La pietra angolare degli Heat

Caron alla schiacciata…pezzo sempre “forte” del suo fornitissimo arsenale

Spesso quando si parla di un rookie si rischia di essere precipitosi nel bene e nel male; magari i numeri ci sono, le giocate sono abbaglianti, ma in fondo il rendimento risulta spesso altalenante e grandi partite si alternano a prove opache in cui la giovane età  e l'inesperienza valgono a volte da alibi.

Così, alla fine della stagione, si tende a tracciare un bilancio pieno di se e di ma e comunque bisognoso di ulteriori conferme e riscontri.

La mia non è una critica, ma una semplice constatazione (dettata anche dal fatto che di rookie me ne sono occupato per tutto l'anno) che però mi serve, in questo caso, non tanto come base di partenza, ma piuttosto come regola, di cui affrontare la più "classica eccezione".

Solo così, infatti, si può leggere l'annata di Caron Butler…un'eccezione in piena regola nel pianeta degli esordienti delle Lega. L'ala degli Heat sta giocando una stagione di grande spessore in cui la parola d'ordine è continuità .

Il ragazzo gioca un'ottima pallacanestro, con grandi numeri e giocate spettacolari senza però grossi scossoni o cadute, il tutto condito da una crescita qualitativa esponenziale che ha visto l'ex UConn migliorarsi gradualmente, ed in maniera inesorabile per tutti i primi mesi della sua avventura NBA.

Detta in parole povere: costanza, una dote che unita alla grande voglia di apprendere (più volte lodata da coach Riley, mai tenero coi rookie) ed al desiderio di eccellere, ha permesso a Butler di segnalarsi come una delle poche note liete nella stagione di Miami.

Questa grande calma, concentrazione, voglia di impegnarsi, emergere, va ricercata nella vita tribolata del ragazzo che nato nell'ottanta a Racine (città  "nera" nel "bianco" Wisconsin) a soli 23 anni può dire di aver già  visto molto del marciume di questo mondo.

Cresciuto senza padre, mamma sempre al lavoro per mantenerlo (classico), il giovane Caron si è perso sulla strada ed a soli 14 anni finì in galera a causa della droga e delle cattive amicizie. Fu in galera che il ragazzo capì che doveva cambiare registro e da lì partì la sua nuova vita e si rimboccò le maniche (aveva anche da mantenere una figlia…) per recuperare il tempo perduto.

In tutto ciò la pallacanestro fu sempre ottima alleata, gioco prediletto, spesso diversivo, infine "grimaldello" per aprire una nuova porta che conduceva al college. Caoch Calhoun gli diede fiducia, attenzione, rispetto e gli insegnò tanto di quello che ora mette in mostra tutte le sere. Così dopo due annate coi fiocchi con gli Huskies decise di lasciare Connecticut per tentare l'avventura nella NBA.

I giudizi sul ragazzo erano unanimi: il talento c'era, però andava verificato il comportamento e l'indole, perché alla fine nessuno si ricorda mai dei meriti, ma gli sbagli restano scolpiti nella roccia! Durante i provini pre-draft il ragazzo giocò magnificamente, ma alla fine le voci (peraltro smentite dai fatti) di un suo "non totale" distacco dalla droga (mariuana) pesarono come un macigno.

A Miami furono ben lieti di averlo con la scelta numero dieci ed anche Caron si dimostrò subito felice della destinazione <Pat Riey è un grandissimo allenatore, potrò imparare tanto da lui e dai miei compagni>.

Già  dal training camp gli Heat capirono di aver fatto un' ottimo affare, il ragazzo era un'ala piccola coi fiocchi: buonissimo tiro, fondamentali educati, ottima esplosività  nelle gambe, due mani forti a rimbalzo e nelle schiacciate e tanta voglia di migliorare. Ed è stata proprio questa la chiave di volta: i miglioramenti.

Butler ha affinato durante questi mesi quanto di buono già  sapeva fare unendo al proprio bagaglio tecnico tante altre cose. E' migliorato nel trattamento della palla (tanto da poter pensare di giocare anche guardia diversi minuti), ha alzato la propria intensità  difensiva, ha aumentato la capacità  di leggere la manovra e le sue evoluzioni senza perdere le peculiarità  del proprio gioco.

Fuori dal campo è divento il beniamino dei "senatori" della squadra, il nuovo uomo immagine della franchigia e forse la pietra angolare su cui rifondare i progetto Miami. Lui ci scherza sopra, ma a parlare sono i numeri: 15.4 punti (primo tra i rookie) , 5.1 rimbalzi e 2.6 assist in 35 minuti di impiego sul campo.

Certo, a favorire le buonissime cifre c'è stato il lungo impiego sul parquet, i tanti infortuni e la scarsa pressione in un team fuori dai giochi play-off da subito, ma basta vederlo giocare per rendersi conto delle doti e della maturità  del ragazzo.

Raramente ha giocato una gara "a vuoto", è sempre stato intenso e partecipe, ha avuto grossa continuità  al tiro e nelle realizzazioni segnalandosi per la crescita in varie fasi del gioco e per la maturità  in campo e fuori.

Se tutto ciò non bastasse metteteci pure l'impegno nel sociale (già  idolo della gente), la vita privata irreprensibile e la serietà  mostrata nelle svariate occasioni (tipo ASG in cui è stato uno dei pochi a non calarsi nel "circo"…).

Alla fine del tutto rimane una buonissima ala, uno che si pone nella scia degli altri grandi esterni usciti dal campus di Storr (da Scottie Burrell, Ray Allen, Richard Hamilton su fino al futuro prospetto Ben Gordon), un atleta quattro volte premiato quale esordiente del mese e degno candidato al titolo di "Rookie of the Year".

Magari quest' ultimo non lo vincerà , forse faranno più presa gli exploit dei vari Ming o Stoudemire (grandissimi, ma comunque non "regolari" come lui), ma la sua stagione sarà  stata sempre super e rappresenterà  un degno trampolino di lancio per una carriera che si preannuncia elettrizzante.

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