La guerra degli sponsor

Uno dei giocatori più contesi dalle grandi marche è il mitico Lebron James

La crisi economica che ormai da qualche anno sta attanagliando il mercato mondiale e quello americano, ha portato in alcuni casi, ad un netto ridimensionamento delle spese e dei budget pubblicitari degli eventi sportivi e di conseguenza dei contratti pubblicitari dei singoli atleti.
In Europa basti pensare alle politiche restrittive che campionati come quello inglese, tedesco e anche italiano (grazie soprattutto alle spalmature del debito".) hanno dovuto attuare.

Dall'altra parte dell'oceano, molti problemi sono evitati dalla particolare situazione dello sport professionale.

Da anni ormai, lo sport americano si è dato un'organizzazione super professionistica, con le associazioni giocatori impegnate all'inizio di ogni stagione nella contrattazione delle regole con le quali gestire il mercato e la finanza dello sport in genere.

Sicuramente, questo ha portato benefici e assetti assolutamente lontani dalla nostra mentalità , una mentalità  che tuttora vede le società  sportive inquadrate come veri e propri oggetti misteriosi del panorama giuridico societario.

Al di là  della situazione generale comunque, il dato che appare davvero singolare in un mercato commerciale come quello a stelle e strisce è la tendenza dei contratti pubblicitari dei campioni. Il mercato delle sponsorizzazioni infatti non sembra conoscere limiti allo sfruttamento dell'immagine dei beniamini dello sport USA e soprattutto non sembra conoscere crisi.

Proprio questa settimana, scadrà  il limite temporale per concludere nuovi scambi nelle squadre NBA. Certo le questioni tecniche saranno al primo posto nelle menti degli allenatori, ma per quanto riguarda le testone dei General Manager, le idee saranno ben focalizzate anche sulla possibilità  di far arrivare nel proprio spogliatoio dei giocatori che garantiscano quello che comunemente oggi viene chiamato “adeguato sfruttamento dell'immagine”.

Vogliamo fare degli esempi? Ce ne sono davvero tanti, quante sono le franchigie della NBA e probabilmente pure di più. Iniziare da Gary Payton è d'obbligo.

La futura collocazione di un uomo come “the Glove” potrebbe anche non dipendere dal suo valore in punti e palle rubate. Non ci sarebbe nulla di strano se Payton trovasse un accordo con una squadra fra quelle il cui mercato di merchandising non sia nella lista delle più vendibili. Il carisma del prodotto di Oakland potrebbe portare un ventata di dollari nelle casse di sponsor e società , oltre che nelle proprie.

Esempio opposto. Da un veterano a un nemmeno rookie.
Il solito, onnipresente LeBron James. Al di là  dei meriti tecnici, la nemmeno troppo smentita corsa a gambero da parte dei Cleveland Cavs (sopra tutti) alla pallina magica indicante il numero 1 nel draft si può spiegare anche con un chiaro deficit di competitività  della squadra in termini di vendite sul mercato dei regalia.

James però è un home-boy, un ragazzo di casa. Un eroe dell'Ohio che potrebbe fare la fortuna guarda caso proprio della squadra dell'Ohio. Un arrivo in maglia Cavs di questo giocatore potrebbe senz'altro significare, al di là  del suo reale rendimento, un surplus di fotografie, poster presenza nei telegiornali specializzati del logo della franchigia con conseguente felicità  di sponsor assortiti, per primi quelli che già  oggi fanno la fila per prenotarsi non appena l'eleggibilità  allo stato di pro del liceale sarà  cosa fatta.

La lista dei richiesti per motivi non propriamente tecnici potrebbe allungarsi. I vari Vince Carter, Grant Hill, Jason Williams, Allen Iverson sono per motivi diversi e storie diametralmente diverse, esempi di giocatori che al di là  degli sconfinati motivi tecnici possono essere appetiti dalle loro squadre o essere l'oggetto del desiderio delle altre 26 anche in condizioni precarie di forma per l'enorme peso della loro fama e del loro richiamo pubblicitario.

I primi due in particolare, sono l'esempio di giocatori che negli ultimi mesi hanno giocato si e no il 10% delle partite giocabili. Eppure a tutt'oggi il primo vende ancora più poster e fa vendere più scarpe del cugino, reputato da tutti uno dei tre candidati più papabili al titolo di MVP.

Il cugino sapete tutti chi è"la sigla T-Mac oggi è arcinota, ma fino a qualche anno fa, due per la precisione, il compagno di squadra dell'altro grande malato della lega, con quella faccia da sveglio per sbaglio era bersagliato dagli avvocati e dai procuratori per l'assoluta incapacità  di far vendere qualsiasi prodotto.

Ma al di là  dei casi singoli, ci si chiede il perché di tanto successo. Come mai in un momento di riconosciuta crisi, gli atleti della NBA riescono ancora a far muovere dei capitali considerevoli solo con le loro facce, le loro evoluzioni, i loro gesti?

La risposta è molto probabilmente da ricercare in una doppia situazione politica e sociale.

Primo, la lega in questi anni, fra tanti errori ha però gestito con buona mano e la lungimiranza che solo MR. Stern poteva dimostrare, la crescita e l'espansione della popolarità  del gioco. Partendo dall'età  dell'oro, gli anni 80, alla crisi tecnica degli anni 90 salvata dall'immenso carisma di MJ fino al nuovo millennio, la NBA ha sempre saputo espandere il proprio bacino d'utenza e oggi questo bacino si può tranquillamente chiamare mondo.

L'apertura ai giocatori stranieri è stata vissuta come una vera apertura alle nazioni dalle quali provenivano e questa, in un paese palesemente protezionista come gli Stati Uniti è stata una politica di rara saggezza.

Secondo, bisogna pensare molto chiaramente alle caratteristiche dei consumatori americani, ancora oggi il primo bersaglio dei pubblicitari, per capire certe scelte della dirigenza della Nike, Reebok, Adidas e chi più ne ha più ne metta.

L'America è un paese dove le mode e le culture vanno veloci come treni. Proprio in questi mesi, i giornali statunitensi hanno evidenziato come la scelta di messaggi pubblicitari legati al sesso (ahimè) funzionino meno. Il giovane pubblico americano è però sempre legato alle espressioni dello sport, soprattutto se rispecchia la propria identità .

E allora ecco gli Iverson, tutto rap e tatuaggi e come lui decine di altri giovani atleti che spesso si confondono con altri idoli di altri settori. Ecco gli Wallace, i Martin, gli Stoudemire. Se si può trovare un difetto all'ultima generazione di campioni è proprio quello di essere un po' troppo uguali a se stessi. Tutti arrabbiati e cool.

Ecco quindi il successo delle alternative Jason Williams (bianco che fa cose da neri), Kobe (europeo e signorile per formazione e indole), Allen o Duncan (per le facce da bravi ragazzi), Yao Ming (cinese). Se con questo vogliamo dire che l'America è razzista e che i suoi pubblicitari sanno sfruttare questo fatto per vendere" è verissimo!

Concludere con una nota lieta a questo punto è d'obbligo.
Personalmente ciò che mi lega ad una pubblicità  è il fascino dell'immagine del protagonista e la qualità  della realizzazione. Ecco quindi la TOP THREE delle pubblicità  sportive secondo il mio personalissimo cartellino (perdono dottor Rino).

3. Convers 1982 Negli anni nei quali la marca Convers dominava il mercato, la pubblicità  dove Magic e Bird litigavano nello spogliatoio dell'All Star Game e venivano interrotti dalla dichiarazione di superiorità  di Doctor J con scarpa numero 49 in mano, resta un momento pionieristico nella storia del merchandising" da lacrime tutt'ora.

2. Reebok 1988 La pubblicità  vedeva un giovanissimo Shaq bussare ad una porta custodita da quattro signori del nome di: Chamberlin, Russel, Walton e Jabbar e poi davanti a loro schiacciare strappando il ferro dal tabellone di una palestra. Era l'ultimo dei quattro a fornirgli subito dopo paletta e scopa al motto di “Non è ancora abbastanza”" profetico.

1. Gatorade 1992 Indiscusso numero 1 è di certo lo short dal gingle “Like Mike"” chiaro riferimento al connubio Jordan / Gatorade con tanto di vertiginoso assemblaggio di immagini stile videoclip concluso sull'impietoso salto di gioia a spese di Craig Ehlo nella finale di conference fra Cavs e Bulls con tiro decisivo del 23" personalmente la bevanda mi fa tuttora schifo, ma quel gingle e quel salto me li sogno ancora di notte.

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