Bears fuori dai giochi

Kyle Orton non è riuscito a salvare i Bears dall'esclusione dai playoffs.

Prima era quasi una certezza. Adesso la sentenza è diventata definitiva. Ancora una volta, una squadra che ha raggiunto il Super Bowl perdendolo non è riuscita a qualificarsi per i playoffs l'anno successivo, aggiungendo un altro comma a quella che negli ultimi anni sembra essere diventata un'inesorabile legge non scritta della Nfl.

I Chicago Bears escono dalla corsa, per la quale a dire il vero nutrivano ninente più che sottili speranze, questo dopo una stagione molto travagliata: la partita giocata lunedì notte contro i Minnesota Vikings, che dovevano vincere a qualsiasi costo per mantenere intatte le distanze con New Orleans e Washington per l'ultima piazza disponibile in Wild Card, ne è stata ulteriore conferma.

A tratti si è vista la difesa che negli ultimi tre anni aveva terrorizzato qualsiasi avversario, vuoi per il ritorno in campo dopo 10 settimane di assenza di Nathan Vasher, vuoi per la straordinaria partita di Brian Urlacher, la migliore di questo suo campionato, vuoi per l'efficacia dimostrata nel primo tempo nel contenere l'asso Adrian Peterson, che nei primi trenta minuti non aveva collezionato che 14 yards. Sembravano tornati i giocatori dominanti di uno, due anni fa, male supportati da un attacco improduttivo e costretti a ritornare in campo con pochi momenti per rifiatare a disposizione.

A tratti si anche è capito perché i Bears abbiano vinto così poco, persi tra placcaggi di massa completamente sbagliati (dolorosa ricezione da 71 yards concessa a Robert Ferguson ed immediata svolta della partita), e mete concesse anche in seguito a giochi partiti male per gli avversari (Peterson in meta dopo un clamoroso scontro con Bollinger), episodi che non troppo casualmente hanno dapprima riaperto una partita condotta da Chicago con un massimo di 10 punti e successivamente consegnata direttamente nelle mani dei ragazzi di Brad Childress.
A nulla è servito avere uno straordinario Urlacher capace di un intercetto, un fumble ricoperto e due sacks. A nulla è servito provocare 4 turnovers, non capitalizzati a dovere da un attacco capace di convertire una sola situazione di terzo down nelle 14 occasioni avute.

In campo c'era Kyle Orton (22/38, 184, INT), alla sua prima partenza da titolare in quasi due anni, notoriamente limitato a far muovere un attacco con continuità  costringendo Chicago ad un piano offensivo molto contenuto, costruito per la maggior parte su screen per l'altro Adrian Peterson (8/51, 26 yards su corsa) e ricezioni veloci con spazi aperti da percorrere per Devin Hester.
La scarsa concentrazione della linea offensiva, mai vista in tempi recenti così in difficoltà , ha inoltre portato un inusitato numero di penalità  riflesse su dei drives già  penalizzati dalle posizioni di partenza, quattro delle quali intraprese dall'interno delle 10 yards con risultati conseguentemente insoddisfacenti.
Sette le situazioni di tre giochi e punt per un attacco riuscito a varcare la linea di meta solamente grazie alla posizione elargita dall'intercetto di Vasher, uno dei tre subiti da Tarvaris Jackson (18/29, 249, 3 INT), almeno due le situazioni sprecate da penalità  o chiamate discutibili: nella prima l'ennesima falsa partenza della linea in situazione di quarto ed uno ha costretto Lovie Smith a far calciare Robbie Gould anziché tentare una più che possibile avanzata nel territorio favorevole, nella seconda Ron Turner, nella medesima situazione di down e yards da prendere, ha sorpreso chiamando un lob per il fullback Jason McKie anziché tentare una più sicura corsa di potenza, vanificando la miglior posizione di campo dell'intero secondo tempo.
Quando poi in situazione disperata è stato chiamato il lancio lungo ad Orton, non esattamente la specialità  di casa, è arrivato l'intercetto che ha chiuso la partita.

I Vikings hanno cavalcato Adrian Peterson con migliori risultati nel secondo tempo, laddove ha guadagnato 56 delle 78 yards ammassate complessivamente, l'attacco si è mosso con disinvoltura mettendo in connessione Jackson ed i suoi ricevitori, Bobby Wade (6/70) su tutti, grazie a traiettorie tendenti ad attraversare il campo in orizzontale.
Il giovane quarterback ha mostrato segni di maturità  alternandoli ad errori pesanti, di quelli che normalmente in Nfl si pagano a caro prezzo: due dei tre intercetti di Jackson sono risultati di sua stretta competenza a causa di decisioni errate, alcune situazioni chiave di conversioni di terzo down non sono andate a buon fine per suoi errori di tocco e di posizionamento dei piedi in fase di lancio, fattori che hanno influenzato spirale e traiettoria del pallone quel tanto da mettere in difficoltà  i ricevitori, smorzando delle serie offensive di diverse potenzialità .
Tanta la pressione da contenere, talvolta gli assegnamenti sui blocchi non sono stati mantenuti (Urlacher è piovuto addosso a Jackson senza difficoltà  in due occasioni) denotando una piccola mancanza di comunicazione tra gli uomini di linea, a tratti sovrastati dalle incursioni di una linea difensiva brava a chiudere gli spazi per correre.

Il 20-13 finale, scaturito da una conversione fallita da Ryan Longwell e da una trasformazione da due punti di Bollinger, ha consentito ai Vikings di archiviare la quinta vittoria consecutiva: l'ultima volta che ha perso, Minnesota aveva un bilancio di 3-6 e sembrava fuori dai giochi della postseason.
Ora i Vikings decidono da soli il proprio destino, e quei playoffs che sembravano un miraggio sono vicinissimi a diventare un risultato concreto. Nonostante le velleità  spezza-partita di Adrian Peterson, con pochi dubbi il rookie offensivo dell'anno, Tarvaris Jackson non potrà  permettersi altre uscite del genere, in un territorio dove gli errori lasciano strascichi diversi da questo e le squadre da affrontare giocano in un clima senza domani.

Per questo una vittoria come quella ottenuta contro Chicago rischia di valere doppio.

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