Duretta la stagione per i Nuggets…
Nella mediatica NBA del terzo millennio, ci sono squadre che mi fanno saltare sulla poltrona di casa, squadre che mi tengono con il fiato sospeso per i loro alti e bassi stagionali, altre onnipotenti, divertenti, mediocri e, infine, squadre che mi fanno letteralmente incazzare. Una a caso? I Denver Nuggets.
I Nuggets della stagione 2002-2003 sono una delle più grandi contraddizioni sportive della storia del gioco – e non solo – e vanno la pena di essere sviscerati come si deve, perché non si tratta della solita squadra scarsa punto e basta, come i risultati darebbero invece a vedere, sono molto di più (e anche molto di meno!).
Tanto per cominciare, a dispetto di un 16-57 da stato catatonico, Denver in campo non fa affatto schifo: grande mentalità difensiva, ammirevole volontà , tenacia e voglia di vincere. Nome e cognome sotto la voce “atteggiamento”? Coach Bzdelik, naturalmente.
Guaio telecronistico numero 3 dopo Szczerbiak e coach K, il coach non è affatto male in quanto a mentalità tattica (considerando chi ha a disposizione, lo definirei quasi un fenomeno), visto che ridendo e sherzando, Denver è quinta (!!!) nei punti subiti a partita con 91,7 di media.
Il vero ed unico grande problema, nasce sostanzialmente da un innato bisogno di “ricostruzione” che, come l'influenza invernale, colpisce il Colorado ogni sacrosanto anno, vanificando di fatto ogni buon cosa che, mattone dopo mattone era stata costruita a fatica, a partire dalle fondamenta.
Ricostruire è spesso un metodo ottimo, se chi lo fa è supportato dalla dirigenza e, soprattutto, ha le idee molto chiare su dove vuole arrivare (assioma di Don Nelson ai Mavs: via tutte le “J” si guadagnano tante “W”").
Continuiamo con i nomi, dai: Antonio McDyess, James Posey, Raef LaFrentz, Nick Van Exel, Voshon Lenard, Chauncey Billups, Ron Mercer, Danny Fortson e, tanto per finire in bellezza, Bobby Jackson e Keon Clark. Qualcuno sicuramente me lo sarò anche dimenticato, ma credo che il concetto sia abbastanza chiaro: questi nel corso degli ultimi tre anni erano dei Nuggets; mettili tutti insieme e forse forse ai playoff non passi il primo turno nell'Ovest di oggi, ma di sicuro fai paura a tanti.
Non solo: ai draft degli ultimi anni, che non hanno quasi mai visto i nostri salire ai vertici delle cronache benchè in possesso di una folta gamma di palline colorate, sanno anche scegliere qua e là ! Brent Barry con il numero 15 nel '95 e Jalen Rose nel '94 sono un paio di esempi di “lunga vista”.
Certo è che se il sinonimo di “Management sportivo” in Colorado è “Smantellamento dei roster di inizio stagione” siamo messi bene: vedo più facile Bin Laden fare lo spot alla Coca Cola, piuttosto che i Nuggets ai playoff"
In questa corsa al LeBron che è la NBA delle retrovie di oggi, i Nuggets hanno avversari agguerriti come i Cavs – palesemente orientati ad una figura ridicola come nessuno mai – ma stanno provando al mondo di mettercela tutta e di essere orgogliosi dei propri demeriti e dei propri limiti. Il fatto vero che impedisce ai Nuggets di decollare non va davvero ricercato nello scarso impegno, ma nella palese, enorme, inappellabile mediocrità di un collettivo inadeguato all'NBA di oggidì.
Considera che il play è Shammond Williams (che non è un play) e la riserva è Chris Whitney. Considera che il centro (quando c'è) è Marcus Camby (che se non si fosse ancora capito, non è un centro). Metti che la guardia la fanno alternativamente Lorinza Harrington, Predrag Savovic e Vincent Yarbrough (17 punti di media in tre) e che gli unici tre giocatori validi sono tutti e tre ali forti e va da se che, shakerando il tutto, ottieni 83,8 punti a partita (decisamente ultimi) e un 41,4 per cento di realizzazioni dal campo, con picchi di 36,6% con Shammond e 29,4% dell'ex trevigiano Skita.
Considerando tutti questi anelli danteschi, è comunque pazzescamente encomiabile quanto sia bello vedere giocare i Nuggets, con l'unico insignificante neo di vederli sempre dietro a fine gara.
“When I was a young guy, I was dreaming America,
now that I'm a man, I can drink it every day.
Coca Cola: there's a bit of USA in everyone”
O. B. L.