Kobe in acrobazia usando la spalla infortunata…
"Adoro giocare a pallacanestro, mi diverte moltissimo ogni aspetto del gioco, in particolare stare sul campo nel quarto periodo."
Le parole di Kobe Bryant, alla fine della partita di Chicago, vinta grazie ai suoi 35 punti spiegano molto, se non tutto, di questo giocatore. Che nei suoi otto anni di Nba non ha mai smesso di dimostrare la sua tremenda determinazione, quella sua unica attitudine per le sfide, anche le più impossibili.
Bryant sta giocando con una spalla in precarie condizioni; doveva stare fuori un mese. Si è imposto d'autorità , andando contro i medici, lo stesso parere di Phil Jackson, che sotto la sua impassibile figura, trema al pensiero che Kobe possa farsi ancora male. E' rimasto fuori meno di una settimana.
Nella partita contro Orlando ha segnato 38 punti, 24 nel quarto periodo, eguagliando il record di Jerry West ed Elgin Baylor. Ha letteralmente trascinato i Lakers che stavano sprofondando nelle sabbie mobili della noia e di un lunedì sera allo Staples Center contro la peggior squadra della lega; ha permesso loro di rimontare 15 punti e di imporsi poi al supplementare. Verso la fine del terzo periodo coach Jackson si è deciso a mettere Bryant su Tracy Mc Grady, il suo grande avversario e amico, che stava facendo il bello e cattivo tempo.
Kobe ha preso T-Mac sul lato sinistro del campo, non è caduto sulle sue ripetute finte, prima a destra e poi a sinistra, infine a recuperato il pallone e subito fallo dal giocatore di Orlando.
"Ci ha molto impressionato - ha dichiarato alla fine il veterano Rick Fox - perché è stato un ordine implicito e perentorio: non bisogna mollare, sui due lati del campo. Al tempo stesso sapevamo che era in grado di fermare il loro miglior giocatore."
Esiste un denominatore comune in questi primi otto anni di Bryant nella Nba: la tremenda determinazione, quel desiderio di emergere, che lo stanno rendendo un giocatore speciale. Una fame di basket e un desiderio di imporsi che non hanno eguali fra i giocatori della sua generazione.
Se la spalla destra gli impedisce di tirare, Bryant si ingegna, lavora e, non si sa come, in pochi giorni tira fuori un tiro di sinistro più che decente. Esattamente come, 2 anni fa, condusse i Lakers alla vittoria, in una partita in casa contro Philadelphia, con due costole incrinate.
"Sto cercando di non pensare - ha detto in questi giorni - al dolore. Mi concentro sugli aspetti del gioco, su quello che devo fare per aiutare la mia squadra. D'altronde si può giocare sul dolore. Non è quello il problema."
A volte la grandezza di un giocatore la si può notare nelle giornate sfortunate. Nella sconfitta esterna a Minneapolis, Bryant ha giocato una prima parte orrenda, tirando 1 su 11 dal campo. Senza forzare, prendendo i tiri che il sistema di gioco gli stava dando.
La dimostrazione del suo buon atteggiamento è venuto la sera dopo, a Chicago, dove Kobe ha segnato 23 dei suoi 35 punti nel secondo tempo, e condotto la sua truppa alla vittoria.
Contro Orlando nel primo tempo Bryant si è limitato a 0-3 dal campo con 1-2 ai liberi. Diversa musica nel secondo tempo: 12-21 dal campo, 9-11 dalla lunetta. Gli americani in questi casi parlano di "far venire a loro la partita". Che si traduce in "dominarla a poco a poco".
Ne è passato di tempo da quando, nel 2001, impazzava la diatriba con Shaq, spalleggiato da Jackson, che lo accusava di tirare troppo. Al tempo Kobe, forte di un estate passata ad allenarsi al tiro da fuori, rispondeva che invece con quei miglioramenti avrebbe dovuto tirare di più. Nel frattempo la considerazione di quei compagni, i Fisher, i Fox, che al tempo venivano imbarazzati dallo stesso Kobe in allenamento, si è ingigantita. Perché in questi anni non si è mai tirato indietro.
Lo sa bene Shaq: il suo atteggiamento nei confronti del giocatore di Lower Marion nel tempo è cambiato; lo definì "Show Boat", dopo qualche settimana, al primo trainin camp, per la tendenza del giovane Kobe a cercare giocate spettacolari.
Lo prese quasi a pugni nella stagione dimezzata di Kurt Rambis. Lo definì "il mio idolo" nel corso della stupenda cavalcata del 2001, subito dopo i 48 punti in gara1 a San Antonio. Prima della partita di Minneapolis ha chiaramente ammesso: "Senza Kobe sarebbe arrivato solo un titolo." Il massimo, se viene dall'ego di Shaquille O'Neal.
Bryant non ci si è soffermato più di tanto. E' impegnato nella sua nuova sfida: vincere questo titolo, dimostrare che, nonostante lo stesso Shaq, nonostante Malone e Payton, lui dev'essere il futuro incontrastato di questa squadra.
Il termine di paragone per Kobe è sempre stato lo stesso: per anni si è imposto di lavorare, adottando come punto di riferimento il gioco di Michael Jordan. La Nba, in maniera prematura, impostò un tremendo battage mediatico, trasformando l'All Star Game di New York in un ipotetico passaggio di consegne tra il "vecchio Michael", al suo ultimo anno ai Bulls, ed il "nuovo Kobe".
I primi flash "da Jordan" con gli 8 punti nel supplementare di gara4 della finale contro Indiana. E qualcosa, a cominciare dalla postura, di molto simile all'ex Bulls. A quattro anni di distanza Bryant è un veterano: sta vivendo sulla sua pelle cosa significa rialzarsi quando, per un tuo errore, vieni buttato giù dal piedistallo.
Sta avendo una stagione difficile: per il processo, per le distrazioni di ogni tipo legate alla sua vicenda, per gli stessi infortuni. Ha iniziato sottopeso, dopo che l'estate prima aveva lavorato per corazzare il fisico, con gli evidenti problemi tecnici di chi, fra operazioni e udienze, ha giocato poco durante l'estate. Ma le possibilità di titolo di Los Angeles passano comunque per le sue mani. E per la sua capacità di creare, fra i sei e i quattro metri dal canestro.
Dopodiché un futuro in cui Kobe, comunque, troverà il modo di spiazzarci ancora.