazzante, senza dubbio il più grande divario di tutto questo primo turno. Nonostante tutto questo nonchè il fatto di essere alla prima serie di playoffs della sua carriera di allenatore, trovandosi subito come controparte una delle più geniali menti del gioco, Porter è riuscito nell'impresa di far sudare la qualificazione a Detroit: con i suoi quintetti piccoli ha messo in scacco Brown, portandosi a casa in Gara 2 la prima vittoria in trasferta in assoluto di questi playoffs. Chapeau.

TAYSHAUN PRINCE
Per descrivere questo suo primo turno sarebbe sufficiente il lapidario commento del suo allenatore Larry Brown, non certo uno abituato a straparlare: “E' stato probabilmente l'mvp della serie”.

Dare torto al coach è difficile, anzi impossibile, visto che come l'anno scorso l'aria rarefatta dei playoffs ha avuto un incredibile effetto energetico sul Principe: è passato da 10 a 17 punti, da 4.8 a 7.6 rimbalzi, da 2 a 3 assists, da 0.8 a 2.2 stoppate, dal 46% al 59% dal campo.
La sua incredibile versatilità  ed il suo gioco a tutto tondo sono state armi decisive per controbattere i quintetti piccolissimi con cui Porter nelle prime due gare aveva messo in difficoltà  i quintettoni dei suoi Pistons.
Tutti i break decisivi nelle gare vinte dai Pistons sono arrivati grazie ad incredibili “clinics” di pallacanestro a tutto campo di Tayshaun in pochissimi minuti: rimbalzi, grandi difese, stoppate, palle rubate, tiri da tre decisivi, e la ciliegina sulla torta del fantastico tabellino di Gara 5 (24 + 9 +8).

JONATHAN BENDER
Che uno dei punti di forza di questi sfavillanti Indiana Pacers fosse la panchina lo si sapeva, l'atletismo e l'intensità  del trio Jones-Harrington-Bender sono incontenibili per i panchinari di qualunque altra squadra NBA: in Gara 3 Johnson, Jones, Bender, Harrington e Croshere giocando 20' di media a testa hanno fatto più punti di tutto il quintetto titolare dei derelitti Celtics.

Quello che non ci si aspettava era il rendimento di Jonathan Bender: “The human exclamation point”, dopo aver avuto a disposizione solo garbage time in Gara 1, ha messo a tabellino 11+7 in 28' di Gara 2 e soprattutto un incredibile 19+4+2 stoppate in soli 19' di Gara 3. Quello di cui le statistiche non parlano è la grinta con cui questo airone di sette piedi strappa rimbalzi nel traffico, la decisione con cui attacca il canestro prendendosi schiacciata, canestro e fallo, la grande difesa con cui ha frustrato nientemeno che Paul Pierce; PSquare non credeva ai suoi occhi quando, finalmente libero dalla marcatura di Rottweiler Artest, era comunque costretto a dover fare miracoli per guadagnare un canestro contro il più improbabile degli stopper difensivi, il perticone sempre basso sulle gambe e concentrato su ogni suo movimento.

E' troppo presto per poter dire “finalmente è sbocciato Jonathan Bender”, da quando è entrato nella lega fin troppe volte ci ha sedotti con partite incredibili e poi abbandonati con inspiegabili, lunghissimi periodi di impalpabilità . Carlisle però non può che gongolare, perchè se la squadra più forte e talentuosa della Eastern si ritrova a sorpresa un giocatore del genere in grado di contribuire così, la faccenda si fa estremamente seria.

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RIMANDATI

KENYON MARTIN
Incredibili le sue cifre al primo turno dei playoffs: 23 punti, 14 rimbalzi, 66.4% dal campo (il migliore di tutti i playoffs), il tutto impreziosito dal 36+13 in Gara 4; oltre alla solita devastante efficacia in contropiede ed in difesa si è aggiunta una inconsueta continuità  e concentrazione a rimbalzo e una ancor più inconsueta morbidezza di tocco nei movimenti sottocanestro.

E' quindi possibile trovare qualche macchia in questo ruolino di marcia apparentemente perfetto? Si, è possibile, e è roba da poco: se Bruno Pizzul avesse commentato le partite di Kenyon avrebbe sottolineato la sua tendenza a “maramaldeggiare”, ovvero ad infierire su avversari inferiori sotto tutti i punti di vista, anche quando questi erano chiaramente già  sconfitti. E' facile fare la voce grossa contro una frontline indecorosa, è facile fare i “bump” col petto assieme al compagno di merende Jefferson dopo una schiacciata in contropiede a partita già  conclusa, è facile fare continuamente lo sborone contro una squadra in cui non c'è nessuno in grado di fartene pentire, con le buone o con le cattive.

Tim Thomas non è proprio uno che abbia titolo per bacchettare gli altri, ma è difficile non essere d'accordo con queste sue parole: “Jefferson dice che Martin è un pitbull, e che nessuno vuole avere a che fare con un pitbull… Beh io non ho mai visto un pitbull che sceglie chi mordere e se la prende solo con lui; tutti i suoi atteggiamenti da grande “duro” sono piuttosto ridicoli: prendere tecnici e multe ti rende un duro? giocare in modo selvaggio e sregolato ti rende un duro?”

Alla fine della fiera la situazione è sempre quella: KMart si comporta come se fosse una grande superstar affermata in questa lega, quando sostanzialmente non ha fatto ancora nulla per confermare l'altissima opinione che ha di se', e ha sempre la tendenza a fare il bullo con chi non può reggere il confronto con lui. Fortunatamente avrà  subito la migliore delle occasioni per per smentire queste parole, ovvero la sfida contro i Detroit Pistons e Ben Wallace: coraggio Kenyon, facci vedere se sei davvero un pitbull giocando contro gente che dura lo è sul serio.

CARMELO ANTHONY
Non si può certo dire che i primi playoffs della sua vita siano stati esaltanti… nelle prime tre gare 20/48 dal campo, 2/9 da tre, più di 4 palle perse a partita e soprattutto una tremenda difficoltà  a liberarsi del tignosissimo Trenton Hassell, che nei suoi trascorsi a Chicago pare aver assorbito da “Rottweiler” Artest un paio di nozioni su come stroncare il rendimento del top-scorer avversario.
Nella quarta partita è poi arrivato l'infortunio che ha chiuso sostanzialmente i suoi playoffs: 2 punti con 1/16 è un tabellino falsato, ma l'andazzo della sua gara ci suggerisce che anche senza la brutta caduta dopo il rimbalzo difensivo ci si sarebbe avviati verso una gara comunque deludente.

Tutto questo non si riduce comunque ad una bocciatura: l'onnipresente LeBron (non avrete mica creduto che si potesse parlare dell'uno senza menzionare anche l'altro, vero?) ha esplicitamente detto che in ogni caso lui avrebbe volentieri scambiato il titolo di Rookie dell'anno in cambio della partecipazione ai playoffs, anche solo al primo turno; e non ha per niente torto, perchè se è vero che perdere una serie come l'hanno persa Knicks o Celtics è solo tempo sprecato, è altrettanto vero che per un ventenne respirare a pieni polmoni l'atmosfera elettrizzante di una serie con la S maiuscola come quella fra Denver e Minnie non può che andare a tutto vantaggio del suo sviluppo di giocatore.

Ah già , in tutto questo ha fatto persino in tempo a smentire con decisione (bontà  sua) le affermazioni del Minnesota Tribune, che dava per certi frequenti pick and roll fra lui e Christina Aguilera…

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BOCCIATI

STEVE NASH
Resta uno dei migliori playmaker della lega, un grande giocatore ed una grandissima persona… però il 4-1 dei Kings ai danni dei Mavs ha un nome ed un cognome, i suoi.
Basta fare un confronto fra i suoi tabellini e quelli Mike Bibby:

Cifre di Nash: 13 punti, 38% dal campo e 37% da tre.
Cifre di Bibby: 23 punti, 48% dal campo e 52% da tre.

In una serie caratterizzata a sorpresa da punteggi bassissimi (più per indolenza ed imprecisione degli attacchi che per effettivi meriti delle difese), e in cui tutte le altre stelle dei Kings hanno reso molto meno di quanto fatto in regular season, Bibby è stato il vero ago della bilancia: la marcatura di Nash gli ha permesso di fare letteralmente tutto quello che voleva, dominando il confronto diretto dal primo all'ultimo minuto.

Il canadese quest'estate sarà  uno dei pezzi pregiati del mercato dei FA, è probabile che riceverà  offerte sontuosissime e sicuramente se le merita per quanto ha fatto vedere in questi anni; però questi playoffs sono un forte argomento a favore di chi dice che Nash sia un grande playmaker degno di guidare una grande squadra, ma senza quel “quid” in più che distingue i grandi giocatori dai campionissimi, quelli che alla fine della fiera si trovano del metallo splendente sulle dita.

LENNY WILKENS
Si sapeva che i Nets fossero troppo forti per questi Knicks: New Jersey ha più talento, più esperienza, è una squadra più completa in tutti i reparti e gioca a memoria; aggiungete a questo il fatto che gli infortuni hanno colpito duramente i bluarancio e capirete che non si può biasimare la squadra della Grande Mela per il risultato finale, e anzi si potrebbe addirittura ipotizzare un timido applauso per il modo in cui sono comunque rimasti in partita per 48' nelle due gare al Madison.

Quello che invece si può e si deve sottolineare è il modo con cui sono arrivate queste sconfitte: i Knicks dal primo minuto della prima partita sono apparsi già  sconfitti prima ancora di iniziare; molli, impacciati, impauriti, senza la minima traccia di orgoglio, rabbia, grinta; senza quella luce negli occhi che ti dice che hanno voglia di vincere, e se non possono vincere quantomeno cercano di perdere senza essere massacrati, e se non possono fare nemmeno questo almeno cercano di lasciare un segno nella mente e nel corpo dei propri avversari.

Invece non è successo niente di tutto questo: i Knicks si sono fatti non solo sconfiggere ma umiliare e letteralmente deridere dagli avversari, senza tentare praticamente mai in tutta la serie una reazione, una difesa intimidatoria, un fallo cattivo, un “faccia a faccia” a muso duro. Un atteggiamento del genere lo si poteva in qualche modo comprendere ed immaginare nei Knicks di Layden, Chaney, Van Horn, Eisley, Doleac e Houston, la squadra senz'anima, senza cuore, senza “cojones”… invece è inaccettabile per questi Knicks figli di Isiah Thomas, che dovrebbero essere ad immagine e somiglianza del loro presidente: non è difficile intuire cosa pensassero Thomas dal suo ufficio e Mark Aguirre dal suo posto a bordocampo vedendo un tale scempio, loro che ai bei tempi consideravano solo due opzioni: vincere o far pentire gli avversari di essere nati (e anche quando si vinceva, il secondo elemento restava comunque frequente).

In tutto questo la colpa è ovviamente dei singoli giocatori (Kurt Thomas su tutti: quello che una volta era uno dei più temibili serial-killer delle aree pitturate è sembrato un docile agnello sacrificale), ma non si può non guardare alla panchina: l'allenatore più vincente (e più perdente) della storia della lega non è riuscito, per l'ennesima volta, a dare un'anima, un cuore, una identità  precisa al gruppo che gli è stato messo a disposizione.
Anche senza voler ulteriormente richiamare il lato caratteriale ed emotivo di cui abbiamo diffusamente parlato, anche l'aspetto tattico è disarmante: che squadra sono questi Knicks? Non sono una squadra che vive per il contropiede e cerca di tenere il ritmo alto ma nemmeno una squadra che cerca di addormentare la partita a metà  campo; non sono una squadra difensiva ma nemmeno una squadra che cerca gli alti punteggi; non sono una squadra che cerca con costanza il post basso, nè un jump shooting team, nè tanto meno una squadra che attacca il canestro a testa bassa…

BOSTON CELTICS
In tutta la storia della franchigia è solo la quinta volta che subiscono uno sweep, e già  questo basterebbe a dare la misura di una post-season disastrosa. Bisogna però aggiungere che è solo la seconda volta nella storia dei playoffs che una squadra si fa sbattere fuori al primo turno senza vittorie e con un distacco sempre in doppia cifra.

A che pro andare ai playoffs solo per farsi schiacciare come moscerini e dare un ulteriore colpo al morale dei tifosi già  ampiamente sotto i tacchi, nonchè all'amor proprio di un giocatore come Paul Pierce, che per lunghi tratti della serie aveva negli occhi lo sguardo di chi pensa di aver buttato via gli anni migliori della sua carriera?

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