Goodbye, Michael… Basketball will never be the same…
Michael Jordan ha lasciato il basket. Il basket, però, non lascerà mai Michael Jordan perché MJ è il basket, nella sua accezione più intensa. Michael non lascia e basta; dentro chiunque viva questo sport come qualcosa in più che una palla e un campo, non restano solo immagini e ricordi: restano sensazioni, brividi, emozioni e, perché no, lacrime. Lacrime di chi come me si è commosso davanti allo schermo sentendo i 21.257 del First Union Center gridare “we want mike, we want mike”.
MJ lascia un'eredità che non capita spesso: la consapevolezza. La nostra consapevolezza di aver vissuto nell'era del più grande di tutti. Nell'era di chi lo ha amato e ha sofferto nelle sue imprese e nell'era di chi lo ha odiato e ha tifato contro, arrivando secondo. Nell'era di chi ha visto il basket cambiargli sotto gli occhi. Quella stessa era che ci vede in un certo qual modo sempre più protagonisti anche grazie a lui. Se io sono qui a scrivere, se amo il basket e se tu mi leggi e puoi leggere ogni giorno di basket NBA è anche grazie a lui.
Non poteva andarsene e basta, terminare la stagione con una sconfitta di venti dai Sixers e lasciarsi dietro una striscia di commenti e addii che si sarebbero confusi nel marasma delle opinioni da playoff. No, l'ha fatto con ultimo omaggio: un piccolo regalo che sa di minuto di silenzio ed in effetti così è stato. La grande danza per l'anello è iniziata anche quest'anno ma per un attimo tutto il mondo si è fermato, si è voltato indietro e per l'ultima volta si è concentrato su Michael, fondendo l'uomo con il giocatore in una lettera d'addio scritta per il mondo.
Michael ha voluto citare tutti, in un modo o nell'altro, prendere dentro buoni e cattivi. Ha voluto ricordare squadre in cui è stato e squadre affrontate. Ha voluto buttare un occhio su chi cestisticamente l'ha forgiato, l'ha fatto crescere, maturare e diventare un uomo e su chi l'ha rifiutato (coach Herring, quanti anni è che le fischiano le orecchie?). Non ha volutamente citare tutto ciò che è personale, tutto ciò che è proprietà privata di Michael: padre, madre, moglie e figli su tutti.
Michael ringrazia il basket come si ringrazia una persona che non c'è più, con cui si avrà a che fare in modo diverso. Ma chissà se ha mai pensato a quanti di noi scriverebbero a lui, raccontandogli che giocano a basket perché lo hanno visto, lo hanno ammirato fare cose inimitabili, vincere titoli su titoli, trofei, premi e medaglie olimpiche.
Chissà se ha mai pensato a quanti cuori ha baciato con il suo gioco e quanti ne ha infranti. Barkley, Malone, Ewing, Drexler: in comune hanno una carta di identità che ha coinciso con quella del più grande. E la lista dei trofei s'è dimezzata e quella degli anelli azzerata. C'è spazio anche per loro, nella sua lettera. C'è spazio anche per quei giornalisti che hanno provato ad ammazzarlo mille volte, quei giornalisti che hanno dovuto cedere alla forza mentale dell'uomo MJ: lo stesso uomo che nell'addio li ha ricordati tra i fautori della sua grandezza.
Per tutto ciò che lui ringrazia, noi dovremmo ringraziare lui. Per quanto tempo dovremmo sentire paragoni con il suo gioco, con la sua onnipotenza? Ogni MVP di un'epoca è sempre stato sostituito nell'immaginario da uno molto diverso dal precedente e, su questo non ci piove, nessun altro sarà come lui.
Michael ci lascia con una lettera che sembra quella di un uomo solo. Un uomo che al basket ha dato tanto e forse troppo. Una lettera che è la sua vita in sintesi e che sembra l'estremo tentativo di ancorarsi ad un destino che lo vede necessariamente fuori da questo mondo giocato. Un uomo che ora deve affrontare la sfida di farcela senza. E di ricucire quegli strappi che la vita da giocatore NBA inevitabilmente ti porta. Specie a 40 anni.
Personalmente, ho sempre venerato di più quei miti che lasciano quando sono al top e non li rivedi più. Anch'io, come tanti, ho storto il naso al suo ritorno, ma avevo perso di vista il vero significato: non è un fatto di confronti con il passato, con la fonte della giovinezza, no. E' la sfida che abbiamo noi quando andiamo al campetto anche se siamo stanchi, è battere se stessi, le idee e i pensieri di chi ti scredita, è perdere contro la passione più forte di ogni cosa. Contestualizzando, Michael Jordan ancora una volta è stato il più grande: l'unico quarantenne a segnare 40 punti in una partita, l'unico quarantenne a segnare 20 punti a partita. L'unico e basta"
Ho chiesto personalmente a Flavio Tranquillo che cosa pensasse di MJ lui, che tante e tante volte ha avuto l'onore e contemporaneo onere di commentarlo, di vederlo dal vivo, di essere partecipe delle sue imprese: “Il più grande giocatore di tutti i tempi – mi ha risposto Flavio- da non far diventare Dio (checchè ne dica Larry Bird"). Il più trasversale atleta di sempre, un'icona della globalizzazione. Uno capace di emozionare, sempre. Una testa mostruosa per il nostro gioco. Senza esagerare, tanta roba”.
Stop con le parole, con i commenti, con le sensazioni. Via con le sue parole: come un tatuaggio sulla pelle, le avremo su di noi per sempre.
Mi inchino, faccio un passo indietro dopo averti presentato, inizio ad applaudire con leggerezza mentre con lo sguardo lo guardo salire sul palco e avvicinarsi al microfono; la scena, ancora una volta, è tutta sua. La gente, ancora una volta, è qui solo per lui. La sua carriera se n'è andata ed è ora di mettere la firma in fondo al foglio.
“Caro basket,
Sono passati 28 anni dalla prima volta che siamo incontrati. 28 anni da quando ti ho visto dietro il garage. 28 anni, da quando i miei genitori ci presentarono.
Se qualcuno mi avesse detto sarebbe stato di noi, non sono sicuro che gli avrei creduto. A malapena sapevo il tuo nome.
Poi ho iniziato a vederti in quartiere e a guardarti in TV. Ti guardavo giù al campetto, coi ragazzi. Ma quando mio fratello maggiore ha iniziato a dedicarti maggiori attenzioni, ho cominciato a fantasticare. Probabilmente allora eri diverso.
Ci siamo affrontati un po' di volte. Più ti conoscevo e più mi piacevi. E proseguendo nella mia vita, quando finalmente sono stato interessato a te, quando sono stato finalmente pronto per fare sul serio, mi hai lasciato fuori dalla squadra d'istituto. Mi hai detto che non ero bravo abbastanza.
Ero distrutto. Ferito. Credo anche di aver pianto.
Da lì, ti ho voluto più che mai. E allora mi sono allenato. Mi sono dato da fare. Ho lavorato sul mio gioco. Passando. Dribblando. Tirando. Pensando. Correvo. Facevo addominali. Facevo piegamenti. Facevo flessioni. Sollevavo pesi. Ti studiavo. Iniziavo ad innamorarmi e l'hai notato. O almeno, era quello che diceva coach Smith.
In quel momento, non sapevo esattamente ciò che stava capitando. Ma ora lo so. Coach Smith mi stava insegnando come amarti, come ascoltarti, come capirti, come rispettarti e come apprezzarti. E poi è successo. Quella notte, al Louisiana Superdome, nei secondi finali della partita per il titolo contro Georgetown, mi hai pescato nell'angolo e abbiamo iniziato a ballare.
Da allora, sei diventato molto più che una palla per me. Se diventato molto più di un campo. Molto di più che un canestro. Molto di più che un paio di scarpe da ginnastica. Più di un gioco.
In un certo modo, sei diventato la mia vita. La mia passione. La mia motivazione. La mia ispirazione. Sei il mio più grande fan e il mio critico più crudele. Il mio più caro amico e l'alleato più forte. Sei il mio insegnante più esigente e lo studente più interessante. Sei il mio compagno di squadra più fidato e l'avversario più duro. Sei il mio passaporto per il mondo e il visto per i cuori di milioni.
Tanto è cambiato dalla prima volta che ci siamo visti e tanto da dirti grazie. Perciò, se non mi hai sentito farlo prima, lascia che lo faccia adesso davanti al mondo intero. Grazie. Grazie, Basket. Grazie di tutto.
Grazie per tutti i giocatori venuti prima di me. Grazie per tutti i giocatori che se la sono vista con me. Grazie per i campionati e per gli anelli. Grazie per gli All Star Game e per i Playoff. Grazie per gli ultimi tiri e per quelli sulla sirena, per i falli terminali, per le vittorie e per le sconfitte. Grazie per avermi fatto guadagnare da vivere. Grazie per il numero 23. Grazie per North Carolina e Chicago. Grazie per l”Air” e per il soprannome. Grazie per i movimenti e l'hang time. Grazie per la gara delle schiacciate. Grazie per la volontà e per la determinazione, il cuore e l'anima, l'orgoglio e il coraggio. Grazie per lo spirito competitivo e per la competizione per sfidarlo. Grazie per i fallimenti e gli ostacoli, le preghiere e gli applausi. Grazie per l'attacco triangolo. Grazie per il baseball e per i Barons. Grazie per avermi perdonato. Grazie per gli assistant coach, gli allenatori, i fisioterapisti. Grazie per gli speaker, gli arbitri, i giornalisti, i reporter, i commentatori televisivi e le stazioni radio. Grazie per i Pistons e i Lakers, i Cavs e i Knicks, i Sixers e i Celtics. Grazie per Phoenix, Portland, Seattle e Utah. Grazie ai Wizards. Grazie per chi ci credeva e per gli scettici. Grazie per coach Smith, coach Loughery, coach Albeck, coach Collins e coach Jackson. Grazie per l'educazione e per l'esperienza. Grazie per avermi insegnato com'è il gioco dietro, sotto, dentro, sopra e intorno" il vero gioco. Grazie per tutti i fan che hanno fatto il mio nome, applaudito per me e per i miei compagni, datomi un cinque o una pacca sulla spalla. Grazie per tutto ciò che hai dato alla mia famiglia. Grazie per la luna e le stelle e, ultimo ma non per ultimo, grazie per Bugs Bunny e Marte.
So di non essere l'unico ad amarti. So che ne hai amati tanti prima di me e che ne amerai altrettanti dopo di me. Ma so anche che quello che è stato tra noi è stato unico. Speciale. Così, mentre la nostra relazione cambia ancora una volta, come accade a tutte le relazioni, una cosa è certa.
Ti amo, Basket. Amo tutto di te e lo farò per sempre. I miei giorni di NBA sono definitivamente conclusi ma il nostro rapporto non finirà mai.”
Tanto amore e rispetto,
Michael Jordan