Sui playground della Grande Mela si rischia di giocare contro atleti tipo questi…
E' un casino. Abituato ai playground di una cittadina emiliana ai limiti del paesone, il pensiero di giocare nei famigerati playground di New York mi faceva battere forte il cuore. La mia ultima permanenza prolungata nella Grande Mela, coincidente con un periodo di caldo, mi ha fatto frequentare stabilmente meravigliosi campi da basket di strada.
Altra mia grande fortuna è stata quella di conoscere abbastanza bene la città , e di sapere dove era accessibile una partitella per un bianco grosso, tatuato e rasato, erroneamente sinonimo negli States di "o naziskin o gay". Siccome non sono nessuno dei due, ci tenevo a non essere vittima di segregazione ingiustificata (ingiustificata comunque), e mi sono avvicinato ai primi campetti in punta di piedi, timido timido con cappellino e felpina.
Per iniziare sono andato nel campetto sotto casa, in Paliside Avenue a Jersey City, brulicante di ispanici velocissimi ma tecnicamente limitati, erano lì perché era il loro territorio, non gli piaceva veramente giocare, mi avevano accettato solo perché abitavo lì vicino. Con loro ho fatto solo partitelle senza nessuna velleità agonistica. Decido di testarmi su Manhattan.
Vado a West Houston Street, dove l' anno prima avevo visto partitelle (in mezzo alla neve) di discreto livello amatoriale. Le fatidiche parole "Can I play?" sono state pronunciate con decisione, tutti mi hanno accolto con tranquillità e giusta indifferenza. Il mio livello di giocatore, tanto per intenderci, è a cavallo tra il C.s.i. e la Prima Divisione con puntate di massima forma in promozione, ho un buon tiro e una buona partenza a sinistra, difendo poco e fondamentalmente sono un giocatore di contatto.
O così almeno credevo. Tre contro tre, comincio. Il gergo è subito un handicap. "Get ball!! Get ball!!" mi gridava il mio compagno di colore con la maglietta di St. John, dando per scontato che sul blocco si cambiasse sistematicamente. Prima di abituarmi a dire "pick" invece di "blocco" ci ho messo un pomeriggio. Dicevo, giocatore di contatto, o almeno così credevo. Ad ogni entrata la mannaiata sulle mani è d' ordinanza e, come la leggenda vuole, NESSUNO chiama il fallo a meno che il penetratore non presenti ferite scomposte. Alla fine del pomeriggio, dopo cinque o sei partite, in cui ho fatto la mia onesta figura, saluto tutti: "see ya buddies".
Torno a casa, voglio di più. Dopo un paio di giorni vado a West 4th Street, al Village, proprio di fianco all' uscita della metropolitana, playground storico che si trova anche nelle guide di New York. Mi sento baldanzoso conoscendo già il meccanismo di ammissione, e reduce dalla buona prova di West Houston Street, entro nella rotazione praticamente subito.
Il gioco qua è durissimo, il livello fisico dei ballers è allucinantemente superiore al mio, e la intensità difensiva, dopo avermi colpevolmente battezzato un paio di volte che l' ho messa da fuori, è altissima. Non riesco a tenere il primo passo di nessuno dei miei avversari, le guardie di 1.90 che marco mi saltano sistematicamente. Con le orecchie in tasca me ne ritorno sconsolatamente a casa umiliato.
L' umiliazione mi fa un effetto strano, forse sono un masochista, un po' come Jeremy Shockey dei Giants, più mi picchiano e più abbasso il casco per cercare il contatto. Siccome non sono "Chi Non Salta Bianco è" (anche se il film era ambientato a Los Angeles), non mi avventuro in zona Rucker Park, non voglio profanare nessun tempio e nessuna parte del mio corpo mozzarellato, decido comunque di andare verso nord, vado al Bronx.
Qualche giorno prima, avendo assistito ad una partita degli Yankees, ho notato proprio a fianco dello Yankee Stadium, dei bei campetti, con della gente quasi accessibile che giocava. Mi sono recato lì, sulla 161st Street, per giocare. Aspetto un bel po' prima di entrare, i giocatori sono quasi tutti neri o ispanici, tutti sorridenti e ben disposti nei miei confronti. Il livello è abbastanza buono, assisto a un paio di schiacciate di un mio compagno di squadra, che addirittura mi chiede di fargli degli alley-hoop, si chiama Jerome. Gliene faccio uno, e mi dà un high-five sincero e sorridente.
Il giorno dopo, durante una passeggiata sull' Hudson, scorgo un bel playground a Battery Park, proprio di fianco a Ground Zero, con dalla parte opposta una bellissima vista sull' Hudson River. Guardo un po' i giocatori nei due campi, e decido che almeno in uno dei due posso andare. La situazione è strana: in una metà campo di un campo c' è una specie di gang di neri che ogni tanto giocano (molto bene), ci sono solo loro e nessun esterno si avvicina, sembra territorio off-limits.
Nell' altra metà campo, confinante con un campo di palla-mano (un muro su cui i giocatori sbattono con le mani una pallina), decine di asiatici che con alterne fortune si cimentano nel gioco del basket. In mezzo c' è un altro campo con partite vere di squadre miste.
Dopo un po' di attesa entro in una partita, buon livello di gioco, durezza solita, mannaiate, onestà e soprattutto spazio per il mio tiro da fuori. "Maaaan, are you serbian?", mi chiede un fratello con la maglia di Michael Finley. "I' m italian" dico, cercando di rimanere con la faccia dura.
Mi guarda e mi sorride, dandomi un five e una pacca sulla chiappa, dicendomi: "Nice job buddy". Da quel giorno Battery Park è diventato il mio playground, un paio di volte ho giocato anche nella metà campo "proibita", avendo fatto amicizia con uno di "loro".
Il senso di tutto ciò? Se non vai a Rucker Park o al Garden di Coney Island, se vai in un playground normale, a dimensione di mediocre giocatore che ama e rispetta il gioco, il pianeta è praticamente uguale.