Tom Benson, il proprietario dei Saints, alza il Vince Lombardi Trophy
Parlare dopo il Super Bowl numero 44 è difficile per tutti e non solo perché il pronostico è stato rovesciato, perché Cenerentola ha trionfato o perché per l'ennesima volta negli ultimi una finalissima è stata decisa nel finale. No, niente di tutto ciò, il Super Bowl XLIV passa agli archivi in modo rapido, indolore, facendoci chiedere com'è che i Saints lo hanno vinto 31-17: due mete di scarto, 14 punti di differenza in una partita senza big play, senza picchi, senza veri MVP. Una partita che un attimo prima era in equilibrio, in bilico tra una giocata e l'altra, senza errori particolari, senza che nessuna delle due squadre riuscisse a scrivere la parola fine. E' sembrato, a un certo punto, di vedere un partita di pallacanestro giocata punto a punto, con tutti i tiri da tre che finiscono nel cesto in attesa che qualcuno colpisca il ferro e dia all'avversario quel possesso in più che si trasforma in punto vincente.
Quel ferro lo ha colpito Peyton Manning l'uomo a un passo dalla storia, l'uomo che poteva riscrivere le sorti della gara e quelle della vita di questo gioco mettendosi su un gradino da intoccabile. Ha invece fallito l'occasione, l'ennesima nella sua vita di postseason, lanciando un pessimo pallone nelle mani di Tracy Porter che, dopo quella di Brett Favre, ha chiuso anche la stagione dei sogni del quarterback dei Colts riportando in meta l'intercetto e mandando i Saints in paradiso.
Non è stato un Super Bowl bellissimo probabilmente, ma è stato avvincente, giocato sul filo del rasoio e tatticamente di buon livello. Il Super Bowl lo ha vinto Sean Peyton col suo staff. Lo ha vinto giocando un quarto down nel primo tempo dando fiducia ad una difesa che fino a quel momento non aveva brillato ma stava entrando in partita e, dopo la mancata conversione, ha reagito e ridato palla al proprio attacco che ha messo 3 punti a tabellone. Lo ha vinto con una conversione da due riuscita, un challenge vinto nella stessa occasione, lo ha vinto rischiando ed usando tanto tanto coraggio, il proprio e quello dei propri ragazzi. Lo ha vinto con l'on-side kick di inizio secondo tempo, l'inatteso kick off con cui i Saints si sono giocati tutto. La palla, il risultato, la partita. Quello è stato il momento in cui tutto avrebbe potuto girare: dare la palla decisiva ai Colts, regalargli un vantaggio incredibile o, al contrario, restare in partita, sorpendere l'avversario, obbligarlo alla rincorsa. Così è stato, si dirà che la fortuna aiuta gli audaci, e stavolta è vero. I Colts di inizio gara erano più squadra e avrebbero potuto infierire su dei Saints lontani dalla condizione migliore, incapaci di leggere l'attacco di Manning e soci e, a loro volta, lontani da un gioco offensivo che potesse davvero preoccupare la più esperta franchigia dell'Indiana.
Dieci punti di fila, in due drive, New Orleans rimandata rapidamente al punt in ogni occasione. In quegli attimi Manning è sembrato inarrivabile; intoccato ed intoccabile, abile a gestire l'ovale, capace al primo tentativo un tantino profondo di trovare Pierre Garcon per la meta. Davvero, all'inizio, tutto sembrava scritto. Ed i numeri che procedevano poco alla volta sembravano confermarlo, a partire dal goal line stand forzato dalla difesa su quel quarto down che avrebbe potuto chiudere ogni discorso. Invece no, i Saints hanno comunque preso tre punti, si sono tenuti il pallone ed hanno cominciato a macinare gioco nel secondo tempo. I numeri però non mentono e non tagliavano fuori Manning dalla gara; i Colts sono sempre stati in gioco. Hanno risposto con Joseph Addai senza batter ciglio come se nulla potesse scalfirli. Poi è arrivato un field goal sbagliato, l'ennesimo granello di sabbia dentro l'ingranaggio di una gara che a nessuno sembrava potesse finire così.
Fino al pallone decisivo che un Manning in rimonta ha spedito tra le braccia avversarie, il leader dei Colts è andato al tappeto e non ha più avuto forza di rialzarsi, nemmeno dando un'ultima, piccolissima speranza ai propri tifosi. E' stato così il trionfo meritato e voluto da Drew Brees, MVP di una gara vinta dalla sideline, ma anche dall'assenza assoluta di errori del quarterback dei campioni Nfc (e ora Nfl) in grado di attendere, come in una perfetta partita a scacchi, che fosse il diretto avversario a mettere piede in fallo portando la regina sulla casella sbagliata.
E' stata la partita di una difesa in grado di aggiustare il tiro, di mettersi sui giusti binari, di diventare contenitiva pur senza riuscire a toccare mai davvero Manning. E' stata la vittoria di Pierre Thomas, l'uomo che chiuso down importanti e che ha costruito quasi da solo il primo touchdown dei Saints, il primo della loro partita il primo, di New Orleans, in un Super Bowl. E' stata la vittoria del coaching staff, della strategia, dell'attenzione messa tra le mani di un quarterback che ha trovato la notte giusta per non sbagliare una virgola e mettere la palla della vittoria nelle mani di Jeremy Shockey. Poi è arrivato Porter con quell'intercetto, a calare il sipario e scrivere la parola fine. A mettere un abisso tra Manning e il posto che gli spetta a terminare un sogno che non si poteva non portare a casa. Porter invece lo ha fatto proprio, in una notte strana e senza picchi, nella gara che più di tutte lascia rammarico e aperte le porte dei se e dei ma. Comunque la si vedrà vedere, leggere o pensare, questa partita ha scritto una storia sola e questa storia si legge New Orleans Saints.
Arrivederci a settembre National Football League.