Il ritorno di Jesus

Tecnica e spettacolo. Due specialità  di casa Allen

Nella NBA come in qualsiasi altra lega professionistica del mondo, i pareri, oggi positivi, domani un pochino meno, così come i giudizi che vengono tranciati da osservatori più o meno competenti, possono essere frutto di ricerche incessanti, di studi approfonditi su statistiche e sulla tecnica, oppure possono semplicemente dettati dall'andamento della moda imperante oppure, detto senza ipocrisie, dalla simpatia personale che un dato personaggio suscita nella gente che gli sta attorno.

Nella settimana appena trascorsa, il giocatore MVP per la Western Conference ha portato il numero 34 della franchigia di Seattle e il suo nome ha risposto a quello Ray Allen.

Il premio, è bene dirlo, è palesemente molto meritato.
Si tratta di un riconoscimento al grande ritorno, dopo due mesi di infortunio, per il capitano dei Sonics, ma qualche cosa alla mente del tifoso comune potrebbe sfuggire.

All'inizio di questa stagione infatti, la curiosità  di vedere la nuova franchigia ormai non più di “proprietà “ di Gary Payton doveva essere forte in tutta la città  dello stato di Washington, ma la prima tegola non si è fatta attendere per i tanti abbonati della Key Arena.

Il nuovo titolare della fascia di capitano, appunto il numero 34 di cui sopra, si è dovuto sottoporre in fase di pre season ad una operazione per rimuovere un pezzo d'osso dall'articolazione della caviglia perdendo così le prime 25 partite di stagione regolare.
Stagione quindi da buttare?

Nemmeno per sogno, perché in Allen vacatio, la squadra è partita davvero bene nell'annata. Un buon record, una bella amalgama di squadra, un rookie di belle speranze che cresce in fretta e mostra cifre positive (l'altro occuperà  l'infermeria ancora per un bel po'), ma soprattutto una nuova bocca da fuoco nuova di zecca a concludere i giochi disegnati da Nate Mcmillan, ovvero Ronald Murray, ieri semisconosciuto carneade ed in novembre, prima opzione offensiva della terza forza della Pacific Division.

E Allen nel frattempo?
Per tutta la durata della sua convalescenza, Ray Allen non ha mai lasciato le prime pagine dei giornali sportivi della West Coast americana.

Certo, il tempo di parlare del recupero della condizione fisica o del suo reinserimento negli schemi è stato poco, in compenso gli analisti hanno trovato modo di inserire il suo nome in moltissime possibili trade, mettendolo sull'aereo per destinazioni site in un po' tutta la geografia del basket pro attuale.

Fino a qui nulla di strano, è chiaro che i giocatori infortunati destino spesso voci del genere, quello che stupisce però è una serie di commenti, arrivati dai più disparati autori, dalla ESPN alla CBS, dai quotidiani locali di Seattle, che con toni diversi si domandavano in sostanza: “Ma questo Ray Allen ci serve davvero?”

Neppure il tempo di pensare ad una pronta replica ed ecco che il 23 dicembre, dopo una striscia di 8 sconfitte esterne consecutive ed un appannamento nelle ottime prestazioni iniziali, il capitano fa la sua ricomparsa sul parquet amico. Come?

Con 24 punti, 7 assist, nessuna palla persa e una vittoria per 116 a 90 sui Phoenix Suns pre trade. Da questa serata di fine dicembre i Sonics hanno giocato 13 volte.

In 9 occasioni è stato Allen il miglior marcatore della squadra, che ha avuto un bilancio di 7 vinte e 6 perse (delle quali 4 nelle ultime 4 gare) recuperando a pieno grado i propri galloni e relegando di nuovo alla panca un Murray che certamente potrà  essere ancora utile ai suoi, seppure oggi si trovi in uno stato di involuzione rispetto alle prime uscite stagionali.

In questo periodo, il rendimento della guardia dei Sonics si è rivelato costante, ma ha avuto punte di qualità  altissime, come nella vittoria contro Portland o ancora prima contro i Lakers, il 2 gennaio.

In quella occasione, davanti ad un pubblico che ha letteralmente osannato il suo ex pupillo Payton, Allen ha mantenuto la calma, non ha voluto strafare e si è concesso una sfida stellare contro Kobe Bryant.

In quarantotto minuti basket qualitativamente eccellente, ai 32 punti di Kobe (uniti ai 24 di Payton), Allen ha risposto con 35 punti e 9 assist, chiudendo anche la partita con un lay-up d'autore e mandando in archivio un W che ha saputo tanto di definitivo passaggio di consegne.

Certamente c'è da dire che con il ritorno di Ray alla guida, oggi i Sonics non si sono trasformati per incanto in una favorita per il titolo, ma la consistenza, la classe e l'affidabilità  che la shooting guard già  All Star e oro olimpico sta dando ai suoi tifosi e compagni è davvero un additivo che potrebbe pesare nell'economia dei play-off prossimi venturi, o per la corsa per arrivarci.

Ma allora come mai, è bene analizzare questo punto, un giocatore che riesce a fare di queste prodezze, è soggetto a dei bruschi salti di popolarità  e di considerazione, come pochissimi altri nella lega?

Il fatto è singolare. Se si guarda al rapporto con i media, Allen sembra essere ad oggi il membro della nazionale USA e dell'elite dei giocatori, più facilmente contestato e contestabile.

A parte il sottovalutatissimo Allen Iverson, con il quale non a caso ha diviso episodi fondamentali della carriera e il Kobe post denuncia, nessun grande targato NBA sembra essere meno considerato, tanto che per parecchio tempo, la trade che lo ha portato nel nord Ovest è sembrata riguardare semplicemente l'altra moneta della bilancia di quello scambio.

La verità  si spiega solamente con il carattere.
Ray Allen è un anti protagonista. Nonostante abbia interpretato un film (che forse gli ha nuociuto più di quanto gli sia servito) di successo, Allen sembra amare molto di più far parlare tecnica e numeri piuttosto della lingua.
Non è più nel giro dei grandi spot commerciali. La sua maglia non è certamente fra le più vendute. Non si tratta di un uomo espressione di un particolare ambiente, essendo sin dai tempi dell'Università  riconosciuto come il good guys da contrappore al dure Iverson.

Di contro però il suo linguaggio cestistico è quanto di più affascinante di possa vedere ad oggi su di un campo di basket. E' elegante, ha una meccanica di tiro al limite della perfezione, è un atleta da gara delle schiacciate, sa difendere con la cattiveria giusta e tanto per essere precisi sta giocando il miglior basket statistico della carriera.

E allora?
Allora forse sono vere quelle voci già  presenti ai tempi dei Bucks che richiamano l' attenzione sul vero difetto di “big play Ray”.

Si tratterebbe di un giocatore che necessita a tutti i costi di un buon press agent, per dirla tutta, di un uomo schivo ai limiti dell'antipatia, che non lascia molto ai compagni, che sembra lo rispettino, ma non molto in più e che lascia pochissimo al mondo che gira appena fuori dalla palestra; giornalisti, procuratori, gente varia che campa con la NBA che pare arrivi a detestarlo.

Basta quindi questa supposizione a far scrivere a tanti che nella classifica dei migliori della lega, ci può essere posto per i fari Q o J-Rich, Manu Ginobili (con tutto l'amore che si può provare per il talento di questo argentino), Vince Carter, Corey Maggette, Ron Artest e non per il placido Ray?

La cosa appare un pochino strana, ma nel frattempo il consiglio è di continuare a godersi la magia di “Jesus”, in attesa che qualche altro super cervello della pallacanestro ne trovi l'ennesimo difetto o la carenza che non ne farebbe il giocatore buono per guidare la propria franchigia.

Seattle nel frattempo è diventata la sua città .

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