LeBron James in azione: è dal suo innato talento che la polemica sui liceali sta crescendo
Sembra essere divenuta di grande attualità nelle ultime settimane, la possibilità di nuovi ingressi nella NBA di giovanissimi, intesi come liceali.
In particolare il nome sulla bocca di un po’ tutti è quello di LeBron James, predestinato futuro campione e trascinatore della lega verso il futuro nel suo secondo millennio di vita. Naturalmente il compito secondario del giovane LeBron sarebbe anche quello di trascinare un nucleo di persone un po’ più ristretto, come per esempio il suo nucleo familiare, verso un agiatezza diversa da quella della quale gode attualmente.
Le cifre non sono poi così importanti, venti piuttosto che trenta milioni di dollari non fanno in questo caso un margine importante e nemmeno i dati statistici sul futuro wonder boy sembrano risultare di primo piano. Nessuno può negare realmente che molto probabilmente questo giovanissimo cestista abbia le doti e la testa per far parlare di se fra i professionisti sin dai primi mesi.
La domanda che pochi si pongono è però un’altra: è giusto?
Passare per moralisti è sempre una brutta sensazione, ma sembra forse che si debba ancora riflettere sull’altro lato della medaglia di questa situazione.
La NBA è la lega più importante del mondo, nessun dubbio ne incertezza. In gergo pugilistico si potrebbe dire che confrontandola con le leghe degli altri sport di tutto il mondo, potrebbe risultare tranquillamente la migliore pound for pound.
Nessun fattore destabilizzante è riuscito a scalfire questa planetaria convinzione, né lo sciopero che invece tanto male aveva fatto al baseball; né la sconfitta ai mondiali di Indianapolis e nemmeno una crisi economica che bene o male ha interessato lo sport a tutti i suoi livelli.
Conti alla mano la NBA è usa trovare sempre una nuova soluzione per restare ai vertici. Ma la china che alcune decisioni “politiche” le stanno facendo prendere è secondo alcuni, abbastanza pericolosa. L’entrata tra i pro di linfa nuova ogni 12 mesi grazie alla geniale invenzione del draft, è il motivo per il quale il suo fascino si rinnova continuamente.
Il draft assicura nuove stelle a squadre che in altri ambienti non si potrebbero distribuire in modo uniforme e al contempo esalta un sistema, come quello universitario americano, unico per filosofia e gestione e che risulta profondamente radicato nella cultura a stelle e strisce.
Non sono rari i casi di giocatori o tifosi che si ritrovano provenienti da situazioni socio politiche diversissime (ed in America essere nato da un lato o un altro di un fiume è ancora un fatto decisivo per il destino futuro di una persona) ma accomunate dall’appartenenza ai colori di un college, piccolo o grande, prestigioso o meno, vincente o meno.
Dare l’impressione di poter saltare in toto questo passaggio potrebbe creare disagi rilevanti, senza contare l’abbattimento dei valori tecnici complessivi dei roster. Naturalmente nessuno mette in discussione la capacità dei LeBron James (da dimostrare), dei Bryant e dei Garnett di sapere giocare a basket come “i grandi”, ciò che è più discutile è il fatto che fino a prova contraria si tratta di casi isolati.
Prendiamo i casi più eclatanti: Bryant non può essere definito il liceale medio americano. Si tratta di una persona cresciuta in un ambiente completamente differente, tanto è vero che raramente i giovani tifosi d’America guardano a lui come modello d’identificazione.
Kobe è piuttosto un veicolo per un target più maturo. Parla più lingue, ha un’educazione che esula gli aspetti mentali del giovane afroamericano, la stessa meccanica di molti gesti tecnici è molto europea e dal lato fisico guarda caso ha dovuto compiere il medesimo lavoro di rafforzamento dei giocatori europei alle prime esperienze NBA.
Discorso Garnett. Altra obiezione. Kevin Garnett non può essere considerato il frutto di una qualunque scuola. Garnett è lui e basta. E’ il classico caso più unico che raro, ma che guarda caso ha dovuto subire almeno tre anni di maturazione con la M maiuscola prima di cominciare a pensare di poter guidare i suoi compagni da capitano vero.
Per il resto, le statistiche attuali ci parlano di una NBA nella quale le vere novità sono giocatori arrivati quasi sotto silenzio nelle attuali squadre tramite scambi e poi esplosi grazie ad ambienti particolari e a duro lavoro preceduto da dura gavetta: Ricky Davis, Ben Wallace, Mike Bibby, Steve Nash.
Un discorso molto simile si può fare per i campioni extra USA arrivati in terra d’America e oggi ai vertici. Si tratta in tutti i casi non certo di giovinetti che sono emigrati per seguire un glorioso destino, piuttosto di atleti forse non ancora fisicamente maturi, ma mentalmente e tecnicamente incanalati dal lavoro di ottimi allenatori.
Nomi? Esempi? Prendiamo una terna. Yao Ming, Nowitsky, Gasol.
Il primo è oggi l’attuale stella nascente della western nel ruolo di centro. Ottimo. Ma prima di approdare nella NBA, questo giocatore già gestiva il peso della popolarità in Cina. Capitano della nazionale, miglior giocatore della lega, eroe dello stato.
Meno facile la vita di Nowitsky, un giovane della seconda squadra del Wolfsburg, ma già provato da squadre di livello in mezza Europa e con una testa particolarmente adatta al lavoro intenso in palestra.
Per Gasol poi nemmeno da parlarne. Chiunque provenga dal vivaio di realtà come Barcellona (per l’appunto) o Real Madrid, sa cosa vuol dire dover gestire tensioni e grandi sfide. Secondo i testimoni iberici nessuno è un maggior sostenitore delle doti di Pau Gasol quanto lo sia Pau Gasol stesso, eppure il lungo di Memphis sembra stia patendo un po’ la sindrome della prova del nove in questa sua seconda stagione fra i fenomeni.
La lista potrebbe proseguire con i nomi della ex Yugoslavia, tutti campioni consacrati e di età più o meno matura, ma è utile fermarsi qui proprio perché si arrivati al punto più importante. Se il talento non si misura con l’età anagrafica, molto probabilmente la capacità di gestirlo e la tecnica per farlo sì.
Fino all’inizio degli anni ’90, la tendenza nella mentalità di preparatori fisici e allenatori era quella di considerare giocatori fra i 28 e 30 anni al massimo delle proprie possibilità e avviati verso la fine della carriera, dopo un inizio sempre più precoce.
Oggi, esempi sempre più numerosi e dati medici hanno dimostrato che questi limiti sono ampiamente superabili e che un ritardo nell’ingresso dei pro potrebbe non avere gravi conseguenze sulla durata delle carriere.
Pensiamo a cosa avrebbero potuto fare giocatori come Miles, Maggette, Richardson, Brown, Curry, Chandler e lista potrebbe proseguire, se si fossero fermati ancora un anno o due al college. Giocatori che sono tutt’ora un mistero e diciamolo, per molti delle mezze delusioni, avrebbero potuto prendersi il tempo per maturare e diventare quei campioni che forse non saranno mai.
Certo guadagnano bene già oggi, ma se è vero che i campioni quando sono in campo non pensano al denaro ma a vincere la domanda è: meglio 500.000 dollari subito e un contratto da 70 milioni in cinque anni poi o venti milioni di dollari in dieci anni subito?
Antoine Rigaudeau ha deciso di accettare la NBA a trent’anni. Forse ha già perso il treno delle grosse cifre ma sicuramente avrà meno difficoltà dei sopraddetti a integrarsi nel gioco, anche solo dal lato tecnico.
Purtroppo la speranza di avere solo giocatori laureati (o con 4 anni di college alle spalle che è ben diverso) fra i pro è una pia speranza, ma io credo che anche in annate di talento non straordinario, i draft sarebbero sicuramente più interessanti se i giocatori eleggibili potessero avere avuto tutti la possibilità di lavorare e crescere sotto l’ala di gente come Pitino, Olson, Smith o anche Messina o D’Antoni.
In fondo 22 anni non mi sembrano una soglia terribile e non pare che le soddisfazioni al livello college manchino poi del tutto a gente dipinta come super atleti alla ricerca esclusivamente di denaro ed emozioni al top dei livelli.
Amare Stoudemire è un grande ragazzo e un grande atleta. A lui come a Iverson molto probabilmente il basket ha salvato la vita, ma non è su questi esempi che si dovrà lavorare per costruire la maggior parte degli atleti impegnati nella lega del futuro.
Un’ultima annotazione. Se l’università non è importante e contano solo i soldi dei pro, perché tanti ottimi giocatori sembrano essere diventati campioni dopo avere provato nella NBA una guida matura per almeno due stagioni?
Iverson sarebbe stato lo stesso senza i conflitti benefici con coach Brown? Webber avrebbe fatto il salto di qualità senza l’arguzia e l’intesa con il compagno Divac? Bryant non potrebbe essere il vero erede di Jordan, anche solo per titoli vinti, senza il pungolo di Winter (esatto non il coach zen ma il vecchio Tex)?
Le risposte stanno nelle zucche dei giocatori, ma la polemica alimenta le riflessioni e le riflessioni portano a decisioni quanto meno ponderate.
Non di sole Hummer si ciba il cestista (e sua madre).