Il Madison Square Garden e il suo nuovo idolo
Tanto per cominciare, giù il cappello. Quello introduttivo, s'intende, che nel caso specifico è tranquillamente abrogabile: per il play da Coney Island non c'è aggettivo che si addica, mai inventato uno adeguato. Certo, ciò che regna da sempre nelle viscere di Steph - e glielo leggiamo sulla pelle da una vita - è senza dubbio un sentimento pregno di negatività e profondo bisogno di emergere oltre le difficoltà : stiamo parlando di inquietudine.
Quando esci dalle profondità di una giungla di cemento e ferro, in cui la parte del cemento la fanno una selva di projects tali da impedire alla luce del sole di penetrare al di sotto di un trentesimo piano, mentre la parte del ferro la fanno migliaia di pistole nelle tasche di chiunque abbia compiuto i dieci anni, quando esci da questo genere di realtà , il mondo non lo vivi come possiamo intenderlo noi, no: hai la strada al posto del sangue e il rumore metallico di una retina alla quale rendere grazie in ogni secondo della tua vita.
E non è tutto. Se da sempre, dal primo giorno in cui sei uscito dal ventre di tua madre, sei stato nominato "leggenda", scopri in fretta che l'eredità della strada è molto diversa dalle aspettative riversate sui figli dei grandi campioni: è molto di più, è l'irrevocabile potenza di un inevitabile destino che percorrerà la tua vita fino all'ultima stilla di energia.
Steph ai Knicks non è a casa. Se per questo, intendiamoci, non lo sarebbe da nessuna parte, in nessuna altra squadra. L'idilliaco mondo della NBA, creato per far divertire la gente, farla saltare in poltrona o davanti ai monitor di un intonso salottino da quarto anello, non fa parte del DNA di gente come Stephon Marbury.
No, l'NBA è il circo moderno nel quale mirare bestie feroci scannarsi fra loro. Però è un viatico; un modo per trasformare talento e attitudini in una fonte della giovinezza fatta di milioni e milioni di dollari. Non c'è il rispetto per il gioco che c'è in strada, non c'è la vita reale tra un passaggio e una stoppata, solo soldi, interesse e pezzi di carta chiamati contratti.
Steph ai Knicks non è a casa, ne è solo molto più vicino. L'unico modo per sopravvivere in questo mondo che non gli appartiene, è traslare il cemento, che per mille volte lo ha visto protagonista, sul parquet del Madison Square Garden e mostrare al mondo cosa può fare la voglia di creare un futuro per sé e per la sua gente.
I Knicks, finalmente, andranno ai playoff; con tutto quello che ne consegue: decuplicato l'impegno arcigno della stampa con il barometro della pressione che sale vertiginosamente intorno al team più chiacchierato d'America. E lui, il numero 3, a varcare i legni macchiati di blu e arancio: un nuovo sogno, per i tifosi della grande mela, trasformatosi in incubo per troppo, troppo tempo.
Solo uno come Marbury può incarnare l'essenza profonda della grande mela: il meglio e il peggio allo stesso tempo, bene e male, la passione, l'orgoglio e il desiderio di primeggiare, tutti insieme allo stato dell'arte. Ecco perché Starbury regna: i suoi principi, ciò che lo animano dal di dentro più oscuro e profondo, sono gli unici motori in grado di spingere fuori dalle sabbie mobili di un'altra vacanza fuori programma i New York Knicks, restituendo il blasone e il timore che questo team ha da sempre storicamente realizzato.
Miglior penetratore uno contro uno dell'intera National Basketball Association, l'uomo da Brooklyn sta mettendo a registro un marzo stellare da 22 e 11: è nei primi quindici in cinque diverse categorie statistiche (medie punti, minuti, assist, rubate e assist per palle perse), segna 23 di media quando si vince e 19 quando no, segno indelebile del bisogno che si ha di lui in termini di efficienza. Insomma l'unico modo per fermarlo sembra quello di prenotargli un giro dal tatuatore di fiducia.
Solo Oscar Robertson condivide con lui la media in carriera di venti punti e almeno otto assist a sera, tanto per aggiungere un tocco di storia ad un argomento tanto d'attualità .
C'è un fatto che in mezzo a tutto questo non deve mai passare inosservato: i virtuosismi a cui ci ha abituati su un parquet, per Stephon non sono la cosa più facile di questo mondo, come sembrerebbe ammirandolo. La pressione e le responsabilità che la "leggenda" si è sempre portata addesso come indesiderato background cultural-attitudinale, non sono mai passate inosservate. Tutto ciò che è successo fin qui nella carriera di "Future" ha sempre e comunque dovuto subire il filtro della critica, della visione da strada, del ghetto, della povertà , del simbolo del dollaro. Nulla è e basta, tutto ha e deve avere sempre un significato.
Ma d'altronde è e sarà sempre così: Marbury rappresenta una generazione di speranze, di difficoltà e di eccessi che non trova mai pace e che in parte speriamo non la trovi mai perché è energia pura, quella vera. Per i Knicks che vogliono uscire dal loro ghetto personale, per noi che lo adoriamo da sempre e per se stesso, che ai Knicks non è a casa e forse non lo sarà mai, ma che di certo quell'odore di asfalto lo sente certamente più vicino.
See ya' by In The Zone
"There's no defense that can cover him. Only his tatoos, maybe"