Rex and the (Windy) City

Grossman abbandona il campo dopo la gara con Dallas: è stata l'ultima volta?

Quarto periodo di gioco, Sunday Night Football, Nfl, terza giornata. Dallas conduce 20-10 dopo aver convertito in tre punti un fumble del runningback di Chicago Cedric Benson. Il drive precedente ha spinto Rex Grossman a chiudere un 3°&10 con una corsa e a servire i TE Desmond Clark e Greg Olsen per portare lo stesso Benson a firmare il momentaneo pareggio. Ora, Grossman, ha in mano un altro possesso per rifarsi e tenere a galla la squadra. Snap, breve lasso di tempo, controllo del ricevitore e lancio teso, sulla sideline di destra, per Muhsin Muhammad. Il ricevitore veterano di Chicago è coperto da un raddoppio difensivo, un terzo defensive back è in arrivo mentre DeMarcus Ware, poco più avanti, prova a deviare il pallone. Un fazzoletto di terra invaso da quattro caschi stellati, un lancio in quella zona è una giocata assurda, ridicola. Diremmo presuntuosa se non conoscessimo chi l'ha eseguita.

Tra tutti spunta Anthony Henry, intercetta il pallone e va a segnare il 26-10, poi convertito a 27, e chiude la gara. Il Soldier Field è una bolgia, l'unico grido riconoscibile, un verso lanciato all'unisono dalle tribune verso il campo, è il cognome del quarterback di riserva: Brian Griese.

"GRIESE! GRIESE! GRIESE!"

Quel lancio potrebbe e dovrebbe essere l'ultimo per Rex Grossman; ma giocherà  ancora e, di nuovo, si farà  intercettare, con la solita prevedibilità , con quei palloni telefonati, la testa in perenne confusione. Quando un anno fa uno psicologo di Chicago si propose sarcasticamente di curarlo forse, invece di riderne, qualcuno avrebbe dovuto prendere in seria considerazione questa ipotesi.

"GRIESE! GRIESE! GRIESE!"

Già , Griese. Come sono diversi gli umori, le facce e l'accoglienza di oggi al Soldier Field di Chicago, Illinois. Quando a novembre 2005 uno stanco e ormai fuori ritmo Kyle Orton venne sostituito tra primo e secondo tempo contro Atlanta da Rex Grossman fu un boato, un'ovazione ad accogliere il tanto atteso profeta. Dopo poche partite, un esordio vincente al Lambeau Field e due infortuni gravissimi, Rex Grossman, il tanto atteso Rex Grossman, tornava finalmente a indossare la divisa navy-orange ed il glorioso caschetto con la C pronto a difendere i colori di una città . E' passata un'intera stagione, quella 2006, tra alti e bassi, dubbi e problemi, ottime serate e misere giocate. In mezzo, uno shutout a Green Bay, un 13-3 stagionale, alcuni riconoscimenti settembrini e un Super Bowl perso.

Chicago ricominciava da lì, da quella notte di Miami, piovosa, fresca, bagnata e perdente. Ricominciava con la convinzione che servisse poco, sicuramente un po' di esperienza, forse anche un po' di fortuna. Oggi si ritrova al palo, 1-2 nel rapporto vittorie-sconfitte e un quarterback da buttare perché ormai, sembra chiaro, da salvare c'è poco. Rimane quel grido…

"GRIESE! GRIESE! GRIESE!"

… e poco altro. Si aspetta la decisione.

Prima di parlare della maledizione che colpirebbe le squadre che negli ultimi anni hanno perso il Super Bowl nella stagione subito dopo, aspettiamo, perché qui, più che di maledizione, si parla d'altro. Chicago ha perso con Dallas e, tutto sommato, ci può anche stare. Chicago ha concesso quello che da novembre 2004 (10-41 contro i Colts di Manning) non concedeva. Chicago ha perso via via un difensore dopo l'altro e in queste ore l'attesa maggiore è proprio quella di conoscere la loro condizione. Il punto è, però, che Chicago non ha trovato un quarterback.

Ricominciamo da capo: dopo i Mike Tomczak, i Jim Harbaugh, gli Steve Walsh, gli Erik Kramer, i Dave Krieg, gli Shane Matthews, i Cade McNown, i Jim Miller, i Kordell Stewart, gli Steve Hutchinson, i Craig Krenzel, i Chad Hutchinson, i Jonhatan Quinn e i Kyle Orton. Ricominciamo da quella notte di novembre 2005 quando uno spento, ormai stanco e fuori ritmo rookie Kyle Orton venne sostituito da Rex Grossman tra il boato e la standing ovation dello stadio chicagoano. Ricordiamo quella notte e chiediamoci come Grossman sia arrivato a far supplicare non l'intervento di un nuovo Peyton Manning, bensì l'ingresso dell'onesto e ormai vecchiotto (con le dovute proporzioni) Brian Griese.

Una volta Lovie Smith ha detto che la storia di Chicago va letta attraverso quella di un grande linebacker e di un grande runningback; il suo riferimento era ai vari Dick Butckus, Walter Payton, Mike Singletary, Gale Sayers eccetera e, probabilmente, chi aveva ingaggiato Smith, ossia Jerry Angelo, era giunto a Chicago proprio per cambiare questa tendenza. Il miglior quarterback mai passato dalla Città  del vento è un certo Sid Luckman, hall of famer, morto ormai qualche anno fa, innovatore del gioco e vincitore di più di un titolo Nfl. L'unico in grado di vincere un Super Bowl, invece, è stato Jim McMahon, estroverso, sbruffone, tutt'altro che fenomenale in campo, ma leader vero e, caratterialmente, una roccia. Poi il vuoto.

L'idea principesca di Angelo fu, appunto, ridare forma ad un gioco aereo che accompagnasse questo "grande runningback e questo grande linebacker" a riscrivere un nuovo pezzo di storia. Il primo passo fu scegliere al draft Rex Grossman, primo giro, scelta 22, dai Florida Gators. Giocatore da tasca, con gran braccio e precisione sul profondo, nelle idee di Angelo, presumiamo, c'era quella di trasformarlo in un giocatore (quasi) a 360°, smussando qualche difetto qua e là  e trovando nel suo gioco verticale l'arma in più per punire gli avversari. Atto secondo: Ron Turner diventa, per la seconda volta, offensvie coordinator dei Bears, l'ideale per sviluppare il gioco verticale. Successivamente, col passare delle stagioni, l'aggiunta di WR veloci, rapidi sul corto e abili sul profondo: il primo, Bernard Berrian, e poi Mark Bradley, Rashied Davies. Il gioco è fatto, con la difesa costruita tra Lovie Smith e lo stesso general manager, basta avere un attacco in grado di mettere palla in aria ed essere il meno prevedibile possibile e, per qualsiasi avversario, diventerà  davvero dura arrestare la corazzata dell'Illinois.

Nulla di tutto questo, in realtà . Grossman parte fortissimo nel 2006, sviluppa tutto ciò che gli è stato costruito intorno ma, a metà  stagione, si blocca, comincia a giocare a intermittenza, alterna partite da numeri strepitosi a rovinose cadute, mostra un carattere debole, di essere vittima, troppo indifesa, dell'errore. A Chicago passano un anno a difenderlo, per via dell'inesperienza accumulata sul campo, per via dei due infortuni che in parte ne hanno minato quel minimo di mobilità  che aveva prima, per i troppi playbook cambiati negli ultimi sei anni (cinque, tra college e pro) e che ne hanno in parte limitato la crescita.

Sarà ; resta il fatto che Grossman riesce ad arrampicarsi sulla montagna, gioca dei buoni playoffs e giunge al Super Bowl dove, dopo una partita dominata dagli avversari, sega le gambe ai propri compagni lanciando un brutto intercetto che viene riportato in meta e, preso dalla disperazione, decide di bissare l'impresa poco più tardi. Colpa del tempo, del vento, della pioggia, si dirà , nemmeno Peyton Manning, che occhio e croce è un po' più bravino, dopo l'intercetto subito a inizio gara si prende il lusso di indagare troppo in profondità  le secondarie avversarie.

La questione che ne nasce, legata ad un'intera stagione, è basata sul fatto che Ron Turner abbia tutelato poco il ragazzo, che dopo un avvio di grandi numeri alzati il quarterback andasse messo in condizione di diversificare il proprio gioco, di rischiare meno, di fare esperienza senza dovere sempre cercare la giocata ad effetto. Sarà , ma oggi si è arrivati a un punto in cui nessuno, ma proprio nessuno, si sente di incolpare altri che non siano lo stesso Grossman.

Le accuse per Angelo in realtà  ci sono, reo di aver prima costruito un ottimo gioco di corse ingaggiando lo sconosciuto Thomas Jones e liberando Anthony Thomas per far spazio alla prima scelta del 2005, Cedric Benson, per poi smantellare il tutto, lasciando libero di andare ai Jets proprio Jones, per problemi di salary cap. La scelta, in realtà , è comprensibile, visto che i problemi di tetto salariale hanno obbligato i Bears a blindare, almeno per un anno, il linebacker Lance Briggs, e costringono alla scelta di liberarsi del miglior runningback a roster causa la primaria importanza di firmare nuovamente alcuni importanti tasselli difensivi. Scelta che, condivisibile o meno, rientra nell'ottica di sviluppare quella prima scelta, Benson, che oggi, dopo sei gare da titolare in tre anni, sembra non poter pagare i dividendi giusti.

Ma il problema è un altro, sembra ormai ben chiaro. La pochezza offensiva, ormai continua, in cui sono regrediti i Bears è da attribuirsi quasi al solo ruolo di quarterback, ormai incapace di mostrare anche solo un minimo di potenziale davvero sfruttabile, ammesso che chi deve vendicare un Super Bowl perso possa accontentarsi di un "buon potenziale" da costruire piuttosto che di qualche certezza in più. Grossman difetta in tutto, anche nella basi del ruolo che recita ogni domenica. Facile dire che la difesa dei Bears sia la sola protagonista di un arrivo al Super Bowl che mancava da più di vent'anni, ancora di più lo è sostenere che, con un attacco decente, questa squadra l'ultimo passo potrebbe davvero riuscire a farlo, corazzate della Afc o meno. Il punto non è indagare su quanto c'è di ovvio, ma sopperire ai problemi che finora hanno impedito il salto di qualità .

Così, quindi, non si può andare avanti. Grossman sta evidenziando limiti tecnici, senza un tocco notevole sul pallone, senza la capacità  di essere preciso nel medio-corto raggio, senza la forza di liberarsi di un sack prevedibile con ampi margini di tempo, e tattici, ove ci mostra ogni volta di non riuscire a leggere le difese avversarie, di non essere in grado di studiare il campo e di cambiare ricevitore all'occorrenza, di puntare sempre tutto su Bernard Berrian piuttosto che sul più esperto Muhsin Muhammad o sui tight end per il gioco corto, gioco che consentirebbe a Chicago guadagni più brevi ma costanti ed un miglior controllo dell'orologio.

Dato per scontato che senza la sua prevedibilità  anche il gioco di corse avrebbe di che guadagnarci, vista l'impossibilità  attuale di allontanare dal box le difese avversarie, tutte pronte a divorarsi psicologicamente il #8 di Chicago, ci si chiede se il disco di Lovie Smith "Grossman è il nostro quarterback" si sia finalmente rotto, dopo aver suonato, di nuovo, stanotte in conferenza stampa.

Con 33 turnover causati nelle ultime 17 partite e numeri che parlano attualmente di 47/89, 500 yards, 1 TD, 6 INT e un rating pari a 45.2, ci si chiede cosa si stia aspettando, dalle parti della Halas Hall, a prendere provvedimenti a riguardo. A Chicago ora serve portare a casa la pelle e proteggere almeno quella corona divisionale che Green Bay sta tentando di far sua mentre il vecchio Brett Favre, a suo di record individuali, la porta a 3-0 dopo aver battuto anche san Diego; ma con questo gioco sarebbe impossibile difendere anche solo il titolo di quartiere. Brian Griese, tutto sommato, non può essere la risposta, ma certamente può essere l'uomo che riesce a traghettare in modo decente la squadra fino a dicembre per poi vedere cosa resta di questi Bears e cosa riserverà  il futuro.

Chicago non ha già  firmato la resa, Grossman passa sopra le critiche e i cori e alla domanda di un giornalista, nel dopo gara, sul fatto che si debba preparare alla panchina lui si salva con un "io penso al mio lavoro, ciò che non posso controllare, quello che fanno gli altri, non mi riguarda". Sguardo da duro, poco credibile, di un quarterback che scivola sempre più in basso portando con sé il progetto di gioco aereo di Jerry Angelo e la speranza di Chicago di rivedere una squadra completa in ogni reparto. Non basta Devin Hester, non basta la difesa, né i tre field goal bloccati in altrettante gare; chance, a Grossman, ne sono state date tante e ora, probabilmente, si è giunti alla fine. Se poi gli infortuni non risparmieranno i Bears versione 2007 come successo finora, bene, in quel momento potremo tirare in ballo la maledizione di chi ha perso il Super Bowl. Fino ad ora, però, abbiamo assistito all'inspiegabile autolesionismo di una squadra che, non arrivasse ai playoffs per i motivi di cui sopra, creerebbe davvero un caso unico nella storia. Ma il grido che chiamava Griese, ne siamo convinti, è stato raccolto anche da chi di dovere.

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