Ben Wallace in una classica foto da Bad Boy…
Cosa puoi provare, caro il mio esteta del Gioco, religioso adepto del mondo della palla a spicchi, quando il parquet lo accarezzano con violenza quelli della città dei motori per eccellenza? Se il tuo sangue scorre a fiumi di globuli e adrenalina - e se sei qui, ora, è anche il caso tuo – è come trovarsi catapultati di prepotenza in una messa in onore del basket: non puoi fare altro che adorare, adorare, adorare e pregare che continui in eterno. Fino all'ultima stilla.
Non ci sono sacerdoti né santi dentro il Palace of Auburn Hills, ma una manciata di selvaggi, pronti ad ogni cosa pur di fare più scuro il didietro di chiunque indossi una maglia di colore differente. Il mezzo? Tutti quelli conosciuti e anche qualcuno in più: Ben Wallace, ad esempio. Si avvisano con la presente i vari Jermaine, Kenyon e tutti i vari rappresentanti dell'NBA atlantica: i Pistons fanno paura per davvero.
Niente da fare, per quanto si cerchi di stare lontano il più possibile dal limite invalicabile del fanatismo, Detroit rappresenta anche quest'anno un reale omaggio in movimento alla pallacanestro, quella vera, quella che vorresti vedere sempre, quella utile per insegnarla. Una difesa talmente attraente da risultare volgare: un concentrato di potente agonismo visionario e passione che sembrano oscurare quelle geometrie tecniche di cui non ci si può separare per trasformare in realtà il concetto di vittoria finale, geometrie così velate da sembrare invisibili agli occhi dei più.
Uno di loro, su tutti, simboleggia ancora una volta i concetti di cui sopra: con il numero 3 da Virgina Union, Ben Wallace. Se un'icona ha da sempre reso semplice il legame tra un concetto e la sua realizzazione in termini pratici, lui ne azzera la distanza pareggiando i conti tra realtà e fantasia. Se non ci fosse, bisognerebbe inventarlo, sì, ma non sapremmo né cosa inventare, né saremmo mai arrivati a tanto, manco con l'abuso di spremuta di meningi.
Inimmaginabile è il corpo, inconcepibile la mente, invalicabile la passione, impensabile il risultato finale degli addendi. Quest'anno abbiamo, fra gli armadietti dello spogliatoio, un po' di armi in più, e la prima è, per assurdo, il fatto di non rappresentare più una sorpresa. Ora non ci si concentra più sul "cosa" Big Ben sia capace di fare sul parquet - ovvero dominare delimitando il territorio a suon di stoppate, rimbalzi e rubate - ma sul "come" e, da una ventina di partite a questa parte, anche il "con chi" lo faccia, dato che dietro è recentemente atterrato il miglior omonimo presente oggi sul pianeta.
Big Ben è per molti lunghi una speranza; un credo più che un semplice giocatore di basket, così come per tanti piccoli lo è stato e lo sarà sempre e per sempre Allen Iverson. Cosa centra? Wallace domina senza saper giocare, potremmo dire se fossimo banali osservatori superficiali. Si può invece dire, tranquillamente, che il grande Dio del basket abbia lesinato nel fornire il ragazzo di sensibilità presso le terminazioni superiori. Questo sì, si può dire. L'aspetto offensivo è pressoché inesistente e non da oggi, ma obiettivamente sono talmente eccelsi gli altri ambiti che non se ne sente davvero il bisogno. A maggior ragione ora, che le spalle sono coperte e più che bene.
Con la regular season in fase terminale e i playoff a fare capolino dietro un prossimo orizzonte, l'adrenalina e la sicurezza di sé aumentano esponenzialmente nella testa dei più; per altri, invece, l'allineamento mentale è sempre verso il vertice e mai in basso come nel caso di Big Ben. Per lui sembra che nei playoff ci si è sempre e in stagione mai, zero differenze. Glielo leggi negli occhi: il concetto di risparmio di energie non fa rima con nulla che lo rappresenti, meglio neanche giocare a quel punto.
Con tutta la tracotanza tecnica e fisica dei big men di Indiana, New Jersey, New Orleans, New York e chi più ne ha più ne metta, se fossi in loro almeno un briciolo di paura me la terrei stretta stretta in un cantuccio della testa, pronta per l'uso: Wallace & company adorano l'odore acre del sangue ma sembrano venerare ancora di più l'abuso di sicurezza nelle menti degli avversari. Partire dietro per approfittare della paura di vincere di chi ti sta davanti: suona strano ma è così.
Dei Pistons, peraltro, quest'anno non si è quasi mai parlato: sembrano arrivati dove sono ora solo adesso, per caso, inosservati agli occhi di molti titolati osservatori; ovviamente non è così e Wallace, nello specifico, è sempre lo stesso degli anni scorsi, fin meglio, anzi. Secondo nelle medie di rimbalzi e stoppate, ottavo nelle palle rubate, decimo nelle doppie doppie (in cui il secondo dato non è sempre rappresentato dai punti): semplicemente onnipotente.
Insomma, chi intende questo sport come un sano viatico per una visione del mondo dalle chiavi ignote ai più, non può che incoronare il nostro Ben quale stato dell'arte di quella parte del Gioco che non passa per forza dai punti messi a referto, quella stessa metà esasperata dal sudore, dalla passione e dalla forza di volontà che ognuno di noi dovrebbe impiegare sempre nei confronti di ciò in cui crede. Siano essi i sentimenti, le persone o, più semplicemente, la pallacanestro.
See ya' by In-The-Zone