Joe Gaetjens, autore del gol vittoria del 1950, portato in trionfo
In occasione del primo scontro “Mondiale” dopo 60 ani, pubblichiamo un bellissimo articolo (inedito in italiano) tratto dal mensile inglese FourFourTwo sulla storia di Joe Gaetjens, l'autore dello storico gol che consentì agli USA di battere i mestri inglesi ai Mondiali del 1950.
Belo Horizonte, Brasile, 29 giugno, 1950. Un calciatore con un largo ghigno stampato in viso è trasportato sulle spalle da un gruppo di tifosi locali in festa. Il suo nome è Larry "Joe" Gaetjens. La sua squadra, gli Stati Uniti d'America, ha appena battuto l'Inghilterra 1-0 nel girone eliminatorio della quarta edizione della Coppa del Mondo. Fu Joe a mettere a segno il gol, e nonostante l'avesse fatto di testa, presto fu conosciuto come "the shot which rang round the world".
Joe non era nemmeno cittadino degli Stati Uniti al tempo, e non lo divenne mai. Arrivò a New York da Haiti nel 1947, avendo ottenuto una borsa di studio pubblica per seguire dei corsi di ragioneria alla Columbia University di New York. Proveniva da una buona famiglia; suo padre, belga, era un uomo d'affari, sua madre invece, haitiana, era una casalinga, ma non erano ricchi abbastanza per mantenerlo agli studi. Per questo motivo, per sostenersi, Joe iniziò a lavorare come lavapiatti in un ristorante tedesco.
Nel suo paese, ad Haiti, aveva giocato per un club abbastanza conosciuto, l'Etoile Haitienne, e avendo voglia di continuare, chiese al suo capo se potesse aiutarlo a trovare un club. "Spero che tu giochi al calcio meglio di come lavi i piatti", gli disse il suo capo, che però lo spedì per un provino con il Brookhatten, che giocava nella semiprofessionistica American Soccer League.
Forse non aveva le mani fatate per la cucina, ma certamente era in grado di giocare a alcio. Attaccante energico e intelligente, fu il secondo marcatore della ASL nel 1948 e fu capocannoniere due anni dopo, nonostante il fatto che nell'anno dei Mondiali il Brookhattan si fosse piazzato all'ultimo posto in campionato.
Fu comunque una sorpresa vederlo convocato tra i 16 che avrebbero rappresentato gli USA nella quarta edizione dei Mondiali. Non perché non fosse cittadino americano - in quegli anni la sola richiesta di cittadinanza era sufficiente per il regolamento della United States Soccer Federation - ma perché aveva un'esperienza internazionale estremamente limitata.
Non era infatti stato convocato nella Nazionale USA per la pessima prestazione alle Olimpiadi del 1948 (persa l'unica partita giocata, contro l'Italia, per 9-0); non aveva giocato nel torneo di qualificazione di Città del Messico nel 1949 (in cui la Nazionale USA perse 6-0 e 6-2, pur riuscendo a qualificarsi grazie ad una vittoria e ad un pareggio contro Cuba); e non era sceso in campo nel match amichevole contro il Besiktas, perso dagli USA 5-0.
Ma Joe aveva impressionato in una partita amichevole giocata a St. Louis, finalizzata alle ultime scelte prima dei Mondiali, e la settimana prima di partire per il Brasile fu quindi chiamato per giocare in una partita non ufficiale in cui gli USA affrontarono gli FA XI, una selezione itinerante della Football Association inglese (che includeva Nat Lofthouse e Stanley Matthews, che però quel giorno non giocò). Doveva essere deliziato dall'essere stato convocato, visto che gli USA si apprestavano ad affrontare un girone terribile, che comprendeva Spagna, Cile e Inghilterra. Solo una squadra si sarebbe potuta qualificare oltre l'Inghilterra – data per scontata -, e gli Stati Uniti non avevano speranze.
Per Joe Gaetjens giocare nel girone mondiale contro la favoritissima Inghilterra, con le sue stelle famose in tutte il mondo come Wilf Mannion, Tom Finney e Stan Mortensen, era come un sogno. Che non poteva accadere a persona migliore.
Joe era un ragazzo "felice e fortunato" ricorda Walter Bahr, capitano di quella Nazionale, uno dei cinque giocatori ancora vivi, tra quelli che scesero in campo ai Mondiali del 1950. "Aveva sempre un gran sorriso sulla faccia". "Era quel tipo di persona", racconta suo fratello Jean-Pierre Gaetjens, "che quando arriva in mezzo ad un gruppo di persone che non lo hanno mai visto prima, dopo 10 minuti sembra che siano stati suoi amici da 20 anni".
Giocare per Brookhattan nella ASL (American Soccer League) non era esattamente il massimo. Il calcio negli Stati Uniti era un affare alquanto traballante a cavallo tra la fine degli anni '40 e i primi anni '50. Non c'era un campionato nazionale, e il soccer era giocato seriamente solamente sulla costa orientale, e in città di forte immigrazione quali Chicago e St. Louis all'ovest. I giocatori erano semiprofessionisti che lavoravano 40 ore a settimana, e che rimediavano qualche soldo nelle partite domenicali. Walter Bahr ricorda di quando prendeva 50 dollari a settimana come insegnante di educazione fisica e quindi 25 come premio partita nel fine settimana. Gino Pariani ricorda di quando si allenava due volte a settimana in un parco locale. "Quando faceva buio ci allenavamo usando le luci delle nostre macchine", dice. "I campi erano terribili", dice ridendo Bahr. "Erano campi di terra o di cenere, o veri appezzamenti coltivati a cavolo".
Il top di ogni stagione erano la National Challenge Cup, che vedeva scendere in campo le squadre delle varie leghe americane, e le tournée delle squadre delle varie nazioni che divennero di moda negli post-bellici. Il Liverpool andò in tournée nel 1946 e nel 1948, la Scozia e l'Inter nel 1949, il Manchester United e il Besiktas nel 1950. Le squadre in tournée affrontavano un All Star XI delle leghe USA, e fu quasi certamente la prestazione di Gaetjens contro il Besiktas nel maggio 1950 ad assicurargli un posto nella squadra per i Mondiali: fu lui a segnare infatti tutti i gol della squadra di casa nella sconfitta per 5-3.
La selezione della squadra per i Mondiali da parte della USSF fu un processo delicato. I selezionatori erano preoccupati di privilegiare una lega rispetto all'altra, racconta Bahr, e così alla fine scelsero otto giocatori della East Coast e otto delle Western Leagues.
Una volta assemblata, la squadra dopo tre giorni volò verso Rio de Janeiro e poi ebbe altri tre giorni per acclimatarsi prima della partita d'esordio con la Spagna. Mentre l'Inghilterra iniziò il torneo venendo data favorita 3-1, gli americani erano dati 500-1.
Il loro coach Bill Jeffrey, uno scozzese bonaccione di Dundee che aveva allenato con successo la Penn State University, aveva il compito di scegliere gli undici da mandare in campo contro la Spagna. "Sapeva che molti dei giocatori non erano usi a giocare insieme, ma si assicurò che imparassero a conoscere le loro zone di campo", dice Bahr. Jeffrey utilizzava il modulo W-M e scelse la spina dorsale della squadra dallo stesso distretto italiano di St. Louis, un'area conosciuta come "The Hill". Il suo portiere, Frank Borghi, era un direttore di funerali dalle mani enormi, che era stato decorato per aver coraggiosamente curato un soldato tedesco ferito durante lo sbarco in Normandia. Charlie Colombo, difensore centrale sinistro, era conosciuto come "Gloves" (guanti, ndt) per la sua abitudine di giocare con un paio di guanti quale che fosse il tempo, mentre Gino Pariani era un talentuoso interno sinistro che era stato costretto a spostare il proprio matrimonio di una settimana a causa dei Mondiali. "La sposa poteva vedere quanto fosse importante per me", racconta Pariani. "Non fece un gran casino".
Frank "Pee Wee" Wallace era un'ala sinistra con il senso del gol che durante la guerra aveva passato quindici mesi in un campo di prigionia tedesco. Per ragioni tattiche, sia Wallace che Pariani sarebbero stati spostati sulla destra nel match con la Spagna.
L'unico non-italiano dei giocatori di St. Louis era Harry Keough, che giocava terzino destro. Era sposato con una ragazza di Guadalajara e parlava spagnolo, ragione sufficiente a Billy Jeffrey per assegnargli la fascia da capitano nella partita d'apertura. Il capitano di solito era Walter Bahr, centrocampista dalla buona tecnica con la propensione ad attaccare, il quale, secondo l'ex nazionale scozzese Tommy Muirhead, "avrebbe potuto giocare in qualsiasi team della First Division inglese".
Accanto a lui c'era Eddie McIlvenny, uno scozzese di Greenock che aveva giocato nel Regno Unito, raccogliendo sette presenze con il Wrexham in Division Three prima del 1949. Quando i gallesi lo lasciarono andare, emigrò negli Stati Uniti.
Il lato destro del campo era coperto dall'ala di origine polacca, ma proveniente da Chicago, Adam Wolanin, in passato nelle riserve del Blackpool, e John Souza, interno destro di talento, mentre a terzino sinistro Jeffrey impiegò Joseph Maca, un belga che era emigrato negli USA dopo aver combattuto nella resistenza durante la guerra.
Il pezzo finale del puzzle era Gaetjens, l'unico attaccante. "Joe era un giocatore girovago, nominalmente un centrattacco, che però si muoveva ovunque", ricorda Bahr. "Aveva tocco e naso per il gol. Faceva accadere le cose. Si era guadagnato la reputazione di uno sul quale bisognava tenere gli occhi aperti. Non segnava gol da manuale, ma era lì pronto a buttarla dentro. Giocava sempre con il sorriso sulle labbra - sembrava sempre divertirsi sul campo".
Quando gli USA scesero in campo a Curitiba contro i forti spagnoli, il 23 giugno 1950, ci si aspettava una sconfitta pesante. I primi 15 minuti non accadde nulla per smentire le aspettative, con la Spagna che lanciava un attacco dopo l'altro. Superata la tempesta, fu Frank "Pee Wee" Wallace a servire il suo amico d'infanzia Gino Pariani. Questi controllò la palla con un tocco, Pariani ricorda "la arpionai e superai il portiere dal limite dell'area". USA 1, Spagna 0.
Tutti i pensieri che gli americani avrebbero tentato di difendere il vantaggio furono velocemente scacciati. "Quella, semplicemente, non era la maniera nella quale giocavamo", ricorda Walter Bahr. "Se segnavamo il primo, volevamo il secondo. Eravamo convinti che la miglior forma di difesa fosse l'attacco".
Il match, che veniva giocato senza esclusione di colpi, vedeva gli USA ancora in vantaggio negli ultimi minuti. "Ma non eravamo in forma" racconta Bahr. "Devi ricordarti che lavoravamo tutti a tempo pieno. Harry Keough era un postinmo., quindi era in forma, come lo ero io, che ero u insegnante di educazione fisica, ma non potevamo certo tenere il ritmo dei professionisti per 90 minuti". E così la Spagna segno tre gol nel 10 minuti finali, salvando la faccia.
Nonostante la sconfitta, Bill Jeffrey rimase molto contento della grintosa prova dei suoi ragazzi, e fece un solo cambiamento per il match contro l'Inghilterra di quattro giorni dopo, 350 miglia a nord di Rio, nella città di Belo Horizonte (pronuncia "Bel Horizonch"). Mise fuori il polacco Wolanin e lanciò in squadra Eddie Souza, amico d'infanzia e compagno di squadra nel Fall River di John Souza, col quale però non aveva nessuna parentela.
Entrambi i Souza si sarebbero schierati sulla sinistra, con Pariani e Wallace sulla destra. Come prima, Gaetjens avrebbe arato il solco da solo in avanti.
L'Inghilterra, allenata da Walter Winterbottom, aveva battuto 2-0 il Cile nella prima parita del torneo, e si aspettava una goleada contro gli Stati Uniti, per assicurarsi così che il match finale con la Spagna potesse diventare un'esibizione. La preparazione al match fu però smaccatamente superficiale. Nessuno infatti si preoccupò di andare ad osservare gli avversari o anche solo visionare il campo. L'unico membro della FA Selection Committee spedito in Brasile, Arthur Drewry - un mercante di pesce di Grimsby - annunciò un immodificato undici. Nella sua biografia, Stanley Matthews racconta di essere stato imbarcato su un volo per il Brasile, mentre si trovava in tournée in Nord America, appositamente per il match con gli USA, per poi però trovarsi ancora una volta fuori.
L'Inghilterra si cambiò in un tennis club fuori città per poi muoversi verso il campo, ma i giocatori rimasero sbigottiti dello stato del campo quando iniziarono a scaldarsi. "È stato detto molto sullo stato del campo", dice Walter Bahr, "ma non mi pare che fosse particolarmente male. Penso che fossimo abituati a campi ben peggiori negli Stati Uniti". L'approccio rilassato degli americani si poteva rintracciare anche nel fatto che alcuni membri della squadra rimasero in piedi fino a tardi per una festa la notte prima della partita.
Fra i 10.151 tifosi dello stadio di Belo Horizonte vi erano alcuni soldati americani e un gruppo di lavoratori di una miniera di proprietà britannica, ma la grande maggioranza era composta da rumorosi brasiliani. "Possiamo dire che sin dall'inizio volevano che noi vincessimo", racconta Frank Borghi, "perché volevano l'Inghilterra fuori dai Mondiali, sì da avere più possibilità di vincere".
Appena iniziata la partita, sembrava assai improbabile che i brasiliani potessero vedere il risultato in cui speravano. L'Inghilterra ebbe sei buone occasioni nei primi 12 minuti: due finirono sopra la traversa, due sul palo e due posero seri problemi a Borghi.
Gli americani fecero il primo tiro in porta dopo 25 minuti, una breve tregua mentre l'Inghilterra continuava ad attaccare. Nonostante Borghi fosse particolarmente ispirato, sembrava semplicemente una questione di tempo prima che l'Inghilterra aprisse le marcature. E infatti, dopo 39 minuti, arrivò il primo gol, ma gli americani non avevano letto il copione. Rimediata una rimessa laterale a 35 metri circa dalla porta, Eddie McIlvenny trovò libero Bahr. Questi si mosse in avanti prima di attaccare verso l'area. "Erano circa 25 metri, distanza buona per un tiro", ricorda Pariani. "Il portiere inglese si mosse sulla destra per intercettare il tiro, ma improvvisamente Joe Gaetjens saltò, colpendo di testa, e deviò la palla nella direzione opposta. Prima che realizzasse cosa fosse successo, la palla era dentro la rete".
Secondo un giornalista, la palla aveva appena sfiorato la parte laterale della testa di Gaetjens, ma il compagno di squadra Harry Keough aveva una visione chiara dell'episodio: "Joe si elevò, si indirizzò verso la palla toccandola", ricorda.
Gaetjens stesso non vide la palla entrare; appena colpita la palla infatti, era finito con la faccia nel fango. Ma era gol, e dopo 38 minuti di dominio dell'Inghilterra gli USA avevano in qualche modo rubato il vantaggio. "Joe non esultò come un pazzo o altro, nessuno lo faceva a quei tempi", dice Bahr. "Gli stringemmo la mano e lui si avviò corricchiando verso la metà campo, con un grande sorriso sul viso. Aveva sempre quel sorriso sul viso".
Il gol tolse il vento dalle vele degli inglesi, e man mano che la partita andava avanti gli attacchi si fecero sempre meno persistenti. Furono invece gli USA ad andare vicino al secondo gol all'inizio del secondo tempo, quando Gino Pariani mise il suo vecchio amico Frank Wallace uno contro uno col portiere inglese. "Penso che Frank andò in agitazione", ricorda Pariani. "Avrebbe potuto semplicemente toccare sotto e mandarla in rete, ma colpì la palla spedendola direttamente addosso al portiere che la deviò. La palla si avviò comunque verso la rete, ma il libero riuscì a recuperare e salvò".
Finalmente, dopo 82 minuti, l'Inghilterra riprese ad attaccare, sapendo che i suoi avversari erano di nuovo stanchi. Per una volta Stan Mortensen riuscì a passare attraverso la difesa americana e si stava preparando al tiro quando Charlie "Gloves" Colombo lo stese da dietro con quello che potrebbe essere descritto come un'entrata da rugby. "Charlie sarebbe dovuto essere cacciato fuori per quell'entrata", dice Bahr. "Nessuno di noi avrebbe protestato. Ma l'arbitro, che era italiano, disse solo 'buono, buono, buono'. Gli inglesi volevano il calcio di rigore, ma fu loro concesso solo un calcio di punizione da fuori area".
Sul tiro, il colpo di testa di Jimmy Muellen sembra superare Frank Borghi ed essere destinato al gol. Un pareggio che avrebbe dato all'Inghilterra ancora una chance per qualificarsi, ma Borghi si tuffo in tutta la sua lunghezza sulla sua sinistra riuscendo in qualche modo a deviare la palla oltre il palo.
La palla aveva superato la linea? Gli inglesi lo pensavano e protestarono rumorosamente, ma Bahr è sicuro. "Non era assolutamente gol", dice. "Poteva essere sulla linea, ma sicuramente non la superò".
Quale che fosse la verità , quella si rivelò essere l'ultima azione significante del match, e al fischio finale centinaia di tifosi brasiliani invasero il campo. Essi sollevarono sulle spalle due giocatori, e li portarono verso gli spogliatoi. Uno dei due era Frank Borghi. "Non riuscivo a capire cosa stesse succedendo", ride. "Semplicemente mi alzarono e mi portarono in giro. Non ci potevo credere".
L'altro era Joe Gaetjens, lo studente lavapiatti da Porta au Prince, Haiti, che era svettato sulla palla al 39' minuto, atterrando con la faccia nel fango, e tracciato il suo nome negli annali della storia dei Mondiali.
Non si registrarono molte notizie della partita negli USA: c'era un solo giornalista americano alla partita, Dent McSkimming, del St. Louis Post Dispatch, cui era capitato di trovarsi in zona in vacanza. Sei giorni dopo gli USA persero 5-2 con il Cile sotto i 39 gradi di Recife, e furono eliminati dalla competizione.
Nella loro ultima partita gli inglesi dovevano battere la Spagna 4-0 per qualificarsi. Persero 1-0 e dovettero fare i bagagli.
Al ritorno a casa gli inglesi furono aspramente criticati dalla stampa, anche se non ci fu il clamore che sarebbe potuto essere oggi. In fatti, maggior spazio fu dato alla prima vittoria della storia delle Indie Occidentali contro la squadra di cricket inglese sul suolo d'Inghilterra, avvenuta nello stesso giorno dell'umiliante sconfitta contro i moscerini del calcio.
I pochi membri ancora vivi della squadra inglese dei Mondiali 1950 sono spesso interpellati riguardo quella partita. "Fu una di quelle partite – ha raccontato recentemente Tom Finney a FourFourTwo - in cui avremmo potuto giocare per nove ore senza riuscire a segnare".
Solo cinque membri della Nazionale USA di allora sono ancora vivi oggi: Walter Bahr, Gino Pariani, Frank Borghi, Harry Keough e John Souza. Si sono molto divertiti a vedere le loro gesta immortalate nel film The Game of Their Lives, flop hollywoodiano del 2005, molto mal ispirato all'ottimo libro dallo stesso titolo scritto dall'accademico Geoffrey Douglas. Il ruolo di Borghi nel film fu interpretato da Gerard Butler, famoso per "Phantom of the Opera". Desson Thompson del Wahington Post, nel recensire il film ha scritto: "Un giorno qualcuno farà un bel film sul calcio. Oggi non è quel giorno".
Joe Gaetjens non divenne mai cittadino americano. Non giocò nemmeno un'altra partita con gli USA dopo la sconfitta col Cile. Si trasferì in Francia dopo i Mondiali del 1950 e giocò per alcuni anni con Racing Club de Paris e Troyes, prima di tornare a casa, ad Haiti. Giocò per il suo paese in un match di qualificazione mondiale a Port au Prince contro il Messico nel 1953, sconfitta per 4-0, prima di ritirarsi per avviare una tintoria.
Undici anni dopo, l'8 luglio 1964, Gaetjens fu preso mentre era al lavoro dalla squadra della morte di Franà§ois 'Papa Doc' Duvalier, i Tonton Macoutes. "Joe non aveva un solo osso politico in corpo", ricorda Walter Bahr. Ma la sua famiglia sì, e il supporto dato agli oppositori della sanguinaria dittatura di Duvalier fu abbastanza per firmare la condanna a morte di Joe.
Gaetjens fu visto vivo per l'ultima volta due giorni dopo, nella famigerata prigione di Fort Dimanche, dove furono uccisi a migliaia. Il suo corpo non fu mai trovato. Nonostante il governo haitiano abbia emesso un francobollo in suo onore nel 2000, la sua famiglia è ancora impegnata in una campagna perché i dettagli della morte di Joe Gaetjens vengano resi pubblici.
Alex Leith
FourFour Two - April 2006 (pagg. 112-117)
FourFourTwo ringrazia Walter Bahr, Gino Pariani, Frank Borghi e Sir Tomas Finney per aver accettato di essere intervistati per questo articolo, e lo storico del calcio americano Colin Jose per il suo impagabile aiuto.
Traduzione a cura di Franco Spicciariello