20 mitici paisà  (parte prima).

“Di solito mi faccio un sonnellino di due ore tra l’una e le quattro”

Non è poi così facile essere italiani all’estero. Me ne sono accorto anch’io, a Cambridge, UK. In casa mi hanno subito chiesto :“Are you italian ?”, e allora giù nel forno la pasta pre-cotta, senza sugo e senza sale.

Al college non è andata meglio. Ero davanti alla cartina geografica dell’Europa quando l’insegnante, nell’ora di intervallo, mi chiedeva di quanto la Mafia fosse potente in Italia.

“Ok”, gli risposi, “c’è ancora, ma non è come una volta o come viene descritta nella serie TV “I Soprano” e soprattutto, mentre io col dito indicavo l’isola, “è nata qui in Sicilia e si radicata soprattutto nel Sud Italia”.

L’insegnante ovviamente non ha capito niente, e forse continua ancora oggi ad immaginarsi l’italiano medio come quel folle De Niro che in “Mean Street” voleva colpire con delle pietre l’Empire State Building da Little Italy. Contenta lei…

Gl italiani in America hanno sfondato, non c’è che dire, e al sogno americano è dedicata quella che rimane la frase più bella che io abbia mai sentito pronunciare in una canzone .

L’autore è Francesco De Gregori in Bufalo Bill : “tra la vita e la morte, tra la vita e la morte avrei scelto l’America”, cioè un sogno, un’avventura a occhi chiusi da rincorrere subito.

Cercare i ragazzi italiani che sono diventati dei campioni nello sport non è difficile, il cognome non mente mai. Addirittura c’è anche una Hall of Fame, la “National Italian American Sports Hall of Fame”, con sede a Chicago al 1431 di West Taylor Street, nel cuore della Little Italy che fu di Al Capone.

Da qui attingiamo i nomi più famosi, quelli che più di tutti hanno saputo tenere l’alto nel mondo lo stile italiano. Questi i migliori
20.

20. PAUL TAGLIABUE
Dal 1989 è il commisioner della NFL. E’ il responsabile della lega più difficile “to handle”, da gestire, come dicono loro. C’è quindi lui dietro la multa a Joe Horn per aver parlato al cellulare, è lui che ha portato questa lega al vertice di gradimento degli sport professionistici americani.

Ha frequentato la Georgetown University dove però giocava a basket. Lo faceva piuttosto bene a dire il vero, se è vero che ha detenuto per 20 anni il record della scuola per rimbalzi in carriera, prima dell’arrivo di Patrick Ewing e dei Bad Boys di coach Thompson.

19. JERRY COLANGELO
Owner di successo dei Phoenix Suns della NBA e degli Arizona D’Backs delle MLB. E’ stato nominato 4 volte miglior “executive” della NBA e ha costruito i Suns delle Finali del 1993, una delle più difficili per Michael Jordan tanto per i suoi problemi familiari quanto per la presenza dell’MVP Charles Barkley.

Sebbene abbia fallito dove più sperava di vincere, cioè nel basket, ha vinto però nel baseball, suo ultimo grande investimento. Nel 2001 i suoi D’Backs hanno a sorpresa sconfitto i New York Yankees e i due mitici pitcher, Randy Johnson e Curt Schilling, sono diventati gli MVP delle World Series.

Cristiano rinato, è noto per la gestione familiare e tipicamente italiana delle sue squadre. Le cessioni di Jason Kidd e Cliff Robinson hanno più a che fare con il loro cattivo comportamento sociale che col rendimento in campo.

18. MARIO ANDRETTI
Automobilista, lo Schumi americano. E’ nato a Montona, in un paese che oggi è in territorio croato e che già  da bambino dovette abbondare per un campo di rifugiati dal regime comunista di Tito. E’ l’unico pilota ad essere stato nominato per tre diverse decadi il migliore dell’anno (1967, 1978, 1984).

Nel 1978 ha vinto il titolo piloti in Formula Uno con la Lotus e il suo rivoluzionario “ground effect”, dopo che aveva vinto in precedenza il suo prima Gran Premio con la Ferrari. Ha vinto tutto, tranne la 24 ore di Le Mans, corsa per lui maledetta che ancora negli anni ’90, quando aveva ormai scollinato i 50 anni, continuava cercare con la stessa tenacia con la quale vinceva in Formula Uno.

17. ERNIE DIGREGORIO
Spettacolare playmaker prima a Providence e poi con i Buffalo Braves nella NBA. Resta probabilmente la più grande meteora o se, volete, promessa non mantenuta, di tutta la storia della NBA.

Dopo una partecipazione alle Final Four NCAA del 1973, entrò con il tappeto rosso nella NBA e lui non fece nulla per evitarlo. “Guiderò la NBA negli assist e nelle percentuali dalla lunetta” assicurò.

“The Italian Leprechaum”, il folletto italiano, aveva ragione e difatti il titolo di Rookie dell’anno per l’anno 1974 fu un gioco da ragazzi. Aggiungeteci gli elogi di Jack Ramsey (“Dopo Bob Cousy, il miglior passatore di sempre”), la visita ufficiale alla Casa Bianca da Richard Nixon e Giovanni Leone ed ecco che prende forma una sorte di Lebron James “ante-litteram”.

Nella sua stagione da sophomore subì un infortunio al ginocchio e la sua sfrontatezza non fu tale. A proposito di Nixon, fu lui a dire che “raramente trovava un italiano che non fosse onesto”. Con “Ernie D” però si sbagliava. Lui sapeva di quanto talento disponesse ed era sincero nell’ammetterlo. Il resto lo ha fatto, purtroppo, un ginocchio malato.

16. JOHN “SONNY” VACCARO
Organizzatore di basket di strada e di tornei tra non professionisti, agente di famose aziende di scarpe, un personaggio favoloso, quello che più di ogni altro in questa classifica incarna l’italiano da libri e stereotipi.

Per ESPN è l’ultimo dei Don, l’ultimo dei padrini stile Corleone ne “Il padrino”, quello che adocchia i giovanissimi Michael Jordan, LeBron James, Kobe Bryant, Shaquille O’Neal o Tmac per offrirgli un contratto per le scarpe Adidas, Nike o Reebok o per assicurarlo nelle mani di un agente a lui vicino.

Se avete visto He Got Game, vi ricorderete sicuramente di quell’agente che parla come un mafioso siciliano che cerca di corrompere la giovane promessa Jesus con orologi di valori, Ferrari fiammanti e immobili da sogno.

Bene, Sonny non sarà  certo così nella realtà  ma è lui l’ispiratore di quella caricatura, un italiano che certo che non fa molto per togliersi di dosso l’etichetta di “mafioso del basket” ma anzi ne fa una ragione di vita per i suoi numerosi successi.

Alcuni dureranno per anni, come i tre tornei che in quanto a giovani baller poi diventati superstar ne ha visti passare molti : l’ABCD Camp (ora con lo sponsor Reebok), il Big Time Tournament e l’EA Sports Roundball Classic. Il meglio del meglio, baciamo le mani.

15. ANGELO “HANK” LUISIETTI
Una delle prime superstar del college basket a Stanford, il pioniere del tiro a una mano. Negli anni ‘30 quasi tutti i giocatori degli Original Celtcs e di tutte le altre grandi squadre della nazione tiravano rigorosamente a due mani. Quando Hank si presentò al Garden a New York mettendone 15 in faccia a Long Island tirando con una sola mano fu una rivoluzione.

Non fu il primo in assoluto, ma il merito del ragazzo dalla Bay Area è nell’aver mostrato quel tiro profano su un palcoscenico importante e nell’averlo issato a pratica ordinaria del gioco. La sua carriera finì praticamente quando decise di partecipare ad un film sul basket, “Campus Confessions”, che lo stroncò sia al botteghino sia in campo.

Il resto lo fece l’imminente seconda guerra mondiale, che peraltro non cancellò la sua rivoluzione. Ricordate Abbio della Virtus ? Tirava sistematicamente con una sola mano. Un seguace ortodosso…

14. DAN BIASONE
L’inventore dell’orologio dei 24 secondi. Nato a Miglianico, in Abruzzo, nel 1946 fondò i Syracuse Nationals, gli odierni Philadelphia 76ers che Wilt Chamberlain, Doctor J e Allen Iverson hanno poi trasformato in una squadra storica.

All’inizio della stagione 1954/55 ebbe la sensazionale intuizione di introdurre un limite di tempo per l’azione offensiva, calcolato, come rimane ancora oggi, sui 24 secondi.

Le squadre passarono da 79,5 punti di media a partita a ben 93,1 ma soprattutto, e qui c’è la genialità  tutta italiana di un Leonardo Da Vinci, i suoi Syracuse Nationals vinsero per la prima volta l’anello, combattendo in 7 tiratissime partite contro i Fort Wayne Pistons.

7 partite che l’anno prima invece le furono fatali, visto che in campo era in scena l’ultimo atto del nonno di Shaq, il gigante George Mikan. Biasone morì nella sua regione natale, l’Abruzzo, nel 1992, dopo aver avuto l’onore di entrare nella Hall of Fame di Springfield.

13. MIKE PIAZZA
Catcher dei New York Mets, battitore tra i migliori della sua era in tutte le Majors. Altro paisà , altra storia di raccomandazioni sottobanco. Fa ridere oggi, ma l’inizio di Mike Piazza tra i pro potrebbe ispirare una sceneggiatura di Hollywood, perché quello che è oggi un futuro Hall of Famer fu scelto solo al 62esimo giro del draft 1988 e non proprio per una scelta tecnica.

Si dice che dietro la sua scelta ci sia infatti tale Tommy Lasorda, che altro non è che il… padrino di uno dei fratelli di Mike. Comunque sia, Piazza ha subito dimostrato che non era tra i pro (solo) per raccomandazioni ma anche per il talento che gli permise di essere il miglior Rookie per la National League nel 1992.

Poi la storia torna alla luce del sole, con le Subway Series perse, le accuse infamanti di omosessualità , la visita ai Fori Imperiali. Ora spera che i Mets si rinforzino per tornare a rincorrere il titolo, nonostante mezz’America abbia eletto la sua squadra la più “stupida” degli sport pro.

12. ROY CAMPANELLA
Grande catcher dei Brooklyn Dodgers dal 1948 al 1957, per molti il migliore di sempre nel suo ruolo. La sua è una storia triste, che inizia dal divieto di poter giocare nelle Majors (suo padre era italiano ma la madre era afro-americana) e finisce tragicamente su una sedia a rotelle.

Correva il 1958. Roy aveva appena chiuso il suo negozio di liquori a Long Island ma nel ritorno a casa verso Manhattan lo tradì il fondo ghiacciato. La macchina finì fuori strada.

A soli 36 anni fu costretto su una sedia a rotelle ma nulla gli porterà  via 3 titoli di MVP della National League e un titolo storico, nel 1955, contro gli acerrimi rivali cittadini degli Yankees.

New York infatti, sul finire degli anni ’50, era il teatro dei mitici derby tra Yankees e Dodgers, tanto che persino ne “La leggenda di Al, John e Jack” il suo nome echeggia più volte nell’aria tra l’euforia dei suo tifosi.

Quando Roy fu costretto sulla sedia a rotelle però, i Dodgers si trasferirono a Los Angeles e lui non potè mai giocare con loro in California. Fu il primo catcher nero delle MLB e il secondo giocatore di colore ad entrare nella Hall of Fame. Il primo fu solo Jackie Robinson, scusate se è poco.

Lui l’ha sempre presa con filosofia, fin da quando disse che “per giocare a baseball devi essere un po’ bambino”. Un infarto ce lo ha portato via nel 1993, all’età  di 71 anni, metà  dei quali passati forzatamente su una sedia.

11. LOU CARNESECCA
Leggendario coach di basket nel college cattolico di St.John’s, il più prestigioso della Grande Mela. Non ha mai vinto un titolo NCAA ma il record di 526 vittorie e 200 sconfitte e ben 18 apparizioni al torneo NCAA in 24 stagioni gli sono bastati per entrare nella Hall of Fame.

Nella nostra personale classifica di gradimento è assolutamente primo invece. Si dice fosse sordo quasi come una campana se è vero che a malapena sentiva i fischi arbitrali o la voce dei suoi giocatori in cerca di un suo consiglio.

In compenso parlava molto, anche in italiano con accento toscano e con una ironia di fondo che lo facevano sembrare una sorta di Roberto Benigni o di Giorgio Panariello. Ricordate Bobby Knight, il mitico e irascibile coach di Indiana ? Ok, era lui il “Santone col Maglione”.

Ma è grazie ad un maglione, per di più rosso come il colore delle maglie da trasferta dei suoi, che sarà  ricordato per sempre. E’ un episodio intriso di italianità  sincera, fatta di superstizione, sbruffoneria, eccentricità .

Nella stagione 1985 i suoi Red Storm avevano inanellato una bella striscia di vittorie di 16 partite e Carnesecca, per non disperdere l’energia positiva, aveva iniziato ad indossare lo stesso maglione rosso fuoco ad ogni partita, stonando a dir poco con l’eleganza ricercata delle signore della prima fila del Garden.

Ma lui era letteralmente di un altro pianeta e così, anche quando i suoi spezzarono la striscia contro Georgetown, impenitente come sempre, continuò ad indossare altri maglioni sgargianti in attesa della futura sconfitta.

Ah, piccolo particolare : il coach che gli aveva interrotto la striscia era quell’omaccione di John Thompson che, non si sa come, aveva trovato della sua taglia XXL lo stesso maglione di Carnesecca.

Ovviamente vinse lui, ma poi non lo rimise più perché doveva giù sopportare altre critiche e quello sul gusto estetico erano decisamente di troppo.

10. YOGI BERRA
Catcher dei mitici New York Yankees di Joe DiMaggio e Mickey Mantle, è famoso tanto per le 10 World Series vinte, (nessuno lo ha mai eguagliato), quanto per le sue battute che prendono in giro la lingua inglese e la comune logica sintattica.

E’ tutta roba sua : “Non è finita fin quando non è finita”, “Si fa tardi presto qua fuori”, “E’ tutto un deja vu, ancora una volta”, “Abbiamo fatto troppi errori sbagliati (wrong mistakes !)”, “Puoi osservare molto guardando”, “Se la gente non vuole venire al ballopark, niente può fermarli”, “Il futuro non è quello che è di solito” e altre perle ancora.

Cresciuto in un posto chiamato “The Hill”, il “neighborhood” italiano di St. Louis, sarà  sempre ricordato per due momenti diversi ma altrettanto leggendari. Il primo in campo, siamo a gara 7 delle World Series del 1956 contro gli odiati rivali cittadini dei Brooklyn Dodgers di Roy Campanella.

Immaginatevi la rivalità , Brooklyn contro il Bronx, i catcher italiani Berra e Campanella l’uno contro l’altro. Dopo un primo HR nel primo inning arriva il momento epico. Yogi è al piatto con due strike, il terzo facile dell’out è nel guantone di Campanella ma il grande catcher fallisce. Un lancio dopo…Homerun ! e vantaggio di 4-0 per gli Yankees che vinceranno la partita e il titolo.

Il secondo episodio avviene invece su un bus. Gli Yankees di coach Berra, siamo nel 1964, sono reduci da una brutta sconfitta e stanno per fare ritorno a casa nel loro bus quando da un sedile salgono limpide le note di un armonica a bocca. Il colpevole è il suo “infielder” Phil Linz e la pena non è solo una tirata di orecchie ma molto di più.

Nonostante l’alterco che lo rese antipatico alla squadra per la sua durezza, gli Yankees arrivarono in finale, ma persero a sorpresa con St.Louis. Altrettanto a sorpresa la dirigenza decise che dopo una sola stagione si era stancati dei suoi duri metodi.

Con chi lo rimpiazzarono? Con il coach che le portò via il titolo, ovviamente, il Cardinal Johnny Keane. Vabbè, consoliamoci con una altro suo diamante : “Di solito mi faccio un sonnellino di due ore tra l’una e le quattro”. Lo porterò con me all’esame di Logica per l’Università  !

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