La città  del basket

Il tifoso N.1 dei New York Knicks, Spike Lee!

New York è considerata la città  del basket per eccellenza. Ma a cosa è dovuta questa fama? Principalmente a tre ragioni.

La prima, per i suoi numerosi campi all’aperto, detti playgrounds, su cui si potrebbero scrivere libri su libri, narrando sia le gesta di veri e propri funamboli della palla a spicchi (che magari non hanno poi avuto nessuna carriera professionistica), o quelle di numerosi illustri sconosciuti che, per una singola giocata portata a buon fine (leggi un canestro spettacolare o una stoppata memorabile), anche grazie alla fortuna, hanno impresso indelebilmente il proprio nome nella mente degli appassionati newyorchesi.

La seconda, per la competenza degli appassionati di cui sopra, soprattutto quelli che affollano le tribune del Madison Square Garden.

Onestamente, non sappiamo se quest’altra fama sia meritata o meno; certo è che, se mischiamo “competenza” con “esigenza”, allora non sbagliamo di sicuro. Il pubblico del Garden è il più esigente al mondo: dai suoi giocatori non vuole solo vedere il talento, ma l’impegno, il gettarsi su qualsiasi palla vagante anche se obiettivamente ormai persa, il non arrendersi mai anche davanti all’evidenza, la difesa arcigna ed asfissiante. Insomma, vuole vedere Uomini con la U maiuscola, non solo giocatori di basket.

E se parliamo di tifosi, come non nominare il più noto, ossia il regista Spike Lee? L’autore di capolavori come “Fa la cosa giusta”, “Malcom X” o “He Got Game” (quest’ultimo il suo atto d’amore verso il basket, a sentire lo stesso Lee) si perde poche partite casalinghe della sua squadra del cuore, arrivando pure a spostare le riprese dei propri film in caso di playoffs. Leggendarie i suoi scontri verbali (“trash talking”) da bordo campo con gli avversari storici come Reggie Miller.

La terza ragione, quella per la quale credo che stiate leggendo queste righe, sono i Knickerbockers (abbreviati per semplicità  in Knicks), la franchigia che milita nella lega professionistica NBA e che gioca le proprie partite casalinghe nell’arena più famosa del mondo, il Madison Square Garden, appunto..

Il termine Knickerbockers nasce addirittura nel 1600, quando i primi coloni olandesi sbarcano nel Nuovo Mondo. Questo si riferisce ai pantaloni indossati dai coloni stessi, cioè pantaloni arrotolati fin sopra al ginocchio. Col tempo, “Knickerbockers” diventa sinonimo di “abitante di New York”, fino al 1946, anno in cui la squadra di basket è fondata con appunto il soprannome di Knickerbockers. Il team fa subito parte, insieme con altri dieci, della BAA (Basketball Association of America), lega che poi lascerà  spazio all’NBA (National Basketball Association) nel 1950.

Nel 1951 i Knicks raggiungono la loro prima finale, perdendola. Ma quell’anno è ricordato anche per il primo giocatore afroamericano ad entrare nell’NBA, che vestiva proprio la casacca dei newyorchesi: Nathaniel “Sweetwater” Clifton.

Gli anni però passano e di trionfi neppure l’ombra. Bisogna, infatti, aspettare l’inizio dei ‘70 affinché la Grande Mela assapori il gusto del successo.
Il primo segnale che il vento sta per cambiare arriva durante la stagione 1967-68. La squadra va male e da ormai 10 anni non ha più un record vincente (cioè ha sempre avuto più sconfitte che vittorie). Quell’anno, l’allenatore Dick McGuire, dopo 15 successi e 22 debacle, è licenziato a favore di William “Red” Holzman. “Red”, da quel momento, porta a casa 28 vittorie su 45 partite e chiude con un record finalmente vincente.

L’anno seguente, ad una squadra che aveva già  Walt Frazier, Bill Bradley, Dick Barnett, Phil Jackson (attuale allenatore dei L.A. Lakers e storico coach dei Chicago Bulls di Michael Jordan) ed il Capitano Willis Reed, viene aggiunto Dave DeBusschere, un altro tassello verso la gloria. Neanche a dirlo, questo team vive sulla propria straordinaria difesa, che concede statisticamente meno punti di tutti agli avversari.

Logica conseguenza di un grande roster, nel 1970 arriva il primo titolo NBA, uno dei più rocamboleschi e leggendari dell’intera storia cestistica a stelle e strisce. New York arriva in finale contro i Lakers di Jerry West e Wilt Chamberlain, il giocatore più dominante di tutti i tempi. Si gioca al meglio delle sette partite.

Con la serie in parità  sul 2-2, si disputa al Garden gara-5. Reed, che gioca in posizione di centro, se la deve vedere proprio con Chamberlain, ma si infortuna dopo pochi minuti, strappandosi un muscolo della gamba. Frazier e compagni portano lo stesso a casa la vittoria, ma la successiva partita a Los Angeles viene facilmente vinta dai Lakers. New York, senza il Capitano, non ha scampo.

E’ l’ora di gara-7. Reed si reca al Garden già  di mattino. I massaggi non leniscono il dolore, nessuno sa se il numero 16 sarà  in campo la sera. Poche ore prima della palla a due, quando tutti i Knickerbockers sono ormai all’impianto, Frazier chiede al Capitano almeno un paio di minuti in campo: a loro basterebbe quello.

Reed si imbottisce di antidolorifici e, mentre le due squadre stanno facendo riscaldamento sul parquet, fa il suo ingesso in campo, praticamente zoppicante. Un fremito percorre le tribune del Garden, il pubblico è in delirio, i Lakers si fermano, smettono di tirare, come impietriti, e guardano la scena, che appare surreale. Fosse stata una gara come tutte le altre, infatti, nessuno sarebbe sceso in campo in quelle condizioni. Ma quella era “The Game”, La Partita. Reed mette i primi due tiri tentati, il Garden diventa una bolgia, i Lakers paiono annichiliti. Reed regala pure un’onesta difesa su Chamberlain per una manciata di minuti, ma il più è fatto.

I compagni, galvanizzati ed in presa ad una vera e propria trance agonistica, spazzano via gli avversari 113-99, con un Frazier monumentale (36 punti, 19 assist e 7 rimbalzi, prestazione definita quasi all’unanimità  come la migliore gara-7 mai disputata da un essere umano).

Anche se meno epico, il titolo arriva pure nel 1973, quando anche Earl “The Pearl” Monroe, sontuoso giocatore di Washington, entra a far parte della famiglia newyorkese.

Purtroppo, dopo quegli anni, inizia un lento declino, che neanche giocatori come Bernard King prima (arrivato nel 1983-84) e Patrick Ewing dopo (scelto al draft nel 1985), o allenatori come Pat Riley (1991-92), riescono ad interrompere. Per carità , New York resta sempre ai vertici, ma manca sempre quel qualcosa in più per approdare ad un altro agognato Anello.

Arrivando ai giorni nostri, i Knicks si sono spesso trovati la strada sbarrata dai Bulls di Jordan ed è proprio nell’anno del suo primo ritiro che New York si ripresenta in finale (1994), uscendo sconfitta per 4-3 contro gli Houston Rockets di Hakeem Olajuwon. E’ la squadra di Ewing, di John Starks, di Charles Oakley, team ovviamente legato alla tradizione bluarancio, cioè composto principalmente da gladiatori che concedono poco o nulla in difesa (non per niente Oakley è soprannominato “The Oak”, la quercia).

Questa tradizione di grandi difensori sembra spezzarsi nella stagione 1998-99, quando i Knicks, guidati in panchina da Jeff Van Gundy, approdano ai playoffs all’ultimo momento e riescono ad arrivare fino alla Finale per il Titolo (persa con San Antonio per 4-1).

Quella squadra, infatti, dopo un brutto infortunio a Ewing, gioca al doppio dei giri, basandosi sulla velocità  dei vari Latrell Sprewell, Allan Houston e Marcus Camby, ma non rinunciando comunque allo spessore in post di Larry Johnson, capace però di colpire anche da fuori (memorabile il suo gioco da quattro punti, canestro da tre più fallo, con cui cambiò l’inerzia della Finale di Conference contro gli Indiana Pacers).

Proprio il sopraccitato Sprewell meriterebbe un capitolo a parte, in quella che potrebbe essere catalogata tra le grandi storie sportive americane. I Knicks lo hanno preso dal marciapiede, quando nessuno credeva più in lui dopo un anno di squalifica per aver tentato di strangolare il suo allenatore ai Golden State Warriors (senza voler giustificare l’accaduto, occorre precisare che molti testimoni oculari della scena affermano che il coach PJ Carlesimo, noto “urlatore”, aveva veramente esagerato, che le provocazioni andavano avanti da tempo ed, infatti, nessuno degli atleti è intervenuto a salvare l’allenatore se non dopo parecchi istanti).

Da nemico pubblico numero uno, lo “strangolatore di Milwaukee” si è trasformato nel leader dei Knicks odierni e neppure l’inettitudine della dirigenza attuale, sempre pronta a provocarlo indiscriminatamente con multe comminate anche per sciocchezze o voci continue di cessione, lo hanno fatto “dare di matto”.

Purtroppo, da quell’ultima finale, è iniziato un altro declino che perdura tutt’oggi.

La stagione 2001-02 è stata la prima senza il raggiungimento dei playoffs da quasi tre lustri. Alcuni l’hanno definita “La maledizione della King-Kong trade”, perché tutto è accaduto all’indomani della cessione dell’uomo-simbolo della franchigia, Ewing, il giocatore che detiene tutti i record della squadra, ma ormai un atleta in declino.

Altri, senza scomodare magia nera e affini, incolpano il General Manager Scott Layden (un altro che meriterebbe un bel capitolo a parte, non certo positivo, però), autore di nefandezze di ogni risma, come acquisizioni di giocatori dai salari troppo onerosi rispetto al talento o rinnovi contrattuali nettamente sovradimensionati (basti pensare ai 100 milioni di dollari in sei anni ad Allan Houston, ottimo giocatore ma non uno di quelli che ti cambiano gli equilibri).

L’ultima stagione ha visto, come detto, i Knicks fuori dai playoffs per il secondo anno consecutivo. Ad essere sinceri, l’estate scorsa si incominciava a sentire il profumo della rivincita, grazie all’acquisizione di Antonio McDyess, ala forte proveniente dai Denver Nuggets ed all-star affermata. Purtroppo, però, “Dyce” si è infortunato ad un ginocchio ancor prima che la stagione prendesse il via e non ha potuto disputare a tutt’oggi una sola gara ufficiale con la casacca newyorkese.

Insomma, qualsiasi speranza è crollata ancor prima di iniziare ed è continuata tra equivoci tattici, giocatori schierati fuori posizione per evidenti carenze di centimetri e chili e le continue voci di trasferimento per il leader Sprewell.

La nuova stagione che inizierà  ad ottobre non promette sfracelli, ma forse neppure troppe lacrime. Molta è l’attesa legata al ritorno di McDyess, se e quando arriverà . Nell’ultimo draft, poi, finalmente Layden ha pescato bene, chiamando sì l’ennesima ala forte sottodimensionata (ma solida e promettente) Mike Sweetney, ma pure gli europei Maciej Lampe e Slavko Vranes.

Soprattutto su Lampe sono molte le attese, perché è alto (sette piedi), giovane (20 anni) e con un buonissimo tiro. Certamente non sarà  la prossima la stagione in cui si pensa che il polacco possa cambiare le sorti della franchigia, ma le speranze che un giorno egli possa guidare i Knickerbockers ai fasti degli anni ’70 sono davvero tante… perché le speranze non costano nulla, mentre gli errori del GM Layden, sì.

Articolo pubblicato anche su www.nyc-site.com

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