Baron Davis è solo la punta di diamante di un team profondo e ricco di talento…
Su chi scommettere per le Finals 2004 dalla parte dell'Atlantico? Un po' presto per pensarci, d'accordo, ma perché non rivolgere uno sguardo a questa bistrattata e un po' impoverita zona geografica del mondo NBA. Oggi l'elite a est si chiama senza dubbio Indiana, seguita a ruota dagli ex ragazzi poveri della grande mela e dalla versione new look dei Bad Boys di coach Brown, con l'aggiunta dei blu-arancio guidati dalla stella di Coney Island a fare da outsider. La moneta, nonostante tutto, io la farei cadere sui sassofonisti della Big Easy. E senza pensarci due volte.
E' proprio la ridondante attenzione concessa a tutte le altre favorite ad est ad accrescere giorno dopo giorno la voglia di vincere in casa dei soci del Barone. Il dominio incontrastato dei Pacers, i successi del nuovo corso Nets dall'uscita di scena di coach Scott, il rimpasto voluto dalla mente sagace di Isiah Thomas – che lo renderà in un mese di playoff eroe o agnello sacrificale, l'ascesa dei Pistons fra grandi incognite e strabordante talento con tutta l'attenzione del mondo media che ne consegue, non fa che inondare di fame da vittoria finale i ragazzi di New Orleans, spesso accantonati nel frastuono di squadre altalenanti che fanno sempre notizia nel bene e nel male.
Non è questo il caso degli Hornets, via di mezzo tra old school basket fatto di difesa, contropiede e perfette geometrie e le playground moves importate dal Barone e perfettamente adattate in una macchina da canestri di lucida precisione.
Dopo quattordici anni di servizievole affetto dei cittadini di Charlotte, rei però di scarsa partecipazione nonostante le raffiche di sold out nella loro onorata carriera, dall'anno scorso i calabroni hanno trasvolato un po' di America per trovare casa nella fumosa e nera città del jazz, nata intorno al quartiere francese di "vieux carrè" non più di tre secoli fa.
La seconda stagione nella nuova dimora vede protagonisti gli stessi partecipanti della prima, con qualche ritocco estivo portatore di rookie e vecchie guardie, nel vero senso della parola, e con la fuoriuscita di coach Silas, considerato troppo "buono" sul piano umano e non tecnico dalle grandi teste pensanti dirigenziali. La parola d'ordine comunque non cambia, è sempre e solamente "intensità ".
Gli Hornets, che senza pensarci troppo sono nettamente più indietro al capitolo "talento" rispetto alle dirette avversarie di conference, devono forzatamente impiegare l'unica risorsa che non può essere conquistata con gli allenamenti, con gli insegnamenti o con le sedute in sala pesi: il cuore.
Qui dentro c'è gente che in quanto a forza d'animo ci ha fatto una ragione di vita e questa mentalità "I want I can" non può che contagiare positivamente corpo e spirito dei colleghi meno dotati; Jamal Mashburn, PJ Brown e Darrell Armstrong guidano nel miglior modo possibile chi ha qualche primavera in meno, affiancando ma lasciando leadership a chi ha carattere e doti fuori dal comune (leggi Baron Davis) e traendo da ognuno dei partecipanti alla corsa per l'anello, sera dopo sera, il meglio possibile.
Dietro un barone da 23 e otto assist a sera – il meglio fin qui in carriera nonostante una percentuale di tiro ancora al di sotto della sufficienza – c'è gente che sta contribuendo a modo suo ad una crescita collettiva considerevole. Jamaal Magloire non è più uscito dal quintetto da quando l'ex responsabile di reparto - tale Elden Campbell, ora ai Pistons - si è infortunato durante la scorsa stagione.
Da allora, il centro canadese non ha mollato la presa a suon di solide prestazioni difensive e offensive, mettendosi in mostra anche nella recente vetrina di Los Angeles all'All Star Game, condendo la serata di 19 punti (top a est) e otto rodman (idem). Di angoli da smussare ce ne sono parecchi e che non sia un All Star per antonomasia ne siamo certi, ma che possa essere uno dei pochi, veri, centri NBA, zero dubbi.
Di PJ Brown sono state versate tonnellate di parole: power forward titolare sempre, comunque e ovunque lui vada, è semplicemente un'enciclopedia difensiva incarnata. Da un decennio, per giunta.
E se il leader silenzioso resta sempre e comunque Monster Mash, ventello sicuro ogni sera da secoli, l'aggressività , il coraggio e la voglia di emergere sono un principio basilare tra i neuroni dei frequentatori del pino. "Flash" Armstrong resta, nonostante la discendente parabola dovuta all'aumento delle primavere, uno di quelli più coriacei a livello NBA sui due lati del parquet incrociato.
George Lynch, anche, ha fatto del suo meglio per non far sentire la mancanza di Mashburn durante la prima metà di stagione, nella quale il titolare del ruolo di ala piccola era bloccato in riabilitazione, dando ogni sera il massimo di se stesso in termini principalmente difensivi e contribuendo al record comunque positivo dei suoi Hornets.
Non dimentichiamoci infatti che l'assenza del numero 24 in maglia azzurra è opprimente in un team come questo, fatto di tanto, tanto cuore e di limitati mezzi tecnici offensivi, in confronto alla concorrenza. La sua presenza in quintetto dal primo minuto, in perfette condizioni di salute, è il requisito minimo necessario per pensare all'imminente futuro degli Hornets, pena una quasi sicura uscita al primo turno, contro qualsiasi delle avversarie dirette. Il record positivo nella Big Easy è infatti per lo più frutto di doppie "vu" contro squadre con record negativo a livello NBA: se si fosse giocato fin qui solo con le pretendenti più accreditate dell'una o dell'altra costa, il bilancio odierno non sarebbe accolto con il sorriso sulle labbra, vista una percentuale di sconfitte vicina al 70 per cento.
Ma se ne facciamo un fatto etico, in onore del buon Naismith, beh, allora i paragoni sono scarsini: un pugno negli occhi per gli esteti, forse – Davis escluso, ovviamente – ma un geometrico glossario tecnico in movimento per chiunque ami le viscere di questo affascinante giochino con la palla arancione.
Forse pensare agli Hornets come pretendenti allo scettro di Eastern Conference Champions può essere azzardato, viste le forze in campo; ma se il gioco fosse fatto solo di nomi, cognomi, numeri e medie, non staremmo qui a guardare dal nostro piccolo oblò italico un mondo fatto di sudore, cuore, anima e cervello come lo sono gli Hornets e tante altre realtà come loro.
See ya' by In The Zone