Lebron James continua la saga dei liceali che passano direttamente in NBA
Il dibattito rimane aperto e coinvolge diversi aspetti della società americana: è finito in realtà il tempo in cui tutti, a parole, si dicevano sfavorevoli, salvo poi agire in modo contrario.
La materia è quella degli atleti che decidono di entrare nella Nba, senza passare all'università . Un fenomeno estremo, frutto delle sempre crescenti necessità di visibilità e marketing.
Nel corso della stagione 1998 la Nba si lanciò in una delle più disgraziate campagne sociali dell'era David Stern: "Stay in School" era lo slogan, uno di quei messaggi a che agli americani piacciono tanto.
Nel frattempo una gran cassa mediatica si stava scatenando nei confronti di Kobe Bryant, giocatore al secondo anno, giunto direttamente dal liceo. Ed il messaggio che dava la lega in quel momento era esattamente il contrario dello "Stay in School". Anche perché a quel week end partecipò, per il secondo anno consecutivo, anche Kevin Garnett, il precursore.
Sulla campagna calò un velo pietoso, per l'abitudine sempre più diffusa delle squadre di scegliere liceali.
Indietro non si torna mai: al draft 2003 è stato scelto un liceale, Lebrom James, col numero 1. Lo stesso onore occorso due anni fa a Kwame Brown. Ma a James si chiederà d'esser subito importante. Particolare senza precedenti per la NBA. Ed anche un po' folle.
Alzi la mano chi non è convinto che Kobe Bryant, Tracy Mc Grady e Kevin Garnett sono fra i primi cinque giocatori della NBA. Si tratta di giocatori che non sono andati all'università .
Jermaine O'Neal, Rashard Lewis, Hal Harringhton. Sono giocatori che, in modi diversi, si sono ritagliati, un ruolo importante nelle loro squadre. Altri sono talentuosi ma non del tutto sviluppati: Bender, Deshawn Stevenson. Poi ci sono i punti interrogativi: Darius Miles, Eddy Curry, Tyson Chandler e lo stesso Kwame Brown.
Questi esempi dimostrano un dato inoppugnabile: il giocatore del liceo ha più o meno le stesse possibilità di diventare qualcuno del giocatore andato al college. La differenza fra le due realtà si è andata, via via assottigliando, man mano che gli studenti atleti, hanno cominciato a lasciare sempre più spesso il college con uno o più anni di anticipo.
Esempio concreto: è tutto da dimostrare che Amare Stoudamire, passato direttamente da Cypress Creek a Phoenix, sia meno maturo di Eddie Griffin con all'attivo un anno a Seton Hall. Ed in effetti i numeri direbbero esattamente il contrario.
Rimane la questione etica: che dimostra quanto le leggi dello sport, costituiscano un mondo a parte. Nella vita di tutti i giorni molti ragazzi di diciotto anni decidono di non accedere all'università per andare a lavorare. In questo non sono diversi dai loro coetanei cestisti, tra l'altro allettati da un mondo così luccicante.
Con tanti saluti ai conservatori, la maggioranza negli USA, che hanno visto, nel giro di pochi anni sgretolarsi il mito del sistema educativo americano, basato su un moderno "mens sana in corpore sano": gli studenti che prendono buoni voti e sono ottimi atleti. Chiedersi quanto sia giusto questo nuovo fenomeno è un puro esercizio di filosofia.
Più utile chiedersi quale sia l'effetto di questo fenomeno sulla lega. Ed in particolare sulle squadre che scelgono questi giocatori. Perché il primo problema è la gestione di questi atleti.
Particolare la storiella, riportata lo scorso anno dallo Chicago Tribune, secondo la quale Jalen Rose pungolava Tyson Chandler, mostrandogli i tabellini del suo "nemico" Stoudamire.
Discorso simile per Kwame Brown agli Wizard, passato dalla carota al bastone, nel giro di un mattino. Preso sotto l'ala protettiva di Jordan, e poi scaricato. Per poi provare le ruvide cure di Charles Oakley.
Tutto questo la dice lunga sul grado di maturità di questi ragazzi. Diciottenni alla carta d'identità , al loro arrivo alla Nba, ma quindicenni, nel migliore dei casi, dal punto di vista tecnico.
Di qui due tendenze. Da un lato la maggiore incertezza delle squadre "deboli" che una volta ai draft potevano scegliere i Duncan e gli O'Neal della situazione. Al contrario, ora, spesso si devono addentrare in un mare di valutazioni, dal talento dell'atleta al contesto tecnico in cui si è sviluppato, spendere una prima scelta per un giovanissimo, sperando nella buona sorte. Per giocatori che, dopo qualche anno, se sviluppati a dovere, rischiano di perdere. Vedere il caso Mc Grady per conferma.
L'altra tendenza è quella di rivolgersi sempre al di fuori degli Stati Uniti. Per giocatori che, al di là del talento, assicurano maggiore presenza in contesti professionistici.
Tutto questo contribuisce ad una Nba sempre più "ruspante": talento diluito, stelle, o presunte tali, convinte d'esser dominatrici del gioco prima ancora d'aver dimostrato davvero qualcosa, sulla base dei contratti stratosferici spuntati dopo qualche anno.
Vere vittime di questa situazione, le squadre stesse che continuano ad affidarsi a questa lotteria. Peccando di prospettiva e non rendendosi conto di quanto questa prassi, oramai irreversibile, impoverisce l'intero mondo del basket americano.