L'unico modo per fermare lo scatenato Jackson sembra essere il fallo…
A Sacramento, i tifosi ormai sanno che, anche senza Mike Bibby, i Kings possono viaggiare a mille e sciorinare offensivamente un basket di assoluto valore, perché Bobby Jackson è sul parquet e niente e nessuno può levare al piccolo grande uomo della North Carolina la consapevolezza di risultare sempre e comunque decisivo.
Approdato alla corte di coach Adelman come free-agent nella stagione 2000/2001 ha subito approfittato della fiducia che il coach ha riposto in lui, dopo le deludenti prestazioni di Jason Williams nei momenti caldi delle partite che Sacramento "doveva" vincere.
Il play spettacolo da Florida divertiva il pubblico nei primi quarti, poi quando c'era da vincere le partite spazio a Bobby fino alla fine. Così, quando Williams è stato scambiato con Bibby, il minutaggio dell'ex Minnesota non è mutato e il coaching staff ha ritagliato il classico ruolo di sesto uomo per lui, facendone una stella del panorama underground della NBA.
Non a caso il 4° posto nella prima stagione in California e il 2° lo scorso anno, nella speciale graduatoria dei panchinari di lusso, denota quali siano le responsabilità che i Kings danno a questo normotipo dall'energia sconsiderata e dal talento offensivo mai nascosto.
Un talento che già dal College lo aveva proposto per i grandi palcoscenici della NBA, nonostante il suo fisico non eccezionale, stella dell'università del Minnesota, guidata alle prime Final Four della storia nel 1997, nel suo anno da senior e poi scelto col numero 23 assoluto dai Seattle Sonics nel Draft successivo.
Seattle però non credeva in Jackson e lo scambiò subito con Denver per i diritti di James Cotton (chi?) e una 2° scelta futura. A Denver Jackson trovava la classica situazione disastrosa di molti rookie, squadra destinata a perdere, ma possibilità di spazio immediata per un rookie che sappia farsi valere fin da subito.
Infatti Bobby prese subito posto in quintetto e la sua media minuti non scese mai sotto i 30 a sera. In una squadra in cui la parola gioco era assai sconosciuto, però, un offensivista come Jackson perse la bussola e si intestardì troppo nella soluzione personale, tirando molto, ma con percentuali scadenti e molti turnovers, anche se la media punti alla fine lo pose fra i primi rookie del suo anno.
Ciò non bastò per evitare a Jackson la seconda trade consecutiva e il suo destino fu spedito ai T'Wolves, alla corte di Kevin Garnett, come cambio del play Terrell Brandon. A Minnie, si tornava a casa, a quello che era stato il suo passato nel College, ma Jackson non ricevette da coach Saunders lo spazio che il play richiedeva, i minuti calarono drasticamente e con essi anche il fatturato offensivo, ma quel che più veniva a galla erano le sue percentuali scadenti, soprattutto per un giocatore che dell'arresto e tiro dalla media dopo la partenza in palleggio aveva fatto quasi un'arte al College.
Jackson desiderava avere responsabilità maggiori, come tutti gli amanti del proprio bagaglio personale non ammetteva che il coach lasciasse troppo ad altri (Brandon in particolare) le sorti della partita e ciò lo infastidiva non poco, arrivando a non poter più sopportare la situazione creatasi.
Così nel 2000 si ritrovò free-agent alla ricerca di una squadra che potesse dargli quel che meritava, ma il mercato non proponeva granchè, finchè non arrivarono i Sacramento Kings, che avevano bisogno di un'alternativa alle pazzie di White Chocolate e cercavano un play che potesse avere punti nelle mani in qualsiasi momento.
Jackson faceva proprio al caso e mai matrimonio fu più salutare per entrambi come quello fra l'ex Gophers e i Kings. Sotto la guida sapiente di un guru come Pete Carrill, Bobby migliorò sensibilmente le sue statistiche dal campo e seppur con solo 7 starter in stagione, giocò quasi tutte le partite della stagione regolare, ritornando a cifre considerevoli, con un minutaggio decisamente migliore rispetto agli anni con Minnesota, e soprattutto la consapevolezza di essere importante per una squadra ambiziosa come Sacramento.
Nella passata stagione, poi, con i Kings lanciati nella sfida ai Lakers per l'anello, la stagione regolare di Jackson lo consacrò nel panorama NBA come il nuovo "Microwave" della Lega, capace di incendiarsi subito al suo ingresso in campo e di essere pericoloso con le conclusioni dalla distanza e la sua velocità di esecuzione dal palleggio, che lo faceva un'arma tattica devastante per coach Adelman.
Non a caso solo la splendida annata di Corliss Williamson a Detroit gli tolse il premio di "Sesto uomo dell'anno", ma per Jackson gli elogi si sprecarono, anche se nei playoff l'esplosione di Mike Bibby gli tolse un po' di peso nel gioco offensivo dei Kings, senza però scalfire la sua determinazione nei momenti in cui calcava il parquet.
Questa stagione è iniziata con Bibby ai box per l'operazione fatta in estate che lo ha tenuto fuori per questi primi mesi di basket giocato, così, in modo del tutto naturale, Adelman ha affidato le chiavi di regia di Sacramento a Jackson, sapendo di poter essere tranquillo sulla possibilità di non perdere quasi nulla nello spettacolare gameset offensivo dei vice-campioni della Western Conference.
Mai però avrebbe pensato che Jackson potesse regalargli una partenza così devastante. Una media attestata sui 20 punti a gara, col 50% scarso dal campo e quasi il 40 da oltre l'arco ne fanno la seconda bocca da fuoco della squadra dopo Chris Webber, addirittura superiore a Peja Stojakovic.
Nei momenti in cui i Kings hanno dovuto fare a meno contemporaneamente di Stojakovic, Turkoglu e Christie, Jackson ha saputo prendersi sulle spalle il peso del backcourt dei Kings, sfoderando prestazione a dir poco sensazionali, senza mai strafare e giocando con una padronanza che solo i grandi possono avere.
Non a caso, pur con tutti gli infortuni occorsi in serie, i Kings sono la seconda squadra a Ovest e sono primi nella Pacific, con un record immacolato nelle partite casalinghe. Le statistiche offensive dell'ex Minnesota lo hanno portato ai massimi in carriera e non a caso contro i Clippers, cioè contro un play come Andre Miller, Jackson ha raggiunto il suo massimo in carriera con 31 punti a referto.
Il suo tiro è sempre mortifero, ma la conduzione del contropiede e la capacità di passaggio sono notevolmente migliorati, e le responsabilità non sono mai venute meno.
Il "Microonde" dei Kings ha avuto lo spazio che sognava, in una grande come Sacramento, e la smisurata fiducia nelle proprie capacità lo ha portato a giocare senza alcun timore reverenziale, riuscendo a diventare un leader silenzioso all'interno dei Kings.
Certo col ritorno imminente di Bibby il suo minutaggio andrà in calo, ma siamo certi che coach Adelman non vorrà rischiare di perdere il momento d'oro del suo n.24, mantenendogli un ruolo da protagonista in questa annata che per i Kings vuole dire, attacco all'egemonia Los Angelina e ricerca del primo anello assoluto.
Nella regular season, con Bibby ancora non al meglio, Jackson potrà giocare un ruolo decisivo e nei playoff i suoi cambi di marcia e la sua energia potranno scardinare molte situazioni complicate che la post-season crea, soprattutto alle squadre che hanno la pressione di dover vincere a tutti i costi.
Una pressione che per Bobby Jackson non è mai esistita, perché è la vita stessa che lo ha fatto diventare uomo molto presto e nel basket questo si vede sempre.