Una foto mitica di Hakeem: quella con la maglia del Team USA
Lo chiamavano “The Dream” perchè…
Perché grazie a lui Rudy Tomjanovich oggi non è più ricordato per quel pugno di Kermit Washington che gli rovinò il volto. Era finalmente terminata la leggenda di quel coach,grande motivatore e mal pagato,che con un imprevisto back to back coronò una carriera fino ad allora discreta,ma nulla di più.
Perché Clyde "The Glide" Drexler ha potuto vincere l'unico anello della sua carriera, dopo che per anni si era fatto il mazzo uscendone sempre sconfitto.
Perchè senza di lui, forse Robert Horry non avrebbe imparato ad essere così decisivo, Shaq non avrebbe mai conosciuto l'onta della sconfitta in finale e, chissà , magari il three-peat dei Lakers non si sarebbe realizzato.
Per colpa sua, un nigeriano che gioca pivot ed è stato prima scelta assoluta del draft qualche stagione addietro, non avrebbe sentito sulle proprie spalle il peso di un paragone improponibile, che andava ad aggiungersi all'etichetta di giocatore-bufala, una prima scelta al limite del tragicomico.
Costui, per tutti, è stato un giocatore da sogno. E' stato THE Dream,il sogno.
L'anagrafe dice 39, per la precisione 40 a gennaio. Le più recenti statistiche, 7.1 punti e 6.5 rimbalzi a partita sono quanto mai bugiarde per un'assoluta stella del panorama NBA, senza ombra di dubbio uno dei più grandi di sempre, che meno di dieci anni fa rappresentava quasi quello che è ora Shaq per tutti, con l'aggravante che, al tempo, bazzicavano sul terreno di gioco illustri signori quali Patrick Ewing, David Robinson, lo stesso Shaquille O'Neal e Alonzo Mourning, tutti a pieno servizio, tutti meno acciaccati e più attivi, centri di gravità permanenti delle loro aree piccole.
Ewing è ora sul viale del tramonto e non ha titoli all'attivo, Mourning ha affrontato e non completamente superato un ostico problema ai reni, mentre Robinson, che dei sopra citati è forse il più in forma, ha vinto l'anello grazie all'apporto del caraibico Tim Duncan, uno dei dominatori della NBA odierna.
E poi c'è Shaq, il più forte. Un raffronto con Hakeem sarebbe improponibile nonostante si siano spesso scontrati e giocassero nello stesso ruolo. Quando Hakeem impazzava Shaq era poco più che un ragazzino; la sua grande potenza si poteva già ammirare ma non era ancora al pieno, mentre Hakeem, che è sempre stato un pivot tecnico e solido, aveva dalla sua anni di esperienza che lo ponevano su un altro livello.
E poi queste dietrologie non hanno senso; Shaq non è l'erede diretto di Hakeem, è il primo vero centro dominante dopo di lui. Molti infatti tendono a dimenticarsi dell'effettivo valore di Olajuwon, tratti in inganno dalle sue ultime cifre accumulate, dal sensibile calo del giocatore a partire dalla stagione 1997-98, anno in cui il suo imponente fisico usciva martoriato dagli infortuni.
Dalla stagione d'esordio, in cui non fu rookie dell'anno per una scomoda compresenza con Michael Jordan, Hakeem ha mantenuto medie stratosferiche, con un minimo di 20.6 punti a sera fino ai 27.8 del back to back dei Rockets. Per non parlare dei rimbalzi, praticamente sempre in doppia cifra, e delle stoppate, di cui è diventato leader assoluto.
Per lui grandi riconoscimenti individuali, come difensore, come stoppatore e rimbalzista, come MVP della regular season del 1994 e delle finali 94 e 95, con l'aggiunta di sei inclusioni nel primo quintetto NBA tra l'87 e l'89 e successivamente tra il 93 ed il 95.
I due titoli sono stati il tassello mancante ad una grandiosa carriera, fatta, come è ovvio, anche di momenti difficili. Quelli più freschi risalgono alla stagione 97-98, in cui Olajuwon fu costretto a saltare 35 partite per infortunio, vedendo calare i propri punti a sera da 23.2 a 16.4.
La stagione seguente, quella del lockout, fu un'illusione. Si vide a sprazzi il suo antico potenziale, non disperso ma diminuito, e quasi 19 punti a incontro che facevano ben sperare.
Ma il declino era irreversibile, le ginocchiere che da anni lo contraddistinguevano sembravano indispensabili, privo di esplosività e con un bagaglio tecnico spesso messo in crisi da atleti più giovani e competitivi, ali forti o pivot che fossero.
In seguito vi furono annate 10-11 punti a partita, qualche rimbalzo e molta panchina a vantaggio delle nuove leve nel ruolo di centro, e poco conta che queste fossero pseudo-delusioni come Kelvin Cato. Ma Hakeem, da professionista ha continuato a giocare, fornendo fino in fondo il suo contributo allo sport che lo aveva reso un vincente, che gli aveva cambiato la vita, tenendo conto che fino a 18 anni non aveva idea di come si maneggiasse la palla a spicchi, un po' come Olowokandi ma con risultati leggermente migliori.
Quindi è avvenuto il cambio di conference, ai Toronto Raptors di Vince Carter, che cercavano di emergere definitivamente ad Est e vedevano in The Dream un lungo utilissimo da affiancare ad Antonio Davis e Keon Clark, i quali non avrebbero potuto che trarre beneficio da un signore del parquet quale Hakeem era ed è considerato.
Poi tutti sappiamo come è andata. Hakeem o non Hakeem, il nigeriano non era più quello di un tempo e pure lui se ne era reso conto, Carter non stava funzionando al meglio, per poi infortunarsi definitivamente poco dopo. Fuori dai playoffs al primo turno.
Tuttavia l'immagine di Hakeem Olajuwon non può essere intaccata più di tanto da queste stagioni storte, dai disperati tentativi di non accettare la realtà , quella stessa realtà cui stentava a credere, come dichiarò appena terminata la finale contro i Knicks di Patrick Ewing, grandi sconfitti in una tiratissima serie di finale, mente John Starks si preparava a sonni turbolenti, con in testa quella manona nera che deviava il suo tiro della disperazione.
E quella manona nera era di un tale con indosso il 34, una divisa bianca a caratteri rossi. Hakeem,sissignori. L'uomo che ha reso Houston una città vincente, anche se per un breve periodo, l'unico cui attribuire quei successi di squadra, in compagnia di lottatori di epoche diverse, vedi Cassell, Horry, Vernon Maxwell, l'amicone Clyde Drexler, Mario Elie, Kenny Smith, Otis Thorpe.
Ma i più navigati dell'ambiente ricorderanno altri momenti non brillanti degli Houston Rockets e del loro professionista di spicco. Ad esempio la finale contro Boston del 1986, quando Houston poteva ancora disporre delle torri gemelle, Sampson e Olajuwon, indiscutibilmente il motivo principale per cui i biancorossi approdarono a quell'atto conclusivo. Altresì, il motivo per cui quella finale non la vinsero.
Coach Bill Fitch contava molto, per non dire esclusivamente, sulle Twin Towers, ma fu Ralph Sampson a tradirlo in Gara 6. Prese a pugni nientemeno che Jerry Sichting, più basso di 40 centimetri, diventando l'incriminato numero uno per quella sconfitta. Boston vinse 4-2.
L'apice negativo fu raggiunto nel 1992,quando si stava disputando la corsa ai playoff, ed Olajuwon chiese un'estensione contrattuale. Ma vi fu il netto rifiuto del club, ed il management arrivò addirittura a definire il nigeriano "attore" quando non giocò una partita per infortunio.
Hakeem venne dipinto come una prima donna, e si disse che si era inventato tutto come ripicca per il mancato accordo. Olajuwon,distinguendosi come professionista affidabile e serio,o ffeso dalle accuse, fece una richiesta di cessione.
I Rockets tentarono dunque di rifugiarsi andando sul mercato, ma Olajuwon era un pezzo difficile da scambiare. Non aveva un valore realmente quantificabile e le contropartite tecniche offerte erano indegne. Il proprietario Charlie Thomas riuscì però a tranquillizzarlo,lo confermò, e pochi mesi dopo cedette interamente la franchigia a Lesile Alexander. Da lì l'ascesa.
Hakeem ne uscì orgoglioso e sereno, umanamente integerrimo e professionalmente gratificato, e forse da quell'episodio trasse la grinta necessaria a disputare le due stagioni più indimenticabili della sua carriera. Hakeem vinse e si riconfermò, grazie alla grande self-confidence acquisita nel corso degli anni e delle esperienze,con classe e potenza. E ci fu spazio solo per sogni,e gli incubi vennero sempre meno.
Nel 1996 un altro riconoscimento, più particolare dei precedenti. Hakeem,nigeriano di nascita, ottenne il permesso per giocare con la nazionale USA agli Olympic Games di Atlanta, a fianco di Grant Hill, Penny Hardaway, Scottie Pippen e Charles Barkley, suoi futuri compagni di squadra.
Tutto accadde non senza polemiche: gli americani erano contrariati dalla decisione, in molti esigevano una squadra totalmente Made in USA e Hakeem era un dettaglio forse di troppo. A dire il vero il centrone dei Rockets non brillò particolarmente e giocò poco, ma la circostanza fu per lui straordinaria, un premio per il contributo che aveva dato al basket e all'America dal 1984, e per molti fu anche un gesto simbolico di valore umano e morale.
Ora i Rockets hanno un altro uomo franchigia, come se non bastasse soprannominato "Franchise" per un gioco di parole con il suo cognome,a testimonianza di come i tempi cambino e si evolvano gli ambienti.
Ma non sarà facile rimuovere l'immagine di quel 2.08 con occhialoni alla Horace Grant e ginocchiere in tinta con la divisa, quella vecchia, solo con la scritta "Houston" o "Rockets" nella canotta rossa o bianca, quella senza logo, senza il marchio "I love this game".
A dire il vero, si fa anche un po' fatica a vederlo in maglia Toronto Raptors, con un sorriso abbozzato che non manca mai, ma ultimamente un po' melanconico.
Freud definì la melanconia come uno stato d'assenza,la mancanza di qualcosa.
E THE DREAM, che con Freud aveva inconsapevolmente un nesso,non potrà che mancare alla grande platea della NBA.
"…il risveglio dal sogno forse uccide, mai tradisce."
Afterhours