Portieri: soli contro tutti

Martin Brodeur, l'ultimo baluardo dei Devils

Nel mondo dello sport, i confronti tra campioni, magari di epoche diverse, hanno riempito i bar e i salotti di molti appassionati. Chi non ha mai sostenuto Pelé o Maradona nel dibattito su chi sia stato il più grande calciatore di tutti i tempi? Chi, tra gli appassionati di hockey su ghiaccio, non ha mai perorato la causa di Wayne Gretzky o Mario Lemieux al momento di eleggere il migliore della storia?

La recente conquista della cinquecentesima vittoria nella NHL da parte di Martin Brodeur è una ghiotta occasione per riproporre il giochino con gli estremi difensori che hanno segnato la storia recente del campionato più bello del mondo e, perché no, per lanciare il dibattito tra i lettori. Dibattito che, a prescindere dalle opinioni espresse, non può avere né vincitori né vinti, tanto immensa è la grandezza dei portieri in questione.

Gli estremi difensori che hanno segnato gli ultimi vent'anni sono sostanzialmente quattro: Ed Belfour, Dominik Hasek, Martin Brodeur e Patrick Roy, tutti ancora in attività  tranne quest'ultimo. Belfour, Hasek e Roy sono coetanei (classe 1965), mentre Brodeur è il più giovane tra i "candidati", essendo nato nel 1972.

Ed Belfour, mai draftato, porta il suo immenso talento e il suo insopportabile carattere nella NHL verso la fine degli anni '80, quando i Chicago Blackhawks gli sottopongono un contratto. Non se ne pentiranno.

Dopo due campionati trascorsi con il farm-team della IHL (Saginaw Hawks), nel 1990-91 Belfour approda definitivamente alla "casa madre" e porta a termine quella che molti addetti ai lavori considerano la migliore stagione da rookie di un portiere di tutti i tempi. Gioca 74 partite e ne vince 43, aggiudicandosi in un colpo solo il Calder Trophy come miglior debuttante e il Vezina Trophy come miglior portiere.

Il suo stile, a tratti molto spettacolare, denota un'incredibile capacità  di coprire gli angoli bassi della porta, il che rende un'impresa trafiggerlo nelle concitate mischie a pochi metri dalla gabbia, quando la necessità  di velocizzare l'azione annulla la possibilità  di alzare il disco sotto la traversa con un polsino pulito.

È soprattutto grazie a lui che i Blackhawks nel 1992 raggiungono la finalissima perdendola contro i Pittsburgh Penguins di Mario Lemieux, Ron Francis e Jaromir Jagr. Ma è in Texas, con la maglia dei Dallas Stars, che Belfour si merita di diritto la nomination tra i migliori portieri di sempre. The Eagle, come è soprannominato per l'aquila che da sempre orna le sue maschere, è la ciliegina sulla torta di un impianto difensivo perfettamente organizzato da Ken Hitchcock, l'attuale tecnico dei Columbus Blu Jackets.

Dopo una stagione straordinaria sul piano personale (1.88 reti subite a partita e 91,6% di parate nel 1997-98) ma stoppata dai Detroit Red Wings nella finale della Western Conference, nel 1998-99 i Dallas Stars raggiungono la finale contro i Buffalo Sabres di Dominik Hasek. Belfour compie il suo capolavoro in un'epica sfida contro il portiere ceco in Gara 6, conclusasi al terzo tempo supplementare con una contestatissima rete di Brett Hull.

Le ali dello straordinario talento di Belfour sono però spesso state tarpate da una serie di intemperanze che hanno rischiato di minarne la carriera. Hanno fatto storia gli screzi con i suoi vari portieri di riserva, su tutti proprio Hasek e Jeff Hackett a Chicago e Marty Turco a Dallas. E anche fuori dal ghiaccio, The Eagle si è spesso reso protagonista di risse nei bar e di ritiri della patente per guida in stato di ebbrezza.

Dopo un paio di buone stagioni a Toronto e un campionato discreto ma discontinuo perché ostacolato da problemi cronici alla schiena in Florida, oggi Belfour milita nel Leksands, nella serie B svedese, dove ha portato in dote due Vezina Trophy, un Calder Trophy e una Stanley Cup.

Pur avendo dovuto fare le valigie da Chicago in seguito agli scontri con Belfour, Dominik Hasek non è certo un agnellino, anzi. Di lui è stata più volte discussa la poca voglia di sacrificarsi per il bene della squadra. Un episodio, in particolare, torna alla memoria.

Si gioca la stagione 1996-97 e il fuoriclasse ceco è in aperta polemica con l'allenatore dei Buffalo Sabres, Ted Nolan, ora sulla panchina dei New York Islanders. Durante Gara 3 del primo turno dei Play Off contro gli Ottawa Senators, Hasek abbandona il ghiaccio di sua spontanea volontà  lamentando un dolore al ginocchio. Non rientrerà  più e i suoi Sabres, con Steve Shields tra i pali, verranno estromessi al secondo turno dai Philadelphia Flyers. Più di un giornalista accusa l'estremo difensore di aver simulato l'infortunio per danneggiare Nolan. Uno di questi cronisti, Jim Kelley del Buffalo News, viene addirittura aggredito da Hasek.

Quando gioca, però, il portiere di Pardubice, soprannominato Dominator, vale da solo il prezzo del biglietto. Il suo stile di gioco poco ortodosso è spettacolo allo stato puro e terribilmente efficace. Non di rado abbandona il bastone per bloccare il disco con il deviatore, anziché con il guantone. La sua concentrazione è a prova di bomba, la flessibilità  nella spaccata degna di un contorsionista e superiore a quella di qualsiasi altro collega. Spesso, quando perde di vista il puck, lo si vede steso sul ghiaccio immobile a pancia all'aria e a braccia larghe, in attesa che l'arbitro arresti il gioco.

Le partite più memorabili le gioca con le sciabole di Buffalo. Porta di peso i compagni in finale nel 1999 e nei nove anni trascorsi all'umido delle cascate del Niagara colleziona qualcosa come sei Vezina Trophy. Ma è a Detroit Red Wings, dove approda alla vigilia della stagione 2001-02, che assapora il primo successo di squadra, l'agognata Stanley Cup, alla quale contribuisce con ben sei shutout nei Play Off.

Dopo ritiri annunciati e poi revocati e un passaggio radente in quel di Ottawa, il Dominator continua a vestire la maglia dei Red Wings. La brillantezza, tuttavia, non è quella di un tempo e benché le ali rosse in molte partite riescano a tenere l'attacco avversario sotto i venti tiri, qualcuno di troppo perfora la muraglia ceca, che spesso ha dovuto lasciare il posto a Chris Osgood.

Nessun portiere come Martin Brodeur è mai riuscito a forgiare uno stile traendo il meglio dal tipico (e faticoso) stile a farfalla franco-canadese e dal meno aggressivo stile europeo. Molto più eretto di altri estremi difensori al momento di fronteggiare un tiro, il fuoriclasse dei New Jersey Devils passa al classico "butterfly" quando l'avversario lo impegna da vicino e, in particolare, quando si trova dietro la sua porta.

Questo perfetto mix tra le due correnti, con l'aggiunta di un guanto sicurissimo e di una tecnica di bastone degna del miglior difensore hanno fatto diventare Martin Brodeur lo scoglio al quale spesso i Devils si sono aggrappati nei momenti di tempesta. Non sempre, infatti, i diavoli hanno potuto contare su una difesa apparentemente imperforabile come quella della seconda metà  degli anni '90.

Eppure, anche negli anni di magra per la sua squadra, le statistiche di Brodeur, sicuramente il più regolare dei nostri quattro candidati, sono sempre state straordinarie. La stagione 1993-94, la prima completa in NHL, resta una delle migliori. Grazie al loro giovane portiere, i Devils raggiungono la finale della Eastern Conference dove vengono sconfitti dai New York Rangers in una delle serie più emozionanti della storia.

A partire dal campionato successivo, accorciato dallo sciopero, occorre ammettere che Brodeur ha un preziosissimo alleato al suo fianco, la famigerata trappola di Jacques Lemaire, un sistema di gioco che prevede il ripiegamento immediato del centro e delle due ali a formare una sorta di rango a centropista, che obbliga gli avversari a lanciare il disco a palombella sulle balaustre di fondo, dove Scott Niedermayer, Scott Stevens e compagnia anticipano regolarmente le ali rivali.

Brodeur è forse uno dei principali artefici della "trap". Grazie alla sua straordinaria abilità  nel giocare il disco dietro la porta, può dare man forte ai colleghi di difesa nel recuperare i puck spediti alle sue spalle dagli attaccanti avversari. La media di reti subite a partita migliora sensibilmente, mentre la percentuale di parate in qualche occasione si attesta appena sopra il 90%, segno che anche i tiri da parare sono diminuiti.

Brodeur è quindi lo straordinario punto di riferimento di una straordinaria difesa, un connubio imbattibile che nell'argo di otto anni regala tre Stanley Cup ai tifosi di Newark. Quest'anno, con la partenza di Brian Rafalski, Martin è rimasto l'ultimo esponente di quella che probabilmente è stata la miglior retroguardia della storia. Ma dall'alto dei suoi (per il momento) tre Vezina Trophy, non si dà  per vinto, e continua la rincorsa al record di 551 vittorie detenuto da Patrick Roy.

Ed eccoci proprio a lui, Patrick Roy.
Il portiere di Sainte-Foy ha segnato un'epoca ed è indiscutibilmente il papà  del portiere moderno, il primo a perfezionare e applicare nella NHL lo stile a farfalla, presentato negli anni '50 da Glenn Hall ma subito bollato come controproducente. Roy dimostra invece che, se accompagnato da una buona dose di riflessi, il "butterfly" consente di coprire alla perfezione i tiri rasoghiaccio e di spostarsi molto più velocemente da un palo all'altro.

In tutto il mondo, una generazione di portieri cresce nel mito dell'attuale proprietario e allenatore dei Québec Remparts. Il canadese Carey Price dei Montréal Canadiens e lo svedese Henrik Lundqvist dei New York Rangers, per citare solo due nomi, sembrano fotocopie del "maestro".

Roy non ha avuto bisogno di periodi di apprendimento nella Lega più competitiva del mondo. Scaraventato nella NHL nel 1986 a soli 20 anni, Roy trascina praticamente in solitaria i Montréal Canadiens alla Stanley Cup, ripetendosi nel 1993 con una squadra che secondo i pronostici avrebbe dovuto lottare per qualificarsi ai Play Off. Passato non senza polemiche ai Colorado Avalanche, Roy ha poi l'opportunità  di giocare con una squadra più competitiva e aggiunge altre due Stanley Cup alla sua invidiabile bacheca.

Le statistiche di Regular Season di Patrick sono ottime ma non fantascientifiche. Ma Roy, più di qualsiasi altro portiere, è un animale da Play Off, si esalta nel momento topico della stagione, come dimostrano i tre Conn Smythe Trophy vinti quale MVP della post-season e, soprattutto, i 40 overtime conclusi da vincitore su 58 giocati. Brodeur, per esempio, deve accontentarsi di dieci tempi supplementari vinti su 29.

La sua forza è la sicurezza in sé stesso, che spesso travalica in arroganza, un'arroganza alla Zlatan Ibrahimovic per intenderci. Leggendario il suo occhiolino a un attonito avversario dei Los Angeles Kings dopo l'ennesima, strepitosa parata nelle finali del 1993.

Roy ha giocato quasi un decennio della sua carriera in un'era in cui la mentalità  offensiva era più spiccata (si segnava mezzo gol a partita in più di adesso) e, per giunta, in squadre che, tranne i Colorado Avalanche degli ultimi anni, non avevano nella difesa il loro punto di forza. In questo senso, è incredibile il fatto che il 40% delle sue 551 vittorie sia arrivato in partite in cui ha subito più di trenta tiri, contro il 23% di Brodeur. Occorre considerare, infine, che Roy non ha potuto contare sui tempi supplementari e i rigori nella Regular Season, una regola che avrebbe potuto trasformare buona parte dei suoi 131 pareggi in vittorie e proiettarlo ben oltre le 600 partite vinte.

Ed Belfour, Dominik Hasek, Martin Brodeur e Patrick Roy.
Quattro portieri che hanno scritto (e che in parte continuano a scrivere) la storia moderna dell'hockey su ghiaccio. Chi è il più forte?

Tutti hanno ragione. Tutti hanno torto. Ma di sicuro sono quattro fuoriclasse che, insieme a pochi altri eletti (Mike Richter, Grant Fuhr) hanno contribuito a creare il mito di uno dei ruoli più affascinanti dello sport in generale.

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