Ladies & gentlemen: Mr. Brett Favre saluta la Nfl. Giù il cappello.
Warren Sapp e Brett Favre dicono addio al football, alla Nfl. Sapp è stato uno dei più grandi difensori di questi ultimi anni, forse tra i più grandi di sempre per gioco, carattere, leadership. Brett Favre rappresenta un simbolo, una storia, qualcosa di scritto negli albi del football che resterà indelebile nei secoli. Dispiace oscurare la scelta del primo per concentrarsi sul secondo, ma la volontà è quella di scrivere qualcosa di personale dopo che le parole stampigliate su questo schermo sono state battute, lette, cancellate e ribattute varie volte.
L'addio al gioco di un atleta è per noi comuni mortali come una dipartita, la morte sportiva di un atleta che non avremo più modo di coccolare, tifare o disprezzare a nostro modo. Nessuno di noi è un privilegiato personaggio da salotto televisivo o da incontri ravvicinati del terzo tipo, ci si deve limitare a seguire gesta, articoli, interviste, partite. Sguardi. Simboli.
Favre è questo: un simbolo. Il simbolo di un ragazzo che ha iniziato la carriera da professionista con un intercetto, che ha lanciato il primo completo a sé stesso e che, da lì in avanti, ha strapazzato un record dopo l'altro riportando il titolo a Green Bay dopo decenni di inutili, estenuanti rincorse. Favre, però, non è stato un simbolo solo per i Packers.
Insegnano che un articolo, per oggettività , dovrebbe sempre considerare la prima persona plurale, per non trasformarsi in un diktat autoreferenziale, per non dare adito al fatto che, chi ha il potere di pubblicare qualsiasi cosa in qualunque posto, possa decidere come e cosa pensare di chicchessia. Eppure questo è il momento di raccontare una storia diversa, o almeno un suo frangente, in modo personale, con la supponenza di dare voce a tante persone, a tanti tifosi, a tanti appassionati.
Se Warren Sapp è una grande perdita per la Nfl, pur senza sfondare chissà quali mitologiche barriere, l'addio di Favre diventa, senza retorica, la fine di un'era, ed i perplessi articoli americani, rigettati fino alle nostre case dalla rete, non danno il giusto peso alla storia che quel ragazzo dal cognome con la pronuncia strana ha scritto per tutti noi. Che lo vogliate o no, in qualunque modo voi la pensiate, l'addio di Brett Lorenzo Favre è una perdita per la Nfl, per i suoi tifosi, per tutti noi. Il primo week end di settembre non sarà lo stesso, e così non saranno le domeniche a seguire. Servirà tempo ad abituarsi perché, volenti o meno, battere i Packers senza il #4 in campo non avrà più lo stesso sapore. Probabilmente nemmeno perdere sarà uguale, le prime battaglie avranno un gusto strano, amaro, non celebrativo verso il nuovo che avanza ma, al contrario, di rammarico per quello che non c'è più..
Favre è il personaggio che traccia un'epoca, come Michael Schumacher, Michael Jordan, Roberto Baggio; è qualcosa che entra nella testa e nel cuore dell'appassionato, è un'idea di sport, di tifo, di amore per il gioco alla quale chiunque fa una certa abitudine. Si arriva a credere che certe persone siano in grado di sfuggire all'età , al tempo che passa, si arriva a pensare che la linea offensiva della vita di Favre fosse assolutamente capace di proteggerlo dai sack dell'orologio della vita che scappa in avanti, un unguento rinvigorente che ferma quell'orologio lì, nel centro del mondo, mentre la gente dipende dal tuo braccio e dal tuo colpo finale. Ci si abitua al fatto che qualcuno possa aver fatto un patto col diavolo garantendosi l'eterna giovinezza.
Non è questo il momento per parlare dei suoi record, dei suoi primati, del fatto che le porte a Canton, Ohio, si stanno già aprendo per accogliere le sue memorie nel luogo in cui nulla si cancella e nulla sbiadisce se non qualche antichissima foto. Favre è stato il ponte di congiunzione tra la fine delle carriere di Dan Marino, John Elway, Steve Young e l'inizio di quelle di Peyton Manning e, subito dopo, Tom Brady.
Ma Brett Lorenzo Favre è stato anzitutto un simbolo di coraggio, di umiltà , della capacità di andare oltre qualche limite tecnico; il suo record di intercetti subiti, un'onta coperta con centinaia di imprese e celebrata solo nel triangolo dei rivali tra Chicago (in primis), Detroit e Minnesota, è solo un'idea del suo tipo di gioco, del suo modo di stare in partita. Brett Favre è però un personaggio che va oltre il rettangolo verde, che ha combattuto battaglie, rese pubbliche dai media, che lo hanno reso, come sempre in questi casi, più vicino a noi uomini qualunque. Le due storie di Favre, così lontane e così incollate tra loro attraverso la forza e il coraggio di una persona mai fuori dagli schemi, leader e padrone di una città che sta ai suoi piedi chiedendo la vittoria, pregando per un altro viaggio nella Terra Promessa.
La sua storia di lanci completi iniziata con un rocambolesco passaggio a sé stesso e terminata col record di yard conquistate, o il primo TD pass per Kitrick Taylor, primo di 442, un altro record; in campo come titolare in ogni partita dei Packs dal 20 settembre 1992 al 20 gennaio 2008 riportando Green Bay a un passo da un sogno che sembrava ormai irraggiungibile, ad un overtime dall'ingresso al terzo Super Bowl in carriera, dopo due stagioni pessime, di quelle che invitano al ritiro, di quelle che meditano un ritiro.
In mezzo a tutto questo reazioni sovrumane, nell'altra storia, quella umana, come la battaglia contro il cancro di Deanna, la moglie che, a 35 anni, aprì al mondo le porte dei propri segreti; la morte del cognato ventiquattrenne, fratello di Deanna, un'altra sciabolata in una vita vista sempre piena solo di gioia e gloria. E la morte dell'amato padre, celebrata nel ricordo con una dedica al cielo fatta di 399 yard su lancio buttate sul tabellino mentre il popolo californiano degli Oakland Raiders concedeva una standing ovation infinita. Un reazione ai problemi di tutti i gironi, un messaggio agli uomini "comuni" che fanno di Favre un modello da imitare per i bambini e da ammirare per gli adulti. La forza di andare oltre, sempre. Oltre la critica, oltre il desiderio di mollare quando tutti te lo chiedono e se lo aspettano, oltre lo sconforto ed il dolore.
Un personaggio che ha timbrato il cartellino 253 volte consecutive in regular season e che non importa sapere se sia stato il numero uno, due o tre di ogni tempo, se i suoi record, i suoi tre titoli MVP, i suoi 9 Pro Bowl ed i suoi 6 All-Pro contino davvero tanto a fronte di un "solo" Super Bowl, un anello che ne ha comunque consacrato l'esistenza in Nfl. Importa sapere che la maglia #4 a Green Bay comincia già a sventolare oltre le mura del Lambeau Field e che non apparterrà mai più a nessuno; importa sapere quanto questo uomo sia entrato nelle menti di tutti, negli occhi di ogni tifoso, nelle domeniche di appassionati che senza sosta hanno letto, sentito e speso parole su di lui. Ogni cosa, ogni pensiero, seguendo ogni suo movimento chiedendosi quando tutto questo sarebbe finito perché, anche senza vittorie, Favre è stato Favre, un nome che ha portato con sé 17 stagioni Nfl, tre generazioni di quarterback, rimanendo nel bene e nel male sempre in vetta.
Come uomo, prima che come giocatore. In mezzo ai suoi drammi e ai suoi problemi, quelli che ognuno di noi deve affrontare ogni giorno in condizioni certo meno lusinghiere delle sue. Ma è davvero difficile esprimere in parole i pensieri di un momento come questo, dell'addio di un giocatore così importante per la storia di questo sport. Solo qualche riga, sperando di centrare il bersaglio, della vita e della carriera di un uomo attraverso poche parole, attraverso la ripetitività che, in casi come questi, sembra sempre inevitabile o, forse, è chi vi scrive che non riesce a trasmettere.
Non posso sapere o capire quanto dovrei dire, non conosco Favre, né nessun altro personaggio in grado di catalizzare i vostri, i nostri occhi su uno schermo in movimento in attesa di grandi numeri. Non sarà come Michael Jordan, nessuno esulterà per la fine di un dominio talmente incontrastabile da rendere ideale il fatto di aprire nuove epoche, ma sarà comunque la fine di un sogno. Il sogno di un tifoso ragazzino che si risveglia adulto mentre un uomo chiude la porta sul proprio mondo pubblico, quello visibile ad ognuno di noi almeno per sessanta minuti di gioco. Una porta aperta quando sei troppo giovane per capire certe cose e internet è solo una utopia che non ti permette di sapere chi sia sbarcato ad Atlanta, in aprile, mentre molti addetti ai lavori si guardano allibiti chiedendosi quanto valga quel ragazzino che sembra così poco sicuro di sé. Mi chiedo da sempre cosa pensino, oggi, ad Atlanta, con la loro più grande speranza chiusa in cella e il loro più grande rammarico che chiude il sogno di una vita costellata di imprese e vittorie. Un sogno che ha contagiato i tifosi di Green Bay, i suoi fan nel mondo, la gente che ha creduto nel suo valore, anche morale, di battersi contro ogni avversità , persino quelle che con il pallone ovale hanno poco a che fare e che, talvolta, ci fanno sentire piccoli piccoli, più di Favre, quantomeno, senza la sua capacità e la sua forza interiore di reagire in modo così forte.
Ciao Brett, ci mancherai sui campi a settembre, ad ogni snap di Green Bay; oggi siamo tutti un po' più vecchi e abbiamo perso un pezzo di storia, di spettacolo e di battaglia dello sport che, anche grazie a te, abbiamo saputo amare ogni giorno di più.
Sipario.
Applausi.