In preseason Carter è apparso subito tonico e carico: basterà per i Raptors?
Sconfiniamo in Canada, per cercare di capire quale può essere lo stato di salute dell’unica franchigia non statunitense della NBA.
Nati nel 1995, i Raptors, che hanno anche “ospitato” il nostro Enzino Esposito, sono arrivati all’apice della loro vita cestistica nelle ultime due stagioni: in particolare, quella appena conclusa, li ha visti conquistarsi al fotofinish i playoff, ma la sconfitta al primo round, dopo cinque combattutissime gare con Detroit, ha lasciato l’amaro in bocca ai tifosi, che rimpiangono ancora adesso l’assenza della loro stella, Vince Carter, costretto, sin da marzo, a fare lo spettatore a causa di un infortunio al ginocchio.
Ma se da una parte il pubblico ha rimpianto Carter, gli addetti ai lavori sostengono che per Toronto, tutto sommato, la sua assenza abbia quasi giovato al gioco e ai risultati.
Air Canada, infatti, non ha ancora convinto completamente la critica, che si è anche permessa di affibbiargli l’etichetta di “All Star Player”, ovvero il tipo di giocatore adatto quasi esclusivamente a gare di esibizione e capace di giocate valide solo ai fini dello spettacolo.
E se fosse stato sul parquet durante l’eliminazione, probabilmente i più maligni lo avrebbero etichettato anche del titolo di “First Round Looser”, epiteto già utilizzato in passato per lo sfortunato Grant Hill.
In effetti, il buon Vincenzo, nel 2002, è stato cliente fisso delle classifiche di NBA Action e protagonista di tantissimi highlights. Ma che colpa ne ha lui se madre natura lo ha dotato di una straordinaria capacità di elevazione e di un’incredibile creatività aerea?
Nessuna, anche se non è del tutto esente da demeriti.
Nonostante i suoi 24,7 punti a partita (settimo tra i migliori realizzatori della lega), Carter non è ancora riuscito ad assumersi il ruolo di leader, di giocatore determinante e vincente. Le statistiche, da non valutare sempre come oro colato, supportano questa tesi (i Raptors hanno vinto 12 delle ultime 14 gare di regular season disputate senza di lui).
Ma in ogni caso la stagione di Air Canada, è stata effettivamente ricca di alti e bassi, in cui alternava gare da autentico trascinatore con partite nelle quali abbandonava letteralmente la squadra nei minuti finali. Forse non è ancora pronto dal punto di vista mentale, o forse non ha ancora interpretato correttamente le qualità dei suoi mezzi tecnici.
Dovrebbe giocare da ala piccola (anche se uno swingman come lui non può essere imbrigliato in un unico ruolo), ma troppo spesso si improvvisa guardia, innamorandosi eccessivamente del suo tiro dalla distanza e dimenticandosi che potrebbe sfruttare di più il suo uno-contro-uno, specialmente sulla linea di fondo.
Inoltre, alla luce della partenza di un troppo esoso Keon Clark, Toronto, in fase offensiva, avrà ancora più bisogno di secondi possessi, e quindi sarà il caso che Carter inizi ad andare a rimbalzo d’attacco con più aggressività . Del resto, chi è il miglior saltatore della squadra?
Carter ha già dichiarato di voler iniziare questa stagione con un nuovo atteggiamento, meno show-time e più concentrazione verso un unico obiettivo: la vittoria. Al fianco del nostro eroe, lungo il cammino verso la consacrazione ci sarà ovviamente Lenny Wilkens, che, avendo a disposizione un Carter al 100% delle sue capacità psicofisiche potrebbe aumentare notevolmente la sua già straordinaria percentuale di vittorie da capo allenatore.
Oltre alla pratica Air Canada, coach Wilkens, si dovrà preoccupare anche della sua cabina di regia, attualmente affidata ad Alvin Williams. Nonostante negli ultimi due anni Williams sia migliorato notevolmente sia in termini di punti segnati che dal punto di vista della distribuzione del gioco, la sua gestione delle partite a volte provoca ancora qualche brivido lungo la schiena dei tifosi.
Inoltre, quest’anno non ci sarà più il veterano Chris Childs ad uscire dalla panchina: da Los Angeles è arrivato in punta di piedi Lindsey Hunter, ovvero colui che venne inquadrato da molti come l’erede naturale di Isiah Thomas, un eterna promessa fino ad ora mai mantenuta.
L’ex playmaker di Detroit, dopo un brillante avvio di carriera NBA, si è lentamente spento, e, dopo una breve comparizione a Milwaukee, ha trascorso una stagione da venti minuti scarsi a partita e con risultati rivedibili (anche se con un anello) a Los Angeles. Con questo biglietto da visita, sarà meglio per Toronto che Williams non si stanchi facilmente e riesca a stare in campo il più a lungo possibile.
Per quanto riguarda gli altri ruoli, nel reparto forwards ci si aspetta un altro passo in avanti da Mo’ Peterson e quantomeno le stesse prestazioni dello scorso anno da Lamond Murray, l’unico colpo di mercato interessante. L’ala da Cleveland dovrebbe garantire punti e contribuire a colmare il probabile gap a rimbalzo, che si potrebbe creare dopo la partenza di Keon Clark.
Ma se Carter non è del tutto affidabile, i direttori d’orchestra e gli esterni ancora un po’ titubanti, dove e da chi può andare Lenny Wilkens a cercarsi delle certezze? Sotto canestro, da Antonio Davis.
Antonio è probabilmente l’unico punto fermo di questa squadra. Maturo, esperto e concreto, l’ex centro dell’Olimpia Milano sta raccogliendo successi personali anno dopo anno, come la partecipazione alla partita delle stelle del 2001 e la recente selezione per il Team USA.
Anche se spesso è più leggero e basso dei suoi diretti rivali sotto canestro, Davis è un uomo che ha sempre saputo lavorare ottimamente sul suo fisico, divenendo un atleta molto solido e reattivo.
In attacco, a volte, è un po’ troppo macchinoso nelle sue esecuzioni, ma un più che discreto tiro dalla media distanza e i suoi sacrifici combinati con la determinazione dimostrata in fase difensiva gli hanno fatto ottenere il pieno rispetto del coach e dei compagni.
Toronto può quindi contare su un gran lavoratore che, timbrando con costanza e con entusiasmo il suo cartellino è arrivato a sfiorare nel 2002 la doppia doppia di media in stagione (14,5 punti e 9,6 rimbalzi).
E se un trentaquattrenne come Davis ha ancora entusiasmo da vendere figuriamoci le nuove leve dei Raptors, che quest’anno presentano ben sei rookies nel loro roster.
Dal training camp arrivano notizie confortanti e si racconta addirittura che, durante le partitelle, i vari Huffman, Jefferies e Ward facciano girare letteralmente la testa a quelli con la pettorina da titolare. Se è vero che il buongiorno si vede dal mattino, allora probabilmente a Toronto hanno qualche motivo in più per sorridere.
Chi invece di sorrisi ultimamente ne ha elargiti pochi è il grande vecchio Hakeem Olajuwon.
The Dream non si è ancora unito ai compagni a causa di un infortunio alla schiena, che potrebbe rappresentare la causa (o la scusa) definitiva per il suo abbandono.
Ritiro è una parola che non vorremmo mai sentire da atleti del calibro di Hakeem, anche perché, nonostante sia ormai un lontano parente del centro che portò al titolo per due volte gli Houston Rockets, il suo contributo nel 2001-02 è stato tutt’altro che disprezzabile, e ai giovani di Toronto servirebbe proprio una chioccia come lui.
Del resto, e i più romantici saranno sicuramente d’accordo, è uno degli ultimi rimasti di quella incredibile compagnia di fenomeni che ha dato vita alla Golden Age del basket NBA; qualora dovesse andarsene anche lui si chiuderebbe tristemente un altro capitolo di storia della pallacanestro a stelle e strisce.