Drew Brees, grandissimo protagonista del Superbowl, festeggia con suo figlio Braylon sul palco di Miami.
Alla fine ha vinto lui, rifacendosi degli ultimi due anni in cui al termine della stagione regolare il premio come Most Valuable Player è andato al suo avversario, e grande amico, Peyton Manning, uscito doppiamente sconfitto dal Superbowl proprio in favore di Drew Brees, il ragazzo texano che più di ogni altro sta infiammando la National Football League.
Ha vinto lui, ha vinto il quarterback che ha sbagliato meno nella notte più importante del football, nell'atmosfera magica di una Miami che ha visto, dopo decenni, sfidarsi le due migliori squadre della regular season, due potenze mosse da spiriti e caratteristiche diverse, da un lato l'esperienza, dall'altro una prima volta armata della voglia di riscatto di un popolo, di un'intera nazione distrutta quattro anni e mezzo fa dal terribile uragano Katrina.
Una tragedia che ha visto Brees, appena arrivato a New Orleans dopo l'addio ai Chargers, muoversi in prima persona per portare il suo aiuto agli sfollati e alle tante persone che avevano perso tutto, ritrovandosi senza niente, nemmeno un tetto sopra la testa.
Ce lo ricordiamo ancora oggi, come fosse ieri, quelle scene che ti mettevano i brividi solo a guardarle via satellite, e ci ricordiamo anche la gioia del ritorno a casa dei Saints nel 2006, dopo un anno passato a girovagare per gli States mentre il Superdome fungeva da casa per i tanti senzatetto.
Un ricordo doloroso e allo stesso tempo commovente, pensando alla promessa che sottovoce Drew e compagni hanno fatto ai loro tifosi, una promessa diventata realtà dopo quattro lunghe stagioni passate a rincorrerla, dopo mille peripezie e un torneo 2009 giocato ai massimi livelli, dove i Saints sono stati accompagnati dalla fortuna, si, ma ci hanno messo anche tanto, tantissimo, del loro, a cominciare da un carattere mai domo che gli ha permesso di rimontare anche nelle partite più difficili.
Rimonte decise, avvincenti, come le rivincite del loro leader, che nelle ultime stagioni in Louisiana si è tolto tantissimi sassolini dalle scarpe, soprattutto verso chi ha avuto una fretta esagerata nello scaricarlo, San Diego, e chi non ha creduto in lui quando senza contratto cercava una squadra dove ricominciare; per fortuna di New Orleans, l'allora neo allenatore Sean Payton riuscì a trovare le armi giuste per convincerlo ad accettare l'offerta dei Saints: ricostruire una squadra, ricostruire un popolo.
C'è da scommettere che nella bolgia di Bourbon Street il suo nome sarà stato uno dei più acclamati, dopo una partita che ha consacrato ancora una volta il suo enorme talento, costruito sulle sue grandi doti atletiche, ha raggiunto ottimi livelli in diversi sport, e su un'intelligenza tattica che in NFL ha pochi pari, senza poi dimenticare una meccanica di lancio al limite dell'eccellenza, precisa, potente, e allo stesso calibrata.
Lanci, tanti, su cui ha costruito la sua nuova carriera in Louisiana e che hanno contribuito a creare il fenomenale attacco dei Saints, diventato letale contro i passaggi proprio grazie alle grandi doti del suo quarterback, un uomo che aveva un DNA vincente già da ragazzino, quando concluse la sua carriera liceale nella Westlake High School di Austin, Texas, con nessuna sconfitta a fronte di 28 trionfi ed 1 partita pareggiata.
Numeri che ha faticato a replicare al college nella gloriosa Big Ten, dove è comunque riuscito a portare ai fasti di un passato remoto i Purdue Boilermakers, guidandoli al Rose Bowl al termine della stagione 2000, l'ultima giocata a livello universitario, e conclusa con in mano il Maxwell Award come miglior giocatore NCAA dell'anno; un premio che funge da conferma al titolo di Big Ten MVP e che giustifica la sua rincorsa all'Heisman Trophy, dove chiude sul gradino più basso del podio dopo essere arrivato quarto nel 1999.
Le luci della ribalta godute a livello collegiale non sembrano però accompagnarlo nei primi anni in NFL, e dopo tre stagioni altalenanti tra il 2001 e il 2003, chiuso in anticipo per un infortunio, Brees si mette a fare sul serio, lanciando per 3,159 yards, 27 TD ed appena 7 intercetti nel 2004, anno in cui si aggiudica il premio come NFL Comeback Palyer of The Year staccando il biglietto per il primo viaggio della carriera alle Hawaii, dove gioca il Pro Bowl nel team della AFC.
Nel 2005 che dovrebbe essere l'anno della definitiva consacrazione Drew gioca la sua migliore stagione a livello statistico ma non riesce ad entusiasmare le platee come dodici mesi prima, e dopo i tormenti causati da un infortunio alla spalla viene lasciato a piedi da San Diego, che decide di puntare definitivamente su Philip Rivers, scelto al primo round del 2004.
Brees è però diventato uno dei migliori quarteraback della lega, e nonostante le malelingue lo dipingano come un giocatore con una spalla distrutta, riesce a trovare degli estimatori, e dopo aver fatto visita a Minnesota decide di optare per la Louisiana, accettando la corte serrata di Payton, che fin da subito lo reputa fondamentale per l'attacco spettacolare che è intenzionato a costruire nei Saints.
Drew a New Orleans trova l'ambiente ideale per continuare la sua scalata all'elite della NFL, e al termine del primo anno in maglia black&gold vince il titolo come NFC Offensive Player of The Year, dopo aver lanciato per 4,418 yards, 28 TD e 18 INT, guidando i Saints fino ad un passo dal Championship NFC, arrendendosi contro i Bears al penultimo turno di playoffs.
L'anno d'oro che gli porta anche il Walter Payton Man of The Year Award non viene però replicato nel 2007, e nemmeno nel 2008, quando New Orleans chiude lontana dalle parti alte della NFL nonostante un Brees in forma straordinaria, che gioca la sua migliore stagione da professionista completando per 5,069 yards, 34 TD e 17 intercetti, regalandosi un terzo viaggio al Pro Bowl.
Sempre nel 2008 vince anche il secondo titolo come giocatore offensivo della National Football Conference, un premio triplicato quest'anno dopo una grandissima annata, che ha fatto da sfondo ad una sua maturazione completa e definitiva che lo ha visto diventare leader indiscusso dei Saints, regalandoci i suoi proverbiali monologhi prepartita, con cui solitamente incita i compagni a dare il massimo caricandoli come molle impazzite.
Una carica che è riuscito anche a dare nella notte più magica dell'anno, rinfrancandoli dopo un primo tempo claudicante che aveva visto i suoi Saints impersonare una brutta copia della squadra schiacciasassi ammirata durante la stagione regolare, dove con le sue innumerevoli rimonte, le sue pronte risalite, ha deliziato tutti gli appassionati del football d'oltreoceano.
La rimonta più bella, quella più emozionante, quella indelebile con cui ha scritto per la prima volta il nome dei New Orleans Saints nell'albo d'oro del Superbowl l'aveva però tenuta da parte, come si fa con il vino buono, in serbo per la partita più importante di un'intera carriera, quella che più di ogni altra ti regala la gloria eterna.