Wade: una star a Miami

Dwyane Wade ha già  dimostrato di avere tutte le carte in regola per diventare una star NBA

Un anno da leone, il 2003 di Dwyane Wade. Dodici mesi vissuti perennemente in corsia di sorpasso, a pescare nel pozzo di un talento davvero speciale.
Gennaio. Wade, una guardia tuttofare, è la star incontrastata a Marquette, bassa borghesia NCAA.

Aprile. Torneo NCAA, Wade è semplicemente selvaggio e trascina i Golden Eagles fino alla terra promessa, le Final Four di New Orleans. Passano tre mesi e Dwyane è la quinta stretta di mano assoluta di David Stern al Draft, nel nobile teatro del Madison Square Garden.

Fine della corsa sull'ottovolante, almeno per quest'anno: siamo a dicembre e Wade parte in quintetto per i Miami Heat, gioca play e il suo coach, Stan Van Gundy, non ha avuto dubbi nel giustificare una recente striscia negativa dei suoi. Facile, mancava Wade.

Ormai si viaggia con l'overdrive innestato.

Alle origini del sogno
Dire che il Torneo 2003 abbia messo il nome di Wade sulla mappa del basket che conta sarebbe quantomeno limitante. Già  il luogo di nascita è garanzia di qualità .

L'attuale play degli Heat è infatti l'ultimo prodotto di uno dei serbatoi classici del basket Usa, quella Chicago che messa in proprio farebbe paura: pensate a un quintetto Wade-Finley-Maggette-Walker-Curry con Quentin Richardson sesto uomo"

Probabilmente non sfigurerebbe nemmeno ad Ovest, mentre chi è certo di non sfigurare in mezzo a tanti quarti di nobiltà  Nba è proprio DW, vero Chicago Boy se ce n'è uno.

Wade viene da Oak Lawn, sobborgo meridionale della città  ventosa, e i suoi primi vagiti cestistici li ha prodotti alla Richards High School, dove per la verità  la cotta vera l'aveva per il Football, e la stella della squadra di basket era il fratello Demetris.

Tom Crean, l'allenatore della Marquette University, ateneo di stanza a Milwaukee, è abituato ai talenti sfornati dai playground di Chicago che nemmeno degnano d'uno sguardo i pure vicini Golden Eagles, persi nella mediocrità  della Conference Usa.

La telefonata a casa Wade è andata meglio del solito, e anche se il ragazzo ha perso il primo anno d'eleggibilità  per deficienze scolastiche, il biennio successivo ha pagato ampiamente i dividendi del corteggiamento regalato ad un oscuro diciassettenne che preferiva il Football al Basket.

Marquette: dall'anonimato alla Final four
Che a Marquette si fossero trovati tra le mani qualcosa di speciale è parso subito chiaro. Bob Huggins, coach di Cincinnati, non è uso spargere complimenti in beneficenza: "Per trovare un atleta così nella Conference Usa si deve tornare ai tempi di Penny Hardaway. Copre una vasta area del parquet con la palla e anche quando non ce l'ha. Il suo primo passo è il migliore di tutta l'NCAA".

Oh, Huggins è uno che fino a tre anni fa allenava Kenyon Martin, di atletismo ne saprà  qualcosa?

Il fatto è che Wade si è ben presto dimostrato molto più di un semplice atleta. La sua sinistra tendenza a riempire tutte le caselle dello scout è sempre andata di pari passo con la capacità  di alzare il livello del gioco nei momenti decisivi. Coach Crean rimane folgorato durante il Great Alaskan Shootout, torneo d'inizio stagione, in cui Wade segna 30 punti a Tennessee ed il canestro della vittoria ad Indiana, in tap-in a 11 secondi dalla fine.

Già  buono al suo primo anno (17,7 punti 6,6 rimbalzi e 2,47 rubate), da sophomore Dwyane semplicemente esplode, ed i 21,5 punti, 6,3 rimbalzi e 4,4 assist di fine stagione non sono che il preludio ad un Torneo indimenticabile.

Il terzo turno contro Pittsburgh è la classica scossa d'avvertimento che precede il big one: Wade segna 20 dei suoi 22 punti nella seconda metà  e i Golden Eagles resistono alla rimonta di Pitt. La finale dei Regionals contro Kentucky, il 29 marzo 2003, è già  parte della storia del basket universitario. Per quel che contano i numeri, contro i Wildcats DW va in tripla doppia (la terza nella storia del torneo), finendo con 29 punti (11/16 al tiro), 11 rimbalzi e altrettanti assist.

Marquette trascinata di peso alle Final Four. Anche ai sogni c'è un limite, e i 33 punti di scarto rimediati da Kansas in semifinale testimoniano chiaramente che per i Golden Eagles era tempo di ritornare sulla terra. Nonostante tutto, Wade brilla ancora, e chiude le prime e ultime Final Four della sua vita con 19 punti, 6 assist e 4 rimbalzi, malgrado fosse guardato a vista in quanto unica reale minaccia per i Jayhawks.

A livello universitario il ragazzo di Chicago non ha più molto da dire, per cui, confortata dall'approvazione di Coach Crean, che gli deve molto anche in termini di reputazione "Prima che arrivasse lui, qui non si faceva la gara delle schiacciate, ma dei sottomano", nonché dall'ammiccare pressante degli scout Nba, la decisione è facile: si va nel Draft.

Benvenuto tra i grandi, ragazzo
Wade impressiona di brutto in quasi tutti i provini pre-draft, ma in ossequio a considerazioni geopolitiche in realtà  quantomai fragili, sembra destinato ad accasarsi ai Bulls, che scelgono al 7. La storia ha opinioni diverse, anche perché a Riley, all'epoca ancora allenatore degli Heat, che uno così debba finire ai Bulls solo perché del luogo, sembra quantomeno un insulto.

Scelto dalla Franchigia della Florida al 5, quindi, Wade sembra proiettato subito verso un ruolo rilevante. Gli esterni nel roster non mancano: da Eddie Jones a Caron Butler, e il mercato estivo aggiungerà  anche Lamar Odom, e Riley flirta poco coi Rookies, ma c'è un buco colossale nel ruolo di play, e il progetto di riconvertire l'ex-Marquette in regia prende subito quota.

Non sapremo mai se l'autoesclusione di Riley ad un tiro di schioppo dal via abbia cambiato i destini, ed il minutaggio di Wade, l'unica certezza è che il nuovo Coach è pur sempre un Van Gundy, i minuti non li regala a nessuno, e a Wade ne concede 41 nella notte del suo ingresso in società , a Philadelphia.

Proprio durante la partita dell'opening night, nella città  dell'amore fraterno, Wade fa conoscenza con gli standard fisici imposti dallo sport professionistico. "È solo una point-guard, ho pensato, e pesa meno di me".

Non è il primo e non sarà  l'ultimo a sottovalutare la durezza di Eric Snow, ma dallo scontro con l'avversario gli rimane non solo una brutta botta all'anca, che gli impedisce di volare in Texas per il back-to-back contro Mavs e Spurs, ma anche la presa di coscienza del mondo in cui è capitato. Nell'Nba non serve sbattere contro O'Neal per pagarne le conseguenze, basta Eric Snow.

Le cifre stavolta non mentono
Sembra una condanna, parlando di Wade, appellarsi al conforto dei numeri. Allora, tanto per cominciare Dwyane finora ha giocato 29 partite, alla considerevole media di 36,5 minuti a botta, e soprattutto, è partito sempre playmaker.

Novembre discreto il suo: 14,7 punti, 4,7 rimbalzi e altrettanti assist, ma anche un nugolo di palle perse e alcuni dubbi sulla sua consistenza di tiratore. Dicembre è un'altra cosa: si viaggia a 19,5 di media, nobilitati da quasi 5 assist, e dal canestro della vittoria contro i Raptors, pescato in taglio a centro area da un'invenzione di Lamar Odom, che non ha paura di affidare al rookie il tiro che vale la partita.

Pur rimanendo un non-fattore dall'arco dei 3 punti, Wade a dicembre tira col 53,5% dal campo, che a questi livelli vuol dire qualcosa.

Prima di un infortunio al polso, patito in trasferta nella capitale, il ragazzo cavalca inoltre una striscia di 6 partite a 25,2 di media, tra cui spiccano il career-high di 32 punti agli Hawks, aggiornato a 33 cinque giorni dopo contro Golden State, ed il citato canestro della vittoria a Toronto.

Due giorni dopo Natale i Knicks scendono in Florida e passeggiano, +20 alla fine, e Van Gundy dice che con Wade, fuori per il colpo al polso, sarebbe stata un'altra partita. Due notti dopo, a Chicago, DW è in dubbio fino all'ultimo, poi gioca sul dolore e i suoi 36 minuti contribuiscono alla vittoria almeno quanto gli 8 assist.

Al momento il rookie da Marquette è primo di squadra per assist, rubate e percentuale dal campo, secondo nei minuti giocati e terzo per media punti. Confermiamo: un anno da leone.

Tirando le somme
Stan Van Gundy si è invaghito di Wade e non fa niente per nasconderlo. Dice il coach: "Quello che sta facendo è più rilevante di quello che fanno Anthony e James, perché lui ha cambiato ruolo e ha la responsabilità  della sua squadra sulle spalle. Per lui sarebbe stato duro cambiare ruolo a Marquette, figuriamoci nella Nba. Sta avendo una stagione da rookie of the year, come Anthony e James".

A parte le forzature dovute all'infatuazione di Van Gundy, è evidente che l'avvio di stagione di Wade ha catturato l'attenzione degli addetti ai lavori.

Proprio come gli sponsorizzatissimi rookie di Cleveland e Denver, anche Dwyane è stato gettato da subito nella parte più alta della piscina, quella dove devi adattarti in fretta perché non si tocca. Oltre 35 minuti a partita, un ruolo nuovo di zecca cruciale per gli equilibri della squadra, tiri da distribuire ma anche da prendersi in proprio, perché la pericolosità  offensiva degli Heat non è tale da prescindere dal suo contributo.

Intanto la sua capacità  di apprendimento ha sbalordito lo staff. Dice ancora Van Gundy: "Non ho mai visto un giovane apprendere così rapidamente. All'inizio aggrediva il canestro ma aveva difficoltà  ad andare fino in fondo a causa della stazza degli uomini che incontrava a centro area. Ha imparato. La qualità  delle sue scelte è migliorata clamorosamente, e così il suo tiro da fuori".

È evidente che alla lunga certi dubbi sul ruolo andranno sciolti. Wade ha grandi istinti per il passaggio, ma non è un vero play, e risente del dover selezionare i tiri altrui, sentendosi in realtà  un realizzatore. "Nel primo tempo ho avuto diversi giochi in isolamento per me, nel secondo ho fatto la point-guard, ho guidato l'attacco e distribuito i tiri tra i ragazzi", ha confessato dopo una recente sconfitta a Philadelphia in cui dopo i 17 punti della prima metà  si è fermato a 5 nella seconda.

Sono dubbi che possono attendere, comunque, per ora Miami si gode un giocatore totale come pochi, forse non il rookie dell'anno come piacerebbe a Van Gundy II, ma certamente qualcosa che sta lì vicino.

Il ruolo lo decideranno il futuro e le sue molteplici variabili: in questo momento alla squadra serve che Wade faccia il play e lui non si tira certo indietro, anche se le sue statistiche possono risentirne o se deve abbandonare per strada qualche tiro per far girare la squadra.

Se sfiora i 37 minuti a partita, non è solo perché la sua riserva è Rafer Alston, ma perché difende duro, va a rimbalzo come un torello, e il suo contributo si sente in ogni fase del gioco.
Miami non è la franchigia più in voga della Lega, ma chi capisce di basket cerchia il suo nome in rosso esattamente come quando era a Marquette, a prescindere dal ruolo.

Se l'overdrive rimane innestato anche nei prossimi dodici mesi, il cielo è il limite per Dwyane Wade e dopo tutto quello che abbiamo detto non saremo certo noi a scommettergli contro.

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