Da avversari se le sono suonate di santa ragione, ma insieme faranno paura a tutti.
Lo "scambio di canotte" tra Artest e Ariza ha destato un certo stupore in una free agency movimentata e ricca di spunti: non solo perché il fatto che due giocatori prendano contemporaneamente lo stesso sentiero, allo stesso prezzo, in due direzioni opposte è quantomai inusuale, ma anche perché è avvenuto tra la squadra campione ed una contender; andiamo quindi ad analizzare i rispettivi punti di vista su questa insolita "trade".
Vista da L.A.
Tra i tifosi angelini si sono accese vivaci discussioni riguardo a questa vicenda, e l'opinione prevalente è negativa: Ariza era uno dei beniamini dello Staples, non solo per il suo ruolo decisivo nella conquista dell'ultimo titolo, ma anche perché nato e cresciuto nella città degli angeli e dotato di un carattere gioviale, ottimista e coinvolgente (che aveva spinto qualcuno ad azzardare paragoni nientemeno che con Magic); Artest, per parte sua, è sempre stato uno dei "nemici pubblici" più avversati dai tifosi gialloviola, opinione non certo ammorbiditasi dopo i recenti, aspri confronti verbali e fisici con Kobe, in regular e ai playoffs.
Tralasciando il lato "umorale", le contestazioni dei detrattori sono molteplici e meritano di essere considerate separatamente, per valutare quanto può esserci di vero in ciascuna di esse:
Artest può destabilizzare lo spogliatoio
Commentatori ed opinionisti utilizzano spesso termini come "pazzo" o "matto" in relazione al comportamento degli sportivi professionisti: in realtà non è altro che un linguaggio figurato, per "colorare" e drammatizzare quelli che sono comportamenti semplicemente eccentrici o fuori dagli schemi.
Con Ron Artest, però, il discorso prende tutt'altra piega: in questo caso, infatti, stiamo parlando di un soggetto che soffre di reali disturbi clinici, e che si sottopone a cure specialistiche per il controllo della rabbia dalla tenera età di" otto anni; gli aneddoti sulle sue sfuriate, sulle vere e proprie "eruzioni" di furia cieca che hanno costellato la sua carriera, o quelli relativi alla sua storia personale tormentata dai peggiori quartieri popolari di NY, occuperebbero da soli lo spazio di un paio di articoli: il succo del discorso è che Artest è il giocatore più temuto dell'NBA, e "temuto" non in senso tecnico, ma in senso fisico, umano.
I suoi avversari, i suoi compagni, e persino i suoi allenatori hanno sempre avuto paura di lui, di quella bomba ad orologeria emotiva a rischio di detonazione in ogni momento, senza preavviso: come dice il suo amico ed ex compagno Marcus Fizer, "Se nel tuo cuore esiste la paura, non puoi non avere paura di quell'uomo".
Con queste premesse, come dare torto a chi sostiene che, nei delicati meccanismi psicologici di uno spogliatoio NBA, sostituire un carattere alla Ariza con un carattere alla Artest potrebbe avere effetti devastanti? A dire la verità , qualche elemento per confutare questa opinione c'è, a partire dal contesto, partendo dal fatto che Artest non è mai stato in uno spogliatoio come quello dei Lakers.
Kobe Bryant rappresenta al tempo stesso l'"Alpha dog" indiscusso e una delle figure che Artest ha sempre dichiarato di apprezzare maggiormente; Ron Ron ritroverà (verosimilmente) Lamar Odom, uno dei suoi pochissimi amici nel mondo del basket; senza dimenticare che tutti i fili emozionali e psicologici della banda giallo viola sono retti dalle capaci mani del diabolico puparo Phil Jackson, che da una vita non fa altro che smussare gli angoli ruvidi delle personalità più spigolose del basket NBA.
D'altronde, ed è probabilmente il fattore più importante, la storia umana e professionale di Artest nel suo complesso ci racconta di un soggetto sempre a rischio, sempre sull'orlo del burrone, ma la sua storia recente presenta al contrario un curriculum impeccabile: dopo l'esilio a Sacramento ha sempre tenuto un comportamento impeccabile, impreziosito dall'indiscussa stima di compagni, allenatori e tifosi.
Secondo chi gli sta vicino, il combustibile che incendia la sua rabbia è rappresentato dalla frustrazione, dalla sensazione di impotenza, di non poter essere padrone del proprio destino, che lo riporta agli anni bui in cui attorno a lui non c'era altro che disperazione, e nessuna via di fuga a parte la violenza.
Il parquet è la sua medicina, i Lakers (così come, in parte, i Rockets quest'anno) possono essere la panacea della sua anima tormentata: un contesto solido, ordinato, con gerarchie precise; un contesto che può fare comodo ad Artest, e a cui Artest può fare molto comodo: sono passati soltanto dodici mesi da quando Ron Ron, che seguiva le Finals da spettatore tifando smodatamente per i gialloviola, è entrato nello spogliatoio degli ospiti dopo la disfatta di Gara6 e ha detto a Kobe "Non ti preoccupare, perché tra poco arrivo io, e una cosa del genere non la permetterò".
Non ci sono abbastanza tiri per tutti
Negli ultimi anni, nonostante le differenti caratteristiche delle squadre in cui ha militato, i tentativi dal campo di Artest si sono sempre aggirati attorno ai 15 a gara: una cifra apparentemente inconciliabile con la distribuzione delle conclusioni in casa gialloviola, in cui c'è uno abbastanza famoso che la fa da padrone, e tra gli altri l'equilibrio regna sovrano, e nessuno ha superato i 13 a gara (Gasol 12.9, Bynum 10.0, Odom 9.0).
Andando più nel dettaglio, però, si può notare che i play dei Lakers hanno tentato complessivamente circa 15 tiri a partita (con scarsi risultati), ma le ali piccole circa 12, e che le splendide prestazioni di Ariza nelle Finals lo hanno visto concludere stabilmente tra le 12 e le 14 volte a gara, senza però incidere significativamente sui tiri tentati dai tre lunghi (e men che meno, come ovvio, del #24).
E' quindi più che fattibile "ritagliare" minuti (sottraendoli a Walton) e tiri (a discapito delle - contestabili - iniziative personali di Fisher e Farmar) soddisfacenti per Ron Ron, senza incidere sulle principali opzioni offensive dei Lakers; senza dimenticare che uno dei problemi endemici dei Lakers è sempre stato la "timidezza" dei role player a prendere con decisione i tiri creati dall'attacco (vedi Ariza e Walton in regular season): una sensazione che per Artest è quantomai aliena.
Artest non è adatto al Triangolo
La Triple Post Offense richiede fluidi movimenti con e senza palla, decisioni rapide, la ricerca costante dell'extra pass, del compagno meglio posizionato: Artest, al contrario, è tristemente noto per essere un "ball hog" con la tendenza ad arrestare la circolazione della palla con palleggi insistiti ed una angosciante selezione di tiro: un atteggiamento che può far deragliare qualsiasi attacco, e a maggior ragione un delicato meccanismo come quello perfezionato da Tex Winter, già messo a dura prova dalle "interpretazioni" di Kobe.
L'incognita più grande in tutta l'operazione è proprio quella di convincere Artest a mettere le proprie qualità al servizio del sistema di gioco, senza tentare di soddisfare la vocina interiore che gli dice che "nella mia categoria ci sono solo Kobe e LeBron", o che "LeBron James è solo una evoluzione di Ron Artest"; anche perché quel che gli manca è proprio la volontà , non certo la qualità , trattandosi di passatore educatissimo, in grado di battere dal palleggio e/o di dominare in post basso praticamente ogni avversario diretto (caratteristiche che Ariza assolutamente non possiede).
L'unica situazione di gioco che a Phil Jackson piace quanto una fluida circolazione di palla è la possibilità di costringere le difese a raddoppiare in post basso: con Artest in quintetto, i Lakers possono vantare quattro giocatori su cinque che, quando ricevono palla in post basso, comandano un raddoppio immediato; un lusso che nell'NBA non si vedeva non da anni, ma da lustri o addirittura decenni.
Inoltre, grazie alle splendide grafiche degli "hot spots" di NBA.com, è agevole notare che l'attacco dei Lakers tende a generare una grande quantità di tiri da tre in posizione diagonale (la tipologia di jumper più comune in casa gialloviola):
Sarà un caso, ma proprio quelle due postazioni solo le "mattonelle" preferite di Artest, che nella scorsa stagione ha tenuto percentuali superiori a quelle dei Lakers in generale (e di ogni singolo esterno giallo viola preso singolarmente):
If it ain't broken, don't fix it
"Squadra che vince non si cambia" non è altro che un abusato luogo comune, e come tutti i luoghi comuni non regge all'esame dei fatti: squadra che vince, quantomeno nella storia recente dell'NBA, si cambia eccome, anzi necessita di essere cambiata.
Nelle ultime sei stagioni, infatti, i campioni in carica hanno sempre scelto di mantenere praticamente inalterata la formazione vincente, e non sono mai riusciti a ripetersi (e nemmeno, con l'unica eccezione dei Pistons, a ritornare in finale): non può essere un caso.
La distanza tra le contender è minima, bastano un paio di mosse azzeccate per ribaltare i valori in campo, e tutte le principali avversarie dei gialloviola in ottica anello hanno iniziato la free agency aggiungendo tasselli importanti a squadre già temibili: rispondere a tono era un imperativo categorico per i lacustri, anche considerando che Artest aveva da tempo dichiarato di voler accettare la mid-level da una squadra da titolo, e le sue destinazioni possibili si riducevano a Cavs e Spurs: quanto avrebbe fatto male, alle speranze di titolo dei gialloviola, un quintetto Williams / West / Artest / James / O'Neal, oppure Parker / Ginobili (Jefferson) /Artest / Blair / Duncan?
Ariza è più giovane e più futuribile
Il vantaggio di età è un dato di fatto, ma per come sono costruiti i Lakers le prospettive a lunghissimo termine possono non essere una priorità immediata: le tre stelle gialloviola sono rispettivamente del '78 (Kobe), del '79 (Odom) e dell'80 (Gasol), e quindi hanno davanti a sé una "finestra" ideale da titolo di 2/3 anni.
In questo contesto impegnarsi in un futuro a lungo termine con Ariza sarebbe stata una mossa conservativa e senza grandi prospettive (un ipotetico quintetto costruito sul terzetto di coetanei Bynum-Farmar-Ariza è buono ma non certo da titolo), mentre l'inserimento di Artest (classe '79) calza perfettamente con l'idea di dare il tutto per tutto nella ristretta finestra temporale di cui parlavamo prima, per sfruttare fino all'ultimo il ciclo di Bryant prima di voltare pagina e ripartire da Bynum.
D'altronde, parlando di Ariza come giocatore futuribile e di Artest come giocatore fatto e rifinito, bisogna ricordare che Ariza, da qualunque parte la si guardi, rimane pur sempre un role player: può aspirare è un futuro alla Horry, da "jolly" in grado di essere la ciliegina sulla torta in una squadra da titolo, ma non di caricarsela sulle spalle come prima o seconda opzione; Artest è un giocatore di altra categoria, su entrambi i lati del campo, può crearsi un tiro da solo sia frontalmente che in post basso, e al tempo stesso può difendere contro qualsiasi giocatore NBA sopra il metro e 90 e sotto i due e 10.
Ma la "dote" principale che Artest porta ai Lakers è la sua grinta inenarrabile, la sua ossessione di dare tutto sé stesso in qualsiasi partita, sia in stagione regolare che quando, durante le vacanze, affronta con il nickname "Tru Warier" o "Apocalypto" tutti i tornei di streetball della grande mela, conquistando il pubblico (normalmente freddino verso le "fighette" NBA, ma che per lui stravede) grazie ai suoi tuffi sui palloni vaganti (sul cemento).
I Lakers sono spesso stati etichettati come "soft", ma il loro vero problema, la loro più grave carenza, è rappresentata dalla loro mancanza di durezza non fisica ma mentale: il loro talento sembra spesso andare sprecato a causa di una inspiegabile svagatezza, di una sorprendente difficoltà di concentrazione, di clamorosi quanto ricorrenti vuoti di memoria e di identità : gli sguardi carichi d'odio e le parole al fiele di Kobe possono fungere da sferza, ma possono anche cadere nel vuoto.
Con Artest questo non può succedere, a pena di dolorose ritorsioni fisiche, nel senso più vero del termine: se c'è una caratteristica che Artest può insegnare a chiunque, per cui è naturalmente portato, è la necessità di dare tutto non solo in ogni partita, ma anche nell'ultimo minuto del più inutile degli allenamenti, perché altrimenti si rischia di pagare un prezzo fisico salatissimo; se c'è una qualità che ogni giocatore è portato a sviluppare accanto ad Artest, è la voglia di non abbassare la tensione, di non concedersi pause, di tenere il passo con la sua rabbiosa, ossessiva, disturbata visione secondo cui ogni azione è un problema, letteralmente, di vita o di morte.
Vista da Houston
In casa Rockets c'è un'ombra che si annida dietro l'intera operazione, un'ombra cinese di due metri e trenta.
Quando Yao Ming si è visto costretto a rinunciare ai playoffs per una frattura da stress all'interno del suo piedone (nello stesso osso che aveva già costretto Yao a saltare una buona parte di stagione l'anno passato), i medici hanno ingessato la sua preziosa estremità , prevedendo un tempo di guarigione tra le 8 e le 16 settimane: alla prima visita di controllo, dopo circa un mese e mezzo di riposo, si sono però resi conto con orrore che non solo la frattura non stava iniziando a rimarginarsi, ma si era addirittura aggravata, estendendosi da una parte all'altra del piede.
La situazione è così preoccupante che, allo stato, il fatto che la sua stagione 2009/2010 sia già finita è uno scenario quasi rasserenante per i tifosi, visto che c'erano fondati sospetti (e non sono stati spazzati via del tutto) di aver già assistito alla partita d'addio del cinesone.
Non è difficile immaginare lo sconforto che una simile disgrazia possa aver portato nella dirigenza texana, che in poche settimane è passata da una squadra in grado di tenere botta egregiamente contro i futuri campioni del mondo, ad una situazione le cui stelle più brillanti potrebbero restare in borghese per tutta la stagione (anche McGrady, per tener fede ai luoghi comuni, è reduce dall'ennesima, delicata operazione chirurgica della sua carriera, e i suoi tempi di recupero non sono mai prevedibili): anziché abbattersi, però, Morey e i suoi hanno semplicemente sfruttato l'elasticità salariale del proprio roster, cambiando radicalmente strategia nel prossimo futuro, e passando da immediata contender a squadra in ricostruzione.
E' evidente che in questo contesto non poteva esserci più posto per "Crazy Pills" Artest: il suo matrimonio con i Rockets è stato breve ma significativo, lasciando ottimi ricordi nel pubblico (per cui Ron Ron era un idolo indiscusso), ma Artest vuole il titolo e i Rockets vogliono talento giovane con cui ripartire: il connubio non poteva proseguire.
Per ripartire, Houston ha scelto Ariza, ma non è stata una ripicca o una scenata di gelosia nei confronti della "blitzkrieg" con cui L.A. ha firmato Artest: Morey è il precursore della nuova generazione di tecnici, che non decidono in base all'emotività , ma solo facendo affidamento alle statistiche avanzate che custodiscono gelosamente; dev'esserci stato qualcosa, in quelle cifre, a suggerirgli che Ariza fosse il tassello giusto per il nuovo corso: il più interessante tra i free agent giovani (o il più giovane tra i free agent interessanti, s'il vous voulez), Ariza porta in dote un'attitudine difensiva perfetta per gli schemi difensivi dei Rox, una abilità da contropiedista che può far divertire il pubblico nelle sfuriate con Brooks e Lowry, la sicurezza nei propri mezzi di chi ha già vinto un titolo, e ha già dimostrato di non tremare nei momenti decisivi.
Quello che Ariza toglie, rispetto ad Artest, è la capacità di crearsi un tiro da solo, e con l'assenza di Yao e Tmac si tratta di un handicap non da poco: Houston ha messo su un eccellente nucleo giovane Brooks-Lowry-Ariza-Landry, supervisionato dalla "chioccia" Battier, ma per tirarne fuori un quintetto da playoffs nella Western Conference è necessario trovare almeno un lungo ed un esterno con tanti punti nelle mani, perché nessun componente del gruppetto di cui sopra è in grado di generare attacco da solo contro un avversario diretto di medio-alto livello NBA (l'esatto contrario, come detto in precedenza, della nuova conformazione dei Lakers).
Si tratta comunque di un nucleo giovane, economico, tatticamente versatile e disciplinato, tecnicamente completo, atleticamente brillante e difensivamente di primissimo livello: per quest'anno ci si può accontentare, anche perché un settimo/ottavo posto nel seeding resta un obiettivo plausibile (non dimentichiamoci che senza Yao e Tmac, senza Ariza, con un Brooks esordiente e un Artest in versione "qui mi hanno lasciato solo, quindi la cosa migliore è palleggiare per 20'' e poi tirare da tre con l'uomo addosso", questa squadra ha chiuso 2-2 una sorta di mini-serie con i Lakers) sperando che almeno una delle tre guardie scelte all'ultimo draft cresca bene, e guardando con fiducia alla fatidica free agency 2009.
Ad un anno da oggi, nella migliore delle ipotesi i Rockets avranno un anno di esperienza in più in saccoccia, una nuova prima scelta di buon livello (ai confini della lotteria), un Yao Ming tirato a lucido e abbastanza spazio salariale da andare a caccia di un FA di quelli che spostano (Bosh potrebbe essere l'obiettivo principale): nella peggiore, Yao si sarà ritirato lasciando un enorme vuoto nell'area pitturata e nel cuore di chiunque ami il basket, ma potranno offrire il massimo salariale a due giocatori di primo piano, inserendoli in un contesto rodato e vincente.
Per una squadra che ha appena perso il suo giocatore-franchigia, potrebbe andare peggio.
[UPDATE: pare che l'NBA abbia concesso ai Rockets la "Disabled Player Exception" (attribuita a chi accusa un giocatore infortunato per almeno un anno, e corrispondente alla cifra più bassa tra il 50% del salario del lungodegente e la MidLevel Exception); questo permette a Houston di portarsi a casa Ariza sostanzialmente gratis, utilizzando proprio la DPE, e potendo sfruttare la MLE su altri obiettivi; d'altra parte mette anche la parola "fine" in calce ad ogni speranza di vedere in campo Yao prima dell'autunno 2010, ma, come detto, era un esito più che previsto]