Con il ritiro di Joe Sakic, il mondo dell'hockey perde un fuoriclasse sul ghiaccio e fuori
Ci sono giocatori superiori a qualsiasi rivalità , a qualsiasi colore della maglia, a qualsiasi simpatia o astio per una squadra. Sono pochi, pochissimi. Nel calcio delle nostre latitudini salta alla mente Paolo Maldini, che anche lui qualche settimana fa ha annunciato il ritiro dalle competizioni.
Nell'hockey nordamericano, nessuno meglio di Joe Sakic impersona la figura dell'atleta universalmente rispettato. Lassù c'è Joe Sakic, in compagnia di Steve Yzerman, un altro giocatore al di sopra di tutto e di tutti, un altro capitano dell'era moderna che ha fatto la storia di questo sport. Quaggiù ci sono tutti gli altri, magari più forti di loro da un punto di vista strettamente hockeystico, ma lontani anni luce a livello di rispetto generato indistintamente in tutte le tifoserie.
Non serve elencare tutti i trofei vinti in una carriera ventennale e snocciolare statistiche su statistiche per dimostrare che razza di fuoriclasse sia stato il capitano dei Québec Nordiques e, dopo il trasferimento a Denver, dei Colorado Avalanche. Joe Sakic, leader silenzioso, soprannominato "Quoteless Joe" per la sua timidezza di fronte a telecamere e microfoni, è stato superiore a qualsiasi statistica.
In un'epoca in cui le stelle dello sport sembra facciano a gara per essere sulle prime pagine dei giornali e sotto i riflettori per motivi che nulla hanno a che vedere con la disciplina che praticano, appena uscito dagli spogliatoi Sakic staccava la spina e diventava un comunissimo papà di tre figli. Quando si avvicinava o veniva raggiunta un'importante cifra tonda di reti, assist o punti e i giornalisti gli chiedevano un commento, Super Joe si limitava a rispondere: "Significa solo che ho avuto la fortuna di giocare tanti anni".
Sul piano sportivo, il suo polsino, devastante per precisione, potenza e soprattutto velocità d'esecuzione, andrà in pensione come il più letale dell'ultimo ventennio, forse della storia. Joe Sakic era semplicemente inarrestabile quando, con il bastone sulla sinistra, scendeva sull'ala destra e si accentrava. Per difensori e portieri avversari erano dolori.
Se gli infortuni lo hanno attanagliato solo nelle ultime due stagioni della carriera, quando ormai era vicino ai 40 anni, è perché ha sempre saputo prendersi cura del suo corpo, come un professionista esemplare. In questo senso, addirittura, Sakic ha precorso i tempi. Già verso la metà degli anni Novanta, infatti, il capitano delle valanghe sollevava pesi il mattino della partita, quando ancora non usava e, anzi, veniva considerato nocivo in vista dello sforzo serale sul ghiaccio. Oggi, quasi tutti lo fanno.
E chi crede che il Numero 19 non amasse il gioco duro, vada a rivedersi la finalissima del 2001 tra i Colorado Avalanche e i New Jersey Devils. Lo scontro continuo tra Joe Sakic e Scott Stevens, non esattamente un agnellino sacrificale, è stato forse il miglior duello personale nelle finali dell'ultimo decennio.
Ci sono almeno 1641 motivi, tanti quanto i punti collezionati sulle piste della National Hockey League, per decretare che Joe Sakic è stato uno dei miglior leader che la storia del disco su ghiaccio abbia conosciuto. Noi vogliamo chiudere con un'immagine: quella del capitano dei Colorado Avalanche che, ricevuta la Stanley Cup del 2001 dalle mani di Gary Bettman, invece di alzarla al cielo ebbro di gioia la passa a Ray Bourque, che aveva atteso una vita prima di riuscire a vincere quel maledetto trofeo.
Grazie, Capitano.