New York e i suoi playmaker

Pochi dubbi sull'identità  del miglior playmaker newyorchese in attività  oggi…

"Ci fu un tempo in cui Coney Island ispirava nei suoi residenti emozioni forti, in cui famiglie ebree, irlandesi e italiane vivevano a stretto contatto, creando il parco dei divertimenti dedicato ai tre mondi. Coney Island era il posto più accogliente che un immigrato, appena giunto in America, potesse immaginare."

Spiccioli di una storia, intrisa di umanità  e di grande basket. Una storia tratta da "The last shot", scritto da Darcy Frey, dedicato a quattro ragazzi protagonisti nei play ground di quel quartiere.

Il più forte o fortunato, il confine è sottile, oggi è uno delle migliori point guard della Nba, dopo esser stato definito Coney Islad Finest, il migliore a Coney Island.

Stephon Marbury, questo il suo nome, non fece altro che ricalcare la storia di Kenny Anderson. Ai 14 anni, arrivato a Lincon High Hischool, era già  considerato destinato alla Nba, esattamente come il suo predecessore, per Arcibishop Molloy, divenne il giocatore più importante dai tempi di Kareem Abdul Jabbar.

In comune il ruolo, come detto. Che affonda le sue radici nella città  di New York. La point guard, l'origine del gioco offensivo e l'inizio della pressione difensiva.

Marbury, Anderson, Mark Jackson, Jamall Tinsley, Rod Strickland e Speedy Claxton. Sei giocatori, sei point guard al momento nella Nba, provenienti da New York.

In comune uno stile molto particolare, un marchio di fabbrica del gioco. L'insostenibile leggerezza del "drive to the basket", la penetrazione verso il canestro. Non importa quale sia l'avversario da affrontare, quando sia alto il pivot di fronte a loro.

Gli esperti si dividono e danno due spiegazioni per questa caratteristica. I seguaci della teoria sociologica sostengono che questi giocatori esprimano con la penetrazione la durezza imparata sui campi all'aperto della città  più dura del mondo. Dove una partita di basket, al tempo stesso, può tenerti lontano o spingerti nel tunnel del crack.

"Nulla e nessuno può impedirmi di andare dentro". Un grido, una testimonianza di un modo di essere.

Per contro, c'è chi sostiene che i giovani play della grande mela imparino a penetrare nelle palestre tipiche della città . Col tetto basso, troppo per imparare a tirare con la giusta parabola.

Di certo nascono con il gusto estetico per il bel passaggio. In questo fondamentale del gioco ha fatto scuola Mark Jackson. Ora agli Utah Jazz, ma newyorkese puro sangue. Da Lincoln Loughlin High Scholl. Destinato ad essere il secondo miglior passatore della storia del gioco, davanti ad un certo Magic Johnson.

Curioso il suo rapporto con la squadra del suo cuore, i New York Knicks, per cui ha giocato due volte in carriera: disarcionato una prima volta, da coach Pat Riley, per la sua scarsa difesa, Jackson andò agli Indiana Pacers, con cui negli anni '90 costruì una solida rivalità . Pensare che qualche anno prima per lui, era stato sacrificato Rod Strickland, talentuoso concittadino.

Appena uscito dall'univerisità  di S. Jones (New York), Jackson legittimò questa scelta, vincendo il premio come miglior giocatore al primo anno. Ebbe una seconda, inaspettata occasione 2 anni fa, ma la squadra uscì al primo turno dei playoffs.

La sua parabola incornicia le vicende dei Knicks, in questo decennio, criticati per non essere mai riusciti a firmare un play della città , al posto dei criticatissimi Childs e Ward.

Lo stesso Marbury, prima di andare a Phoenix, ha sfiorato New York, giocando per qualche stagione nei New Jersey Nets, squadra del casello di East Rutherford.

L'erede di Mark Jackson è Jamal Tinsley, giocatore da due anni nella Lega, guarda caso per gli Indiana Pacers. Lo stesso stile di gioco, lo stesso gusto per il passaggio bello, prima che pratico. Una sensibilità  nelle mani fuori dal comune.

Chi scrive lo ha visto lo scorso anno esibirsi al Rucker, il più importante torneo di basket all'aperto nell'estate della grande mela, in una prova di ball-handling (trattamento di palla) stupefacente. Purtroppo per lui, altrettanto stupefacenti sono la sua lentezza di piedi e la innata idiosincrasia per la difesa…

Rod Strickland è un talento rapidamente evaporato dai parquet che contano nella Nba. La sua carriera è stata inferiore alle attese per una sinistra tendenza alle risse nei bar e una non ferrea disciplina da atleta. Sintomatica la sua abitudine di mangiare hot dogs anche a ridosso delle partite, salvo qualche volta "restituirli" nei sacchetti in panchina.

Lo stesso è successo a Kenny Anderson, per anni il punto d'arrivo nel "play-makin", per chi veniva da New York. Troppo eletto, troppo predestinato per tirare davvero fuori la cattiveria per diventare un grande. Eppure la stoffa e la musicalità  nel gioco si era sempre vista. Fin dagli inizi, nei soliti New Jersey Nets.

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