Sean Payton ha portato in alto i Saints nel 2006, ma per il secondo anno di fila affonda per via di una difesa poco efficace
La stagione volge al termine, nel periodo dei bilanci è il solito riempire liste di sorprese, conferme, successi e delusioni neanche fossero letterine per Babbo Natale, ed in cima alla lista dei cattivi che meritano carbone invece di doni preziosi un manipolo di squadre tra cui, su tutte, sembrano spiccare i colori nero-oro targati New Orleans.
Da giovedì santi in paradiso per Sean Payton e soci non ce ne sono più, la stagione finisce in over time su un field goal del chicagoano Robbie Gould che rispedisce al mittente le residue speranza di accesso ai playoff.
Come se la grande off season 2008 non fosse mai passata, i Saints rimangono fermi davanti ai propri dubbi e i soliti problemi, triti e ritriti, che appaiono di nuovo ben lungi dal risolversi nonostante l'arrivo di giocatori di talento che avrebbe dovuto secondo molti (ed anche secondo noi) riportare la franchigia della Louisiana a terminare il discorso intrapreso nel 2006.
Dopo Katrina, dopo la tempesta, dopo la tragedia e le lacrime una intera città che si chiudeva attorno a una passione, a una squadra capace di rendere orgogliosa la propria gente. Quest'anno, ben che vada, si potrà riportare il record di vittorie almeno in pareggio, forse addirittura in positivo, segnando così in verde il bilancio comunque deludente di una stagione che si presentava con ben altre aspettative.
Come non bastasse le tre rivali di divisione se ne stanno lì a combattere per un posto ai playoff ancora vicinissimo, con Tampa e Atlanta a contendersi una wild card e Carolina che, addirittura, domenica tenterà di strappare ai NY Giants lo scettro di numero uno del tabellone Nfc per la prossima postseason, traguardo impensabile solo due settimane fa.
Cosa non funziona? Già al primo impatto è ovvio il solito discorso che accompagna questa squadra ormai da tre anni, cioè da quando coach Payton, abbandonati i lavori di assistente allenatore e coordinatore del gioco aereo e dei quarterback a Dallas, giunse nella città dove i santi marciano verso il paradiso a suon di gospel e musica nera con la fama di grandissima mente offensiva. Ed ecco che lo squilibrio tra i due reparti, l'attacco e la difesa appunto, resta il tallone d'Achille della sua squadra.
Gran conoscitore e fine fantasista per quel che riguarda il gioco palla in mano, Sean Payton, che in queste tre stagioni si è dimostrato anche gran scopritore di talenti e bravissimo nel far crescere i giovani, non riesce a mettere fine agli imbarazzanti blackout difensivi che continuano a colpire il reparto rendendolo totalmente incostante.
A poco è servito firmare Jonathan Vilma e reinserirlo in una congeniale 4-3 e nulla è contato inserire l'ex Jaguars Bobby McCray a destra della linea difensiva. Benché i numeri e la consistenza di gioco dei nuovi arrivati, ivi compreso il buon lavoro del rookie prima scelta da USC Sedrick Ellis impegnato sin dal primo snap a settembre, diano ragione alle scelte dello staff di New Orleans, i risultati nel complesso sono mediocri. E non si può certo dire sia colpa dei veterani, vista la stagione comunque stoica di Scott Fujita.
Il problema ricorre dietro, dove aggiungere Randall Gay (ex Patriots) e, in rotazione, Aaron Glenn non ha contribuito a migliorare la situazione di una secondaria che puntava sull'esplosione definitiva delle safety Josh Bullocks (4° anno) e Roman Harper (terzo), rimasti invece fermi al palo coi soliti pregi (rapidità , discreta marcatura, buoni colpitori) e i soliti difetti (posizionamento, reattività , letture) tanto che ai Bears è bastato mandare tre volte il pallone profondo verso Devin Hester per vincere una gara dove l'attacco di Chicago è stato ben poco costruttivo.
Difficile da fuori stabilire come allenare una squadra, capire dove e perché sorgano certi problemi, di sicuro vi è che il materiale umano a disposizione non è dei peggiori e che quelle classifiche (25simi in punti subiti, 20simi in yard concesse, 26simi sui lanci, 16simi sulle corse) gridano vendetta. Il problema potrebbe quindi risiedere in un coordinamento degli allenatori difensivi (Gary Gibbs come DC, ma anche Dennis Allen alle secondarie ed Ed Oregon alla D-line) incapaci di sfruttare al meglio certi numeri individuali mentre Payton, inadatto a gestire il reparto difensivo, si accontenta di quello che viene convinto di poter vincere solo con l'attacco.
Così arrivano i 51 punti segnati a Green Bay, i 31 a San Francisco, i 34 a Oakland, ma arrivano anche avversari che, tolte le due californiane, mettono a tabellone sempre punteggi sopra le 20 unità e, quando l'attacco non arriva a toccare il cielo con un dito, ecco che i Saints possono anche perdere. Spesso. Come giovedì, o come contro Carolina, dove un reparto offensivo inceppato ha visto i Panthers volare via con un 30-7 che ha scoperchiato di nuovo i problemi di New Orleans.
Insomma, aggiungere atletismo, velocità e potenza in difesa non è servito e questo basta di suo a spiegare i noti problemi di New Orleans. In attacco, infatti, non si può contestare più di tanto. Si potrebbe disquisire di nuovo su Reggie Bush, sul fatto che sia atletico e spettacolare ma che, probabilmente, non sia davvero, e mai sarà , quel fenomeno tanto atteso e tanto pompato ai tempi del college.
Le assenze di Deuce McAllister si sono fatte sentire, l'assenza di un runningback di peso e costante è evidente nelle 97,4 yard di media conquistate (25° posto), ma è altrettanto vero che Pierre Thomas sta uscendo alla distanza dimostrandosi halfback capace di dare spazio alla dimensione più “tuttofare” di Bush togliendogli di dosso la pressione di un gioco di corse che non è nelle sue corde.
Altrettanto vale per Drew Brees, altro miracolo della gestione Payton e per il terzo anno di fila oltre le 4000 yard lanciate. Non si può negare che la mano dell'head coach sia evidente, le prove di San Diego dell'ex Purdue erano infatti certamente meno convincenti e continue, nonostante i suoi migliori compagni di attacco rispondessero all'appello ai cognomi di Tomlinson e Gates.
A New Orleans Payton ha saputo disegnare un gioco che puntasse sui RB, e soprattutto su Bush, per i giochi corti, soprattutto laterali, mentre per il profondo si affidò da subito alla sorpresa Marques Colston. Brees, eccellente tattico e abile nel muoversi dietro la linea di scrimmage, dimostrò di avere ogni tipo di lancio a disposizione per servire le chiamate dalla sideline con precisione e continuità .
L'acquisizione di Jeremy Shockey ha reso meno del previsto, un impatto minore di quanto si possa attendere dall'ex Giant, ma le quotazioni del gioco aereo non sono mai calate e i Saints si ritrovano primi per yard lanciate e yard totali.
Quando la media di campo conquistato è di 401.6 yard e anche a punti registrati a referto sei il primo della classe perdere sette partite, 15 in due anni, significa solo una cosa: il problema sta dietro. E se non è (tutto) nel talento mancante allora i nodi che vengono al pettine ci insegnano altro.
Un progetto per essere concreto e, magari, vincente ha bisogno di anni, ma dopo il 2006 la squadra ha galleggiato in acque torbide senza riuscire sempre a stare a galla. In sei delle sette partite perse gli uomini di Payton hanno segnato almeno 20 punti, più di 24 in cinque di esse, addirittura 30 contro Denver quando anche la girandola dei kicker cominciò ad essere un problema di instabilità e fece girare la testa a Sean Payton.
Un progetto ha bisogno di tempo, dicevamo, ma ora sembra arrivato quello delle scelte decise che vadano a colpire l'organico degli allenatori e se Payton ha mostrato di poter stare al suo posto con decisione, arroganza e spettacolarità , è tra le guide della difesa che si devono prendere probabilmente dei provvedimenti sin d'ora.
A cominciare da Gary Gibbs, per dare alla città dei santi la voglia di cantare di nuovo.