Un indimenticato campione dei Kings: Mitch Richmond
I botti li hanno gentilmente portati Kevin Garnett e Latrell Sprewell, due bombe cruciali a testa, nella vittoria di Minnesota alla Arco Arena: 112-109 all’overtime. Ma la scena è stata tutta per Mitch Richmond.
Può un giocatore esser considerato il più importante della storia di una franchigia, a dispetto dei risultati, non certo brillanti, ottenuti dalla stessa franchigia nel suo periodo? Mich Richmond è stato i Sacramento Kings per sette anni. Kings, non vincenti come adesso.
Nondimeno, “The Rock” è stato l’emblema, della professionalità prima di tutto, e della volontà di non adagiarsi e abituarsi alla sconfitta: “Nessuno – ha dichiarato la moglie July – ha odiato perdere più di mio marito. L’ho conosciuto in un periodo in cui cercava di perdere peso. Ed ho apprezzato con quale dedizione sopportava i sacrifici imposti e gli alti e bassi che causavano al suo umore”.
“Non so – ha replicato Mitch – da dove venga questa mentalità . Probabilmente da mia madre. Penso che crescendo si sia fortemente influenzati dagli esempi dei genitori”.
La maglia numero 2 del giocatore è stata issata sul soffitto della Arco Arena, durante l’intervallo della partita con i T-wolves. Mich ha assisitito alla partita a bordocampo, in mezzo a Joe e Gavin Maloof. La sua, è la prima maglia ritirata, da quando i Kings sono in California. Farà compagnia alla 14 di Oscar Robertson e la 1 di Nate “tiny” Archibald, gli unici assieme a Kevin Lacey, a ricevere l’onore, da quando nel 1972, i Cincinnati Royals divennero Kansas City Kings.
Sulla grandezza del giocatore: nel 1998 divenne il quarto giocatore della storia a segnare più di 21 punti a partita nelle prime 10 stagioni. Gli altri : Kareem Abdul Jabbar, di nuovo Oscar Robertson e Michael Jordan. Numeri, che spesso significano poco, spesso se accoppiati ad un giocatore con record perdente.
Non nel suo caso. “Richmond – ha detto Jerry Reynolds, il GM che nel 1991 lo prelevò da Golden State – è stato il miglior affare che potessi fare. Ci mise sulla cartina della Nba, ci trasformò in contender per i playoffs (occasionalmente ndr) e fu un simbolo. All’epoca i giornali di San Francisco ci derisero per quell’operazione. Ebbero torto e in quel periodo non capivo proprio perché lo facessero.”
La carriera di Richmond inizia a Golden State: nel 1988, dopo aver fatto parte della poco fortunata spedizione olimpica americana a Seul, viene scelto dalla squadra della bay-area. Forma con Tim Hardaway e Chriss Mullin un fantastico trio di esterni, il “Run TMC”. Subito rookie dell’anno, segna 21 a partita. La squadra diverte e vince.
Ma l’ingresso fra le squadre di altissimo livello è fermato dalla cronica mancanza di lunghi. Alton Lister, fra gli altri, visto anni dopo brevemente all’Olimpia Milano. Nel 1991 Don Nelson prende uno dei tanti abbagli della sua carriere di General Manager e lo scambia per Billy Owens, considerato più versatile.
“Veniva – ha continuato Reynolds – da altre due stagioni in cui aveva segnato 22 e 24 punti di media. Era perfetto.”
“E’ stato uno dei rari casi – l’ha omaggiato l’ex compagno Mullin – in cui i numeri si coniugano alla durezza mentale in una realtà comunque perdente. I traguardi a livello individuale sono sempre stati ottentuti nel rispetto delle esigenze della squadra.”
“Se si guarda al livello complessivo delle sue prestazioni – ha detto Geoff Petrie, attuale GM dei Kings, che lo scambiò a Washington per avere Webber – non si può che ammirarlo. Ognuno di noi, all’interno dell’organizzazione lo ha sempre rispettato”.
Particolarmente importante questa testimonianza perché fra i due ci furono tensioni, nell’ultimo periodo per questioni contrattuali.
Il giocatore è stato nominato nel secondo quintetto Nba nel ‘93-94, ‘94-95 e ‘96-97. Inutile ricordare chi, nel suo ruolo è stato selezionato nel primo quintetto in quegli anni. Michael Jordan ha comunque sempre dimostrato grande rispetto e considerazione per il suo avversario.
Selezionato per il Dream Team di Atlanta per il ’96, la miglior stagione per i Kings che raggiunsero la post season, ma furono eliminati al primo turno 3-1 da Seattle, che sarebbe poi andata in finale. Della stagione precedente il titolo di mvp dell’All Star Game di Phoenix con 23 punti.
Nel 1998 lo scambio che lo portò nella capitale: altre tre stagioni di buon livello in una squadra tremenda, senza mentalità , prima del ritorno all’attività di Michael Jordan.
Curiosamente l’uomo simbolo di Sacramento è andato a chiudere la carriera, vincendo un titolo ai Los Angeles Lakers, i peggiori “nemici” della sua ex squadra. Era in panchina, ha visto spiccioli di campo, nella tremenda serie, chiusa all’overtime di gara7 sul campo dei Kings.
In quei Lakers, Richmond avrebbe dovuto dare un sostanziale contributo. La stagione fu deludente, il giocatore finì subito in panchina, ai margini della rotazione e rischiò addirittura di non essere incluso nel roster dei playoffs.
Ma persino in quella disgraziata stagione il comportamento strettamente professionale del giocatore non venne meno: allenamenti seri e nessuna polemica.
Shaquille O’Neal gli rese omaggio con un abbraccio molto sentito, sul campo, alla fine della gara4 con New Jersey che sancì il terzo titolo dei Lakers. Lo stesso abbraccio si verificò, qualche mese dopo, durante la cerimonia di consegna degli anelli allo Staples Center. E questa volta fu seguito da quello di tutti i compagni, mentre lo striscione celebrativo veniva issato sul soffitto del palazzo.
Gesti che valgono molto più delle parole. E che spiegano perché, al di là dei risultati, si possa esser considerati il miglior giocatore della storia di una franchigia.
Note: Settimana casalinga per i Kings che nella partita contro Minnesota hanno visto infrangersi la loro striscia di 8 vittorie consecutiva alla Arco Arena. I Kings perdono inoltre la loro imbattibilità casalinga stagionale. Precedentemente erano arrivati due importanti contro Houston Rockets e New Jersey Nets. Ma per una volta la stretta attualità segna il passo.