Yinka Dare, una icona per i patiti di basket NBA…
Yinka Dare è morto all'età di 32 anni, all'ospedale di Englewood. Lo ha stroncato un attacco di cuore, occorsogli nella sua casa, due mattine fa, mentre preparava la colazione, dopo essersi allenato.
E' sempre difficile commentare notizie di questo tipo; è sempre difficile associare il concetto della morte ad un atleta, ancora giovane, che di per se dovrebbe essere l'impersonificazione della salute fisica.
Rimane interessante la parabola umana e sportiva del giocatore. Proprio perché personaggio che ne ha viste tante, dai giorni del successo all'Università George Washington, alla mediocrità , e magari qualcosa di meno nella Nba, alla lotta nelle leghe minori americane, per rimanere un giocatore.
Chi scrive ha ricordo preciso del giocatore: una sua partita, all'epoca del college, non ricordo contro quale avversario. E l'impressione di aver scoperto il centro che sarebbe stato fra i protagonisti dei successivi dieci anni. Sembrava un gigante fra i bambini, e forse lo era davvero.
Il giocatore nigeriano trascinò per due anni la sua squadra al torneo Ncaa. Fisico notevole, 2.15 di altezza. Abbagliato dai soloni che promettono sempre un futuro straordinario, decise di entrare nella Nba. Gli osservatori della lega sono sempre convinti che un'altezza ed un fisico del genere non si possono insegnare.
Chiedere a chi ha scelto Michael Olowokandy per conferma.
Eccolo quindi prima scelta dei New Jersey Nets, quelli sfigati, non quelli che conosciamo adesso. Quelli che giocavano in un mare di aereoplanini di carta. Quelli che "facevano da supporto" ai concerti di Southside Johnny and The Asbury Jukes.
Arrivato al piano di sopra tutti i nodi vennero al pettine: 110 partite. Una tecnica di base non sufficiente, in un mondo in cui il suo fisico non era più al di sopra della norma. E non solo quello. Un ambiente che all'epoca era cronicamente destinato ad ottenere meno di quello che avrebbe potuto. Dare si perse, divenne il perfetto esempio di giocatore uscito troppo presto dal college. Fu sbertucciato per la sua "difficoltà " nel servire assist: quattro in 4 stagioni, il primo festeggiato al terzo anno.
Finisce tutto. Il giocatore si perde, come detto, nell'oblio delle leghe minori, dove gli hotel quattro stelle diventano i motel nella periferia di città improbabili. Il ristorante tipo diventa il Mc Donalds del rione. Perché la diaria diventa una risorsa fondamentale per arrivare alla fine del mese. I viaggi, come dice in pullman diventano per le trasferte diventano infiniti. E gli allenamenti, come dice Mario Boni, sono lotte per la sopravvivenza. Il giocatore non si è più risollevato da questa dimensione. E progressivamente ha lasciato.
E' sempre antipatico, in questi casi, lo strascico di illazioni che accompagna la morte di ogni atleta. Soprattutto quando centra il cuore. I pensieri maligni di chi vuol pensare male. Al di là di tutto, rimane la sostanza.
Il giocatore lascia i genitori Gabriel e Joan, due sorelle e un fratello.
Non lascia un ricordo indelebile come sportivo. Ma per una volta non importa.