Ron Artest non è più solo un duro…con Orlando per lui un career high da 35 punti
Ogni storia ha un inizio"
E la storia della quale ci occupiamo in questa sede ha inizio ormai quasi quattro anni fa in occasione della serie di finale del campionato NBA fra i Los Angeles Lakers e gli Indiana Pacers, la prima dell'era Jackson a L.A. e l'ultima come capo allenatore per l'ex grandissimo dei Celtics, Larry Bird.
L'esito della serie è ormai noto, la migliore versione dei Lakers dell'ultimo decennio vinse quella sfida in sei gare, ma il dato che preme sottolineare è che da quella sfida in avanti, nessuna finale è più stata così bella, così combattuta, così tecnicamente cattiva.
In più, a fare da contorno al dato di cui sopra, c'è da ricordare che sempre da quel maggio 2000, nessuna squadra est è arrivata così vicina a vincere un titolo NBA e ovviamente nessuna squadra dell'est è più stata così padrona del campo, così autoritaria e anche perché no, così sfacciata di quella versione dei Pacers.
Sulla panchina di Indiana di quell'anno, stava il figlio del profondo Mid West Larry, ma al suo fianco stava un altrettanto yankee purosangue, Rick Carlisle.
Il suo futuro sembrava allora segnato, il solco tracciato da Bird avrebbe solo dovuto essere seguito, ma qualcosa dopo la sconfitta ha cambiato le sorti della franchigia giallo blu.
Il timone del comando si è trasferito nelle mani di Isiah Thomas, uomo mercato prima di Toronto, oggi di New York, che nei suoi anni di gestione della squadra di Indianapolis ha dimostrato ancora una volta come il talento in campo, il decisionismo tout court, la faccia tosta dovuta ad un brillante passato, non sempre siano le uniche doti richieste per condurre dal punto di vista tecnico e manageriale una realtà complessa come quella di una squadra NBA.
In questo Zeke è attorniato da un nutrito gruppo di consoci.
Michael Jordan, Magic Johnson, Charles Barkley, sono solo alcuni nomi di leggende della pallacanestro moderna, che nonostante l'aura quasi mistica che li attornia, proprio non riescono a sfondare come uomini dietro una scrivania o con le chiappe sopra un panca.
Sta di fatto che la parentesi Thomas ha fruttato davvero un magro destino alla squadra che aveva posto le premesse per essere la dominatrice della Eastern Conference per almeno un lustro. Buone regular season hanno portato ad altrettante secche eliminazioni nei play-off.
Crisi dentro e fuori lo spogliatoio hanno fatto diventare un gruppo apparentemente unito e ben disposto a lavorare, quasi una replica dei peggiori modelli targati western conference, al pari di Portland.
I giocatori migliori che più volte hanno dichiarato di rimanere per denaro e non sempre hanno dimostrato di dare quanto ci si sentiva legittimamente di poter chiedere.
Quest'anno l'ulteriore svolta.
Il ritorno nella stanza dei bottoni di Bird ed il contemporaneo litigio pro draft fra Carlisle ed il suo allora datore di lavoro, al secolo Joe “GM dell'anno” Dumars a Detroit, hanno aperto le porte al ritorno nell'Indiana del figliol prodigo.
Risultato, alla faccia dei Nets, quest'anno obiettivamente un scalognati a livello di infermeria, dei Knicks, in piena rifondazione post Layden, dei Cavaliers, appena entrati nell'ombra di James e perché no dei Pistons della nuova coppia dei Wallaces, i Pacers sono ritornati in pochi mesi la prima forza della conference e lo hanno fatto con armi ormai sconosciute da anni fra i propri avversari.
Sfruttando il meglio che la rivoluzione Isiah ha portato nelle stagioni precedenti nel roster, Carlisle ha cominciato a lavorare con i medesimi crismi portati nella sua esperienza nella Motown. Ha affidato le chiavi del gioco ad un play veloce e fisico, al secolo Jamaal Tinsley.
Un uomo difficile, newyorkese quanto e più di Marbury, tanto per fare un esempio, meno geniale nelle soluzioni, ma dalla grande solidità difensiva, dalla capacità decisionale decisamente buona in contropiede, dalla visione di gioco totale, anche se dal pessimo carattere.
Ha poi trovato in Ron Artest, l'esterno di grande spessore fisico, dalla capacità di concludere le partite, dalla cattiveria difensiva e tanto per cambiare dal pessimo carattere. Ha utilizzato la firma del nuovo mega contratto, per rendere Jermaine O'Neal molto più di ala forte stoppatrice.
Oggi J O non è più solo l'omonimo di Shaq.
E' un giocatore completissimo, il vero leader in campo, anche se solo in costruzione, che tira con due mani, che controlla entrambi i tabelloni, che corre, salta e difende e che ha un carattere non pessimo ma piuttosto difficile.
Infine ha ripreso per i capelli (pochi) un Reggie Miller che senza mezzi termini voleva smettere di caricarsi la squadra sulle spalle e lo ha reso il veterano rispettato e indispensabile. Anche se con un pessimo carattere.
Insomma, Rick Carlisle ha preso un gruppo di giocatori che praticavano pallacanestro a dispetto e nonostante i propri pessimi caratteri e li ha resi in 3/4 di una stagione, una squadra, almeno all'apparenza nel vero senso del termine.
Oggi infatti i Pacers, giocano, unico caso in una conference che per la stragrande maggioranza dei commentatori avrebbe solo dovuto eleggere un agnello da macellare, un basket calcolatissimo.
Un basket fisico, veloce, che cerca sempre di sfruttare i punti deboli anche delle corazzate dell'Ovest e su questi batte fino a farle cedere.
Lo fa attraverso una rotazione costante dei propri uomini, in modo da avere un gioco veloce e pronto nell'esecuzione, una difesa che non si fa problemi di estetica quando c'è da calare il fallo su di un avversario in contropiede e con un istinto da killer piuttosto marcato.
Il prodotto di tale sforzo, ad oggi, è il miglior record della lega, non della Eastern proprio della lega, una Conseco Field House raramente violata (7 volte in totale) ed una personalità che saranno certamente ingredienti di grande peso quando i contendenti dovranno misurare le proprie ambizioni di competere per l'anello 2004.
Un riconoscimento ulteriore va poi al lavoro che coach Rick ha saputo fare con i giocatori “di ruolo”. Con una rotazione così completa, per forza di cose questo tipo di elemento diviene necessariamente indispensabile per gli equilibri della propria annata.
Così, per i Pacers il nome di Jonathan Bender, ad oggi in lista infortunati, è passato da quello di grande incompiuto a quello di giovane sulla via della completa maturazione ed espressione totale dei prepotenti mezzi atletici dei quali si ritrova fornito.
Il nome di Fred Jones non è solo quello di un atleta da All Star Saturday o quello di Al Harrington non è solo quello di giocatore completo e tenace almno quanto sottovalutato fino a dodici mesi fa.
Il nome di Jeff Foster, Scott Pollard e Austin Croshere non è solo quello della quota bianca del roster, ma di altrettanti fondamentali raccoglitori e gestori di palloni preziosi.
Giocatori proprio alla Carlisle, intelligenti anche senza talenti enormi, di cuore e di sudore anche quando gli avversari si chiamano Stojakovic, Webber, Shaq, Malone o Garnett.
Sì, Carlisle ha avuto il merito di ricominciare ad allenare la squadra e non solo a schierarla sfruttandone le potenzialità presunte o garantite e questo potrebbe fare grande differenza fra poche settimane, quando presumibilmente saranno ai nastri di partenza della propria griglia di play-off con il numero 1 sulla schiena.
Ad oggi si potrebbe obiettare che già in altri anni i Pacers avevano il talento per tornare in finale, ma quest'anno sembra che al talento si sia unita una concretezza (per usare un termine molto amato nell'italico gergo) decisamente meno elegante e più efficace e visto che i pronostici sono fatti per essere smentiti, non ci sarebbe nulla di strano se con il ritorno di Carlisle si tornasse anche a vedere una finale fra Pacers e Lakers, magari ancor meno scontata di quella del 2000.
Ognuno faccia gli scongiuri del caso, tanto da divertirsi nelle prossime settimane ce ne sarà per tutti.