Allan Houston on fire

Allan Houston, protagonista dell'inizo stagione dei Knicks

Contro i Boston Celtics, nel debutto stagionale interno, il Madison Square Garden salutava con scroscianti applausi l'apparizione di Latrell Sprewell in borghese, a sancire, se mai ce ne fosse stato bisogno, da che parte si schieravano i tifosi nella guerra tra il numero 8 e la dirigenza. L'amore del Garden per Spree non è certo una novità , ma inaspettatamente, dalle tribune si sono levati applausi e cori di incitamento nei confronti di Allan Houston, giocatore sempre discusso e poco amato dai tifosi dei Knickerbockers sin dal suo arrivo nel 1996.

Un rapporto iniziato col piede sbagliato: la "colpa" di Houston fu quella di sostituire in quintetto John Starks, uno dei beniamini storici del Garden, e nonostante grandi gare sia in regular season che nei play off, Houston fu classificato come un giocatore bello, bellissimo da vedere, ma privo di cuore, di grinta, di cattiveria agonistica, qualità  che il Ninja scoperto da Pat Riley possedeva in dosi industriali.

E non possedere quella fame, quella voglia di gettare il cuore oltre l'ostacolo sempre e comunque, rappresentava per il pubblico del Madison un peccato mortale. Senza scomodare una leggenda come Wills Redd, un Oakley o uno Starks sono entrati nei cuori dei tifosi per sempre grazie al cuore, alla grinta, alla determinazione, alla voglia di lasciare tutto, anche l'ultima goccia di sangue sul parquet; un giocatore criticato dal primo giorno come Larry Johnson è riuscito ad entrare nei cuori del Garden giocando con la schiena a pezzi per anni, giocando una Finale NBA con un infortunio che normalmente lo avrebbe tenuto a riposo per almeno un mese, scontrandosi con i medici ma guadagnandosi il rispetto e l'amore eterno dei tifosi bluarancio.

Avere un talento di primissimo livello non basta a New York, ci vuole cuore, ci vuole grinta,ci vogliono gli attributi che ti permettono di andare oltre i tuoi limiti: non esiste colpa più grave dell'avere un talento accecante a cui non corrisponda un'identica fame di vittorie. Ed è per questo che Houston non è mai entrato nei cuori dei tifosi, ha sempre dato l'impressione di non possedere quel sacro fuoco che ti eleva dallo status di ottimo giocatore allo status di fuoriclasse, non è mai sembrato il giocatore che suona la carica, che si butta tra gli spettatori su una palla vagante come se da questa dipendesse la propria vita caricando tutto l'ambiente e cambiando una partita con quelle piccole grandi cose che non compaiono sui tabellini ma che alla fine possono girare una gara, se non una serie.

Non è mai stato l'uomo che negli ultimi minuti si prende sulle spalle la squadra, che manda al diavolo direttive su prime e seconde opzioni perché si sente caldo, non ha mai voluto la palla in mano a tutti i costi, non ha mai preteso che la squadra passasse comunque da lui negli ultimi minuti a prescindere dal suo tabellino, non si è mai voluto erigere sino a diventare il salvatore della baracca.

Paura? Potrebbe sembrare, ma si tratterebbe di un'analisi molto superficiale (e qualche gara in cui ha lasciato il segno, specialmente nei play off, è lì a confermarlo); forse molto più semplicemente il suo è stato l'atteggiamento di chi rispettava una gerarchia che il campo e lo spogliatoio avevano stabilito, una sorta di cameratismo che Houston accettava di buon grado, perché era giusto che a decidere i destini del gruppo fossero i generali e non i soldati.

Quando poi i generali Ewing o Larry Johnson non sono più al posto di comando con tutti gli onori e gli oneri del caso, quando poi si viene ad essere uno dei giocatori più pagati dell'intera NBA, con un contratto da oltre 100 milioni di dollari in sei anni che automaticamente ti catapulta nel ruolo di chi deve fare la differenza, diventa evidente che non si può più restare nell'ombra per non rivoluzionare determinati equilibri, ma si devono assumere i gradi di generale, volenti o nolenti.

Posto che Houston non si presentò nell'ufficio di Dolan e Layden armato di pistola e minacciandoli di morte se non gli avessero firmato quel contratto, è evidente che nel momento in cui appose quella firma la sua vita doveva cambiare (e non solo a livello economico").

Doveva dimostrare di valere quei soldi, doveva dimostrare di essere uno dei migliori giocatori in assoluto, doveva diventare il leader dei New York Knicks sia fuori che dentro il campo, doveva essere in grado di fare la differenza, in grado di garantire quelle 10-15 vittorie in più a stagione come un McGrady , un Duncan, un Bryant, un Kidd, un Iverson o uno Shaq, perché la firma su quel contrattone automaticamente lo inseriva nella fascia di quei giocatori che devono spostare gli equilibri anche se predicano nel deserto.

Non fu così, e nonostante i 20 punti di media, lo scorso anno per i Knickerbockers arrivò il primo giro in lotteria dopo anni e anni di apparizioni in post season.

Non giocò male Houston, considerando che non esisteva la minima traccia di un gioco interno che potesse creare spazio sul perimetro per lui e Sprewell, ma quando si porta sulla schiena il cartello con scritto "100 milioni" non bastano 20 punti ad incontro, ci vuole di più, molto di più.

Quel di più che sembra emergere in questo inizio di stagione in cui finalmente abbiamo visto uno Houston di altissimo livello, uno Houston che dopo il ko di McDyess e il duro scontro tra Sprewell e il management, sembra essersi deciso ad essere il leader dei Knicks sia dentro che fuori dal campo, come dimostra la strigliata fatta nello spogliatoio ai suoi compagni dopo la sconfitta interna contro Milwaukee (la quarta consecutiva nel peggior inizio dal 1985 per New York).

"Non è stato un discorso lungo, ho solo detto che dobbiamo giocare duro e con energia, non dobbiamo abbatterci altrimenti finiremo in un buco nero. Ho detto loro che capita di commettere degli errori, ma non per questo bisogna giocare con meno passione e grinta come è successo stasera."

Uno Houston diverso fuori dal parquet, ma soprattutto sul parquet come ha dimostrato nelle prime 4 gare di stagione in cui viaggia a 30.2 punti con un ottimo 44.9% dal campo, percentuale davvero eccellente se si pensa che le difese avversarie collassano interamente su di lui, vista la mediocrità  dei suoi compagni . Sta tirando con un misero 26 % da 3 (in carriera viaggia col 40%") mentre è finalmente diventato più aggressivo, attaccando il canestro (oltre 7 liberi ad incontro contro il massimo di 4.4 dello scorso campionato) e non accontentandosi solo del tiro da fuori che sarebbe un peccato capitale per un giocatore in grado di andare via con estrema facilità  sia a destra che a sinistra, sfruttando l'atletismo e la lunga falcata che compensa l'esplosività  non eccelsa sul primo passo.

Purtroppo non è bastato ad evitare ai Knicks una partenza con 4 sconfitte in 4 incontri, forse qualcosa succederà  col rientro di Sprewell, ma è difficile ipotizzare almeno per questa stagione, un campionato di vertice per la formazione allenata da Chaney, anche con uno Houston a questi livelli. Ma per il ragazzo di Louisville potrebbe essere la stagione della rinascita, la stagione che potrebbe far apparire meno folle quel contrattone da oltre 100 milioni di biglietti verdi, la stagione che potrebbe far ricordare ai molti superficiali che Allan Houston è pur sempre una delle migliori guardie che circolano nel pianeta NBA, uno che nei play off viaggia a 19.3 di media col 44.8 % dal campo ed il 42% da oltre l'arco, uno che a New York ha segnato più di 8000 punti viaggiando a 18.2 di media ed ha partecipato a 2 All Star Game ed un'Olimpiade.

Molto probabilmente chiuderà  la carriera a New York per via di quel
contrattone che lo rende incedibile, ma se McDyess tornerà  al 100% e
se il front office con un po' di fortuna riuscirà  a costruire una squadra
in grado di lottare per le posizioni di vertice, verrà  il momento in cui Houston potrà  dimostrare che in un contesto vincente, può essere un
generale, non soltanto un semplice soldato.

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