Rivedremo questa panchina nella stagione 2003/2004?
Una vecchia canzone recita: la festa è finita gli amici se ne vanno….
E sono davvero pochi gli amici che restano in queste ore al banchetto giallo viola.
La stagione è infatti terminata prima del previsto, il miracolo non si è ripetuto per il quarto anno di fila e i Lakers si sono riscoperti davvero soli a rimuginare su quanto poteva e essere e non è stato.
Chiariamolo subito.
Se i Lakers non hanno vinto anche quest’anno, non è stato per un complotto socio politico. Non è stato per macchinazioni arbitrali o per mala sorte.
Secondo i maggiori esperti di basket made in USA, nonché per una buona fetta del pubblico planetario della NBA (un discreto bacino d’utenza), i Lakers hanno perso perché era giusto così.
Parafrasando un redazionale venutomi agli occhi poche ore fa, i Lakers hanno perso perché anno schierato 2 soli giocatori, perché hanno giocato senza panchina, senza un titolare e con 10 comprimari o senza talento o logori e stanchi.
Una tesi condivisibile?
Certamente.
La squadra di Phil Jackson quest’anno ha voluto superare se stessa. Per un triennio, Kobe, Shaq e compagni hanno vissuto pericolosamente. Hanno sublimato il concetto di gestione delle forze, decisivo in un campionato dotato di una regular season massacrante e di un tabellone di play-off altrettanto, se non più duro.
Hanno deciso (non si sa quanto scientemente) di sposare al 110 % la politica basata sull’assioma che i veri campioni danno il meglio e fanno le cose al meglio nei momenti più importanti e sotto la massima pressione.
E per un triennio le cose hanno funzionato.
Hanno funzionato perché di anno in anno la squadra si è basata sulla crescita di Bryant, che ha dato sempre qualcosa in più, sulla fame e sull’autostima di O’Neal, che resta comunque un giocatore immarcabile e soprattutto sull’apporto non costante ma mirato del resto del coro, quelli che oggi stanno sul banco degli imputati: gli Horry, i Fox, i Fisher, i George.
Perché dunque quest’anno non ha funzionato?
I motivi sono tanti, ma anche in questo caso l’opinione comune sta abbastanza dalla parte giusta. Come sempre nello sport, vincere una volta è più facile che ripetersi, proprio perché la concorrenza non sta a guardare. Quest’anno la concorrenza è stata fortissima.
I Lakers, è bene ricordarlo, non sono usciti con una squadra qualsiasi. Sono stati eliminati in una serie tutto sommato piuttosto equilibrata, dalla squadra che più delle altre li aveva sofferti, ma anche quella che quest’anno ha scelto la linea di più basso profilo.
Gli Spurs quest’anno non sono andati a caccia di rivincite come avevano già fatto e come già avevano fatto con loro i Blazers, i Mavs o i Kings.
La squadra (non a caso) di Tim Duncan ha puntato dritto per la sua strada, non pensando necessariamente al duello con i rivali californiani ma puntando i propri sforzi all’obiettivo più importante, quello finale, peraltro ancora tutto da raggiungere.
Proprio il fattore psicologico in questi anni ha pesato tantissimo sul bilancio fra vinte e perse dei Lakers, come i numeri, più dei numeri. Gli avversari della western nelle passate edizioni dei play-off, fattore campo o meno, si sono sempre dimostrati incapaci di sovrastare i Lakers dal punto di vista mentale, prima che tecnico.
A posteriori è giusto dire che la sconfitta di L.A. è stata certamente favorita anche dal fatto di essere arrivata al secondo turno della post season. Un turno ancora e la fiducia in se stessi degli angelini sarebbe stata ancora una volta enorme.
Questo dal punto di vista psicologico.
Ma dal punto di vista tecnico, la situazione è senz’altro più limpida.
I Lakers erano e si sono dimostrati una squadra inferiore alle rivali per il titolo ad Ovest.
O’Neal quest’anno ha fatto particolarmente fatica ad entrare in forma, Bryant pur nel suo anno statisticamente migliore (alla fine 30 punti a partita, quasi 6 assist e 7 rimbalzi, l’84.3% nei liberi) ha trovato enormi difficoltà nella prima parte dell’anno a portare sulle spalle il peso della squadra da solo.
Questo si spiega certamente con la pochezza dei comprimari.
Un anno in più, a livello NBA può pesare come un macigno e soli 12 mesi di attività in più hanno pesato sulle cifre e l’apporto dei veterani Horry, Fox e Fisher o Shaw.
In più, ed è qui che sta la critica maggiore e la nota dolente, volendo anche scagionare da colpe i quattro comprimari principali, gli imputati immediatamente in subordine non possono essere di certo i vari Madsen, Medvedenko, Rush o (ahimé) Walker, bensì coloro che li hanno messi sulla panchina dello Staples Center.
Nelle ultime tre stagioni le scelte di mercato, prima così lungimiranti (vedi lo scambio di Divac per un giovane liceale) si sono trasformate in una politica bizzarra se la prendiamo in modo benevolo e assolutamente deficitaria se siamo realisti.
Il bilancio 2003 Lakers ha dovuto pagare i dividendi di scelte basate nell’ultimo periodo su veterani mai inseriti (Richmond, Murray, Rice), su giocatori esplosi solo a metà (George, Rider) o su prime scelte ancora tutte da verificare (Rush e Pargo).
In questo la colpa va anche a Phil Jackson, che certamente è un vincente per carattere e per natura, ma che si è fidato troppo a lungo delle sue doti taumaturgiche, dimenticando forse che in campo alla fine ci vanno cinque atleti e che in una serie anche un canestro può significare tantissimo.
Horry quest’anno non ha messo “il suo” canestro in gara 5 e nel quarto decisivo di gara 6 è venuta fuori la pochezza individuale di coloro che avrebbero dovuto aiutare due grandi stelle.
Un bilancio negativo quindi. Certo.
Un bilancio che con un po’ di fortuna avrebbe potuto comunque risultare più positivo? Altrettanto sicuro.
E adesso?
La situazione paradossalmente oggi, libera i Lakers da tanti alibi e giustificazioni. Non raggiungendo l’ennesima finale, i Lakers possono tranquillamente concentrarsi sul futuro e con la garanzia di un altro triennio con Shaq e la presenza di Kobe, smantellare il resto dell’arsenale.
Smantellare. Assolutamente.
Se i Lakers faranno la scelta coraggiosa di cambiare registro, dovranno radicalmente operare sul mercato per rinnovare la congrega, magari con scelte rischiose o mezze scommesse ma non ripetendo quegli errori di sufficienza messi in campo fino ad oggi.
La base è delle migliori, perché quando una stella racconta di volersi chiudere in palestra per tornare a vincere c’è da essere felici (soprattutto se è uno dei quattro giocatori di pallacanestro migliori in senso assoluto del mondo) e se è vero che quello giallo viola era il peggior roster della lega, stelle a parte, non dovrebbe essere difficile migliorarlo.
La sfida a questo punto è soprattutto finanziaria. Vedremo se Jerry Buss saprà coglierla al volo oppure se per i campioni del mondo arriveranno i tempi delle vacche magre.
L’estate sarà lunga e per le analisi di mercato ci sarà tutto il tempo.
Alla prossima…