Ken Griffey Jr, il ventesimo giocatore della storia a battere almeno 500 hr
Tutto il mondo è paese…
Ce lo sentiamo dire spesso, magari da quei vecchietti i quali, assisi all’ingresso del bar della piazza, bicchiere di spuma e la “rosea” di ordinanza, si divertono a commentare sarcasticamente qualunque argomento solletichi la loro attenzione, alla maniera dei pari età del Muppet Show, a metà degli anni Ottanta.
O magari, a chi non fosse abituato a frequentare i Bar Sport dello stivale, preferendo invece tenersi aggiornato sui fatti e gli eventi di strettissima attualità , potrebbe capitare di imbattersi in un simile luogo comune, grazie al Tg Studio Aperto, la Mecca, per i cultori del nazionalpopolare (o del trash più bieco se preferite…), subito prima del servizio (un must) sui Beagle rapiti, ed immediatamente dopo l’inevitabile aggiornamento sugli amori del giovane Coco, già cursore di fascia sinistra.
Ragionando però, sul fondo di veridicità che ogni buon luogo comune contiene, può capitare di stupirci nel riscontrare, come direbbe qualcuno, che l’oceano si fa sempre più stretto, soprattutto, quando si va a toccare un settore in cui, per una volta, noi italiani sentivamo di “vantare” un sorta di primato assoluto: quello della “non riconoscenza” nei confronti dei grandi campioni (soprattutto quando le loro prestazioni cominciano ad accusare un cedimento).
Se in Italia infatti, ogni campione degno di questo nome, deve tenersi pronto ad essere considerato morto e sepolto (sportivamente parlando) almeno quattro/cinque volte in una carriera, salvo poi venir celebrato come rinato alla prima prestazione decente, negli Stati Uniti, per diversi motivi che non è qui il caso di affrontare, si tende ad avere un maggiore rispetto per i giocatori della propria squadra, soprattutto quando sono “prodotti locali”, stimati membri della collettività e soprattutto grandissimi campioni.
Dovrebbe essere il caso di Ken Griffey Jr..
Dovrebbe.
Junior tra i più grandi (alcune cifre)
Con il fuoricampo battuto al Busch Stadium contro Matt Morris, nella vittoria per 6-0 dei suoi Cincinnati Reds ai danni dei padroni di casa dei St. Louis Cardinals, Ken Griffey Jr. è diventato il ventesimo giocatore a raggiungere quota 500 home runs, un traguardo che, nonostante la tendenza degli ultimi anni a volerne ridimensionare l’importanza, rappresenta un fondamentale viatico per l’ingresso nella Hall of Fame.
Già , la Hall of Fame…quella a cui Griffey sembrava destinato sin dalla sua prima stagione tra i professionisti, quando con 16 fuoricampo guidò la nidiata di rookies, producendo cifre molto simili a quelle di Willie Mays.
438 i suoi home runs nelle prime dodici stagioni, con la vera e propria esplosione in qualità di slugger nel 1993, quando diede inizio ad una serie di sette campionati consecutivi da almeno 40 fuoricampo, battendone uno in ben otto partite consecutive. Dal 1997 al 1999, gli anni del vero e proprio dominio assoluto da parte di Griffey, si segnala come leader della American League, diventando il sesto giocatore a riuscirci per tre anni consecutivi.
Il più giovane giocatore a raggiungere quota 350, 400 e 450, Griffey viene eletto giocatore del decennio, nonché uno dei giocatori più forti del secolo scorso e sono in pochi a non pensare che sia il più credibile attentatore al record assoluto di fuoricampo detenuto da Hank Aaron. Le sette stagioni in cui si aggiudica il Silver Slugger Award e il Gold Glove, non fanno altro che rafforzare la sua posizione di miglior giocatore delle majors, mentre la partecipazione ad una puntata della terza stagione di “the Simpsons” assieme a stelle quali Darryl Strawberry, Jose Canseco, Ozzie Smith, Rogers Clemens, per citarne alcune, ingaggiate per la squadra di softball del signor Burns, mandano in sollucchero coloro che alla passione per il baseball, affiancano il culto dei “gialli” ideati da Matt Groening.
Nel 2000, la trade che dai Mariners lo conduce a Cincinnati, nella squadra in cui aveva militato con profitto suo padre, Ken Griffey Sr., chiude il campionato con 40 fuoricampo e 118 runs, ma da quel momento, una serie di gravissimi infortuni (da alcuni gravi strappi muscolari, alla rottura del tendine della caviglia che nel luglio scorso ne ha prematuramente chiuso la stagione) ne fiaccano l’incedere nella sua arrampicata nella classifica dei fuoricampisti, tanto che sono solo 43 i blasts colpiti da Jr. dal 2001 al 2003.
Da qui il rimpianto, per un fenomeno del giro di mazza, fermato nel pieno della propria carriera, mentre stava producendo (nelle cinque stagioni precedenti al 2001) ben 49.8 homers di media, una cifra che salvo crolli verticali, avrebbe permesso a Griffey di dedicare al padre seduto in tribuna, assieme a tutta la famiglia, il raggiungimento di un traguardo ben più prestigioso, quello dell’ingresso nel ben più elitario club dei 600.
Con Jr. senza “se” e senza “ma” (“m’avete preso per un c****one” “ma no! sei un eroe!”).
Se spesso, l’innata retorica degli sportivi, li porti a dichiarare che certi risultati non rappresentino un punto di arrivo bensì un punto di partenza, un simile punto (pardon…) di vista potrebbe risultare del tutto condivisibile nel caso di Ken Griffey, apparso in questa prima parte di stagione, completamente recuperato, seppur già passato in infermeria ad inizio campionato, a seguito di un tuffo effettuato per eseguire un out.
“Non avrei mai immaginato di arrivare a 500…mio padre ne ha battuti 152 ed è sempre stato il mio idolo…mi ha insegnato a giocare e lo fa ancora…”, dichiarava un Junior decisamente emozionato ma anche rilassato per aver archiviato, in tempi relativamente brevi la questione “quando e dove colpirà il numero 500” cui erano interessati soprattutto media e tifosi.
Ed ecco la nota dolente: proprio la vicinanza di un simile risultato, ha portato un certo entusiasmo tra le fila della tifoseria dei Reds, un entusiasmo che probabilmente, la buona stagione della franchigia di Cincinnati avrebbe dovuto comunque destare. Certamente la grande partenza di Griffey, saldamente tra i leader offensivi della National, sta aiutando i Reds a restare in corsa in una division in cui sembrano esserci squadre meglio attrezzate, ed i 39.000 che venerdì scorso hanno affollato il Great American Ball Park, per assistere alla apposizione di una “targa commemorativa” nel muro che delimita l’esterno centro, zona di competenza del festeggiato, sembrano aver sancito definitivamente la pace tra i tifosi ed un campione, troppo spesso dileggiato per motivi fuori dal proprio controllo.
“Speri sempre di tornare a casa e fare bene…purtroppo gli ultimi tre anni e mezzo sono stati molto duri…” dichiarava il numero 30 dei Reds, ribadendo poi di non aver alcuna intenzione di lasciare Cincinnati, mettendo così fine alle voci di una possibile trade che lo avrebbe visto coinvolto. “Questa squadra può fare bene e presto potremo vincere…”.
Rinnovato entusiasmo anche per Griffey dunque, finalmente in grado di giocare ai livelli che gli sono più consoni, al punto che alcuni, timidamente, hanno ricominciato a fare un pensierino al record di Aaron, se è vero che in molti, tra i più prolifici battitori di fuoricampo, si sono distinti per aver avuto le proprie migliori stagioni a metà dei 30 anni. Mays ha battuto più di 200 homers passati i 34 anni, mentre proprio Aaron, ha avuto grandi stagioni in vista dei 40.
Difficile dire dove si assesterà Ken Griffey, quello che è certo è che un po’ di fortuna e qualche stagione libera da infortuni, così da poter produrre cifre decenti, dovrebbero consentirgli di arrivare tranquillamente a quota 600, vetta da far girare la testa, anche in un’era caratterizzata dai power sluggers come quella attuale.
No! Il dibattito no!
Così esclamava Nanni Moretti e così verrebbe voglia di gridare anche a noi, nell’assistere, sulle varie testate giornalistiche americane, alla discussione, così tanto italiana e così tanto da bar, riguardo al fatto se 500 home runs siano “ancora” una cifra in grado di garantire l’ingresso nella Hall of Fame.
Premesso che è nostra opinione che qualunque sportivo arrivato a certi livelli, prediligerà sempre e comunque la vittoria (in questo caso, quella della propria squadra) ad un riconoscimento individuale e che difficilmente qualcuno possa giocare per le proprie statistiche individuali (soprattutto in uno sport come il baseball che le statistiche tende a sporcarle…), ci sentiamo di definire certe discussioni quantomeno “lontane dallo spirito del gioco”.
Le mille ragioni tra cui pescare, per l’improvvisa esplosione di fior di battitori tra quelli delle ultime generazioni, possono essere ridotti schematicamente ad alcuni settori guida: materiali, ballparks, preparazione e alimentazione, pitchers e doping. Escludendo l’ultimo, in quanto argomento complesso nonché spinoso work in progress per i legali delle majors dopo lo scandalo BALCO che ha visto coinvolto, tra gli altri, anche Barry Bonds, viene naturale affermare, senza aver ambizioni di aver scoperto alcunché, che certe discussioni, sembrano lasciare il tempo che trovano: discutere se un giocatore sia meritevole o meno della Hall of Fame perché “oramai battere 500 fuoricampo è diventata ‘la norma’” risulta, oltre che poco elegante nel caso principe di questi giorni, quello di Fred McGriff dei D-Rays, addirittura ridicolo in quello di Griffey Jr.
Come ha dichiarato Adam Dunn, “chi pensa che siano ‘solamente’ 500 fuoricampo, non capisce molto di baseball, secondo me…”. Giusto, ma non si tratta solo di questo. Ogni giocatore deve essere valutato per quello che ha prodotto in relazione alla sua epoca. McGriff, gran giocatore, raggiungerà a giorni quota 500 e si riaccenderà il partito di quelli che lo ritengono degno di finire a Cooperstown e come di coloro i quali pensano che per entrarvi dovrebbe fare la fila al botteghino.
Discutere Griffey Jr. solo perché alcuni infortuni ne hanno rallentato la carriera impedendoci di assistere ad un testa a testa tra lui e Barry Bonds per la successione al trono di Aaron diventa un mero esercizio dialettico, soprattutto se si tiene conto di quello che l’uomo soprannominato “the Kid” significa per gli appassionati del gioco. Attestati di stima sono arrivati da ogni parte degli Stati Uniti, e se colui che è considerato il miglior all around player degli ultimi anni, quell’Alex Rodriguez che con Griffey ha giocato per sei anni a Seattle, lo definisce “il miglior giocatore che abbia mai visto”, a noi piace sposare la frase dell’analyst della ESPN, Jim Caple, quando sostiene che “il Baseball è un posto migliore, quando Junior è in salute”.
Game set and match dunque, perché a prescindere dai McGriff, o i Gonzalez, o i Jeff Bagwell che potranno raggiungere certe (comunque) importanti cifre, Junior resterà nella storia del gioco come uno dei suoi più grandi interpreti, uno che ha segnato un decennio e che ha lasciato esterrefatti tifosi e avversari per il suo incredibile talento, le sue prestazioni, e soprattutto per il suo approccio: “Quando giochi duro finisci per infortunarti…se mi fossi fatto male in altri modi, avrei potuto ragionare con i ‘se’, ma vado in campo con un solo obbiettivo, ovvero giocare duro e dare il massimo: se questo significa che devo tuffarmi contro il muro per prendere una palla, lo farò…è così che ho sempre giocato…dando il cento per cento”.
Basta con le facezie per cortesia.
Il campione è tornato.